Raffigurazione scontro tra Achille ed Ettore, Iliade, Omero

Davide vs Golia – 6° puntata | I casus belli durante il Covid-19 e la morale della favola

Dopo un lungo spiegare e approfondire, il cammino arriva ad una conclusione? Beh, la conclusione non c’è se non l’attualità e il futuro che vivremo e che possiamo condizionare noi come comunità da protagonisti. Oggi si riprende il nostro storico argomento di questa diatriba istituzionale emergenziale dai tratti peculiari e tipicamente all’italiana, anche in questa circostanza infatti, il Covid-19 si è presentato non solo come una tragica emergenza da affrontare e combattere, o un’opportunità sulla quale rivedere errori e problemi, ma anche e soprattutto come il pettine che ha fatto venire alla luce ogni nodo.
Ciò che si discuterà non sarà il contenuto specifico di ogni singolo atto emanato durante l’emergenza e nemmeno capire quale tra questi sia risultato quasi “il migliore”, ma l’obiettivo sarà comprendere quale sia il motivo per cui, anche durante un’emergenza, ci siano vari atti e soggetti che pretendano di disciplinare in maniera diversa la stessa materia. Tutto ciò infatti, soprattutto in contesti particolari in cui si richiede coordinamento e collaborazione, può generare solo un flusso continuo di errori, confusione, disaffezione e debolezza delle istituzioni agli occhi dei cittadini.
Molti costituzionalisti, durante l’emergenza, si erano infatti dibattuti sulla necessità di rievocare il carattere nazionale del servizio sanitario, nonostante le già citate criticità sistemiche, ma la realtà diversificata e frammentata tra poteri e territori in ambito sanitario, sociale, politico ed economico non hanno sicuramente aiutato nel rendere realtà in molti casi tale proposito. La paura per il nuovo nemico, l’impreparazione sanitaria e gestionale, oltre all’avanzare di idee di autonomia e sovranismo portate all’eccesso, hanno generato: una reazione a catena emblematica e deleteria di botte e risposte, non in sedi ufficiali molte volte, ma tramite tweet o post/dirette polemiche; un afflusso normativo anarchico e controverso; scontri politici all’interno di un contesto, soprattutto all’avvento pandemico, molto simile a tratti allo stato di natura Hobbesiano, dove ciò che conta è il salvarsi, anche se da solo e poco importa del prossimo o del vicino.
Casi emblematici rimarranno per esempio: il caso del Presidente della Puglia che blocca delle apparecchiature destinate al Veneto; quello della Calabria che in un primo momento chiede di poter usare polizia ed esercito, per poi anticipare riaperture e infine ritornare sui suoi passi alle soglie di agosto con nuove chiusure in anticipo e lampo; Vincenzo De Luca attua una linea del rigore e blocca tutto; oppure le improvvise e brusche iniziative del colorito sindaco messinese De Luca, che tra minacce e ordinanze social, ha suscitato polemiche e anche uno stop dei passaggi ed ingressi nello Stretto di Messina.
Si direbbe che “la Paura fa Novanta”, ma in realtà la Paura ne ha fatte molte di più di ordinanze ripetitive o di contrapposizione tra Centro e Periferie o tra singoli territori diversi, anche di una stessa regione. In particolare il governo nazionale, nei mesi della prima ondata epidemiologica (da Gennaio 2020 a Settembre 2020), ha varato 268 provvedimenti normativi, fra i quali si distinguono, per importanza, 16 Decreti-Legge (DL) e 17 Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri(DPCM), a cui si accompagnano oltre 200 provvedimenti fra circolari, ordinanze, decreti e direttive ministeriali. A questi provvedimenti, le Regioni, vantando i propri poteri in materia di tutela della salute pubblica, hanno iniziato sviluppare, ritenendo l’attività governativa, un eccessivo accentramento, oltre che un abuso dei poteri in mano al governo, una serie di accuse e confronti in sede mediatica, oltre che l’emanazione di una serie di atti regolativi regionali, che riproponevano le misure del governo, o ne anticipavano delle nuove, o ne accusavano in alcuni casi “la troppa debolezza” o “la troppa rigidità”, contrapponendone nei propri territori misure opposte. In particolare la loro attività ha portato all’emanazione di oltre 850 ordinanze e 42 leggi delle regioni.
Alla base di questo ampio e complesso lavoro di produzione normativa c’era un assetto molto instabile nei rapporti e ruoli: la mancanza di una clausola costituzionale di supremazia statale e il ruolo politico dei presidenti di regione, che ha avuto come risultato una “gara a rialzo ” e “una vera e propria babele di divieti e permessi ” in cui la confusione tra i cittadini è prevalsa.
Il problema maggiore è stato però che in un momento di emergenza, dove si richiedevano soluzioni innovativi, agile e collaborative tra autorità, non rigidamente ferme ad un’idea di ripartizione di competenze, si sia verificata un’assenza di collaborazione e coordinamento. Si ricordi come altri autori (Kettl 2003; Christensen et al. 2016) abbiano assegnato particolare importanza a tutto ciò affinché si possa ottenere successo o meno nelle risposte alle crisi sanitarie e non, assieme al livello di preparazione organizzativa e gestionale dei governi e la presenza o meno di esperienze analoghe già affrontate in passato.
La domanda perciò da porsi è: l’attuale assetto delle relazioni stato-regioni e il loro modo di agire nel 2020, è la piena realizzazione del principio di «leale collaborazione» , che la Cost. stessa definisce come necessario per il buon funzionamento di un sistema di governo multilivello?
Il diffondersi del virus COVID-19 in Italia nel 2020 è stato il teatro di nuovi scontri duri tra il Centro e le periferie, generando un caos normativo e imponendo la risoluzione di rilevanti interrogativi giuridico-istituzionali per garantire l’adozione delle misure maggiormente adeguate a tutelare la salute e l’incolumità dell’intera popolazione. La situazione emergenziale, che non può essere affrontata con gli ordinari strumenti giuridici messi a disposizione dall’ordinamento, ha richiesto il ricorso a poteri straordinari e necessari a superare la situazione da parte del Governo e gli Enti locali, con l’adozione di provvedimenti derogatori dell’ordinamento vigente e la sovrapposizione di numerose norme attributive dei predetti poteri extra ordinem a soggetti istituzionali differenti.
Ciò che si è verificato in numerose Regioni è stata una ricorrente critica sulle scelte del governo, giudicate fin da subito incerte e insufficienti, e una convinzione superficiale, secondo cui il livello regionale fosse il più idoneo ad affrontare e risolvere questi problemi. Inoltre, i presidenti di Regione hanno affrontato questa emergenza con un eccesso di protagonismo che ha determinato spesso il superamento dei limiti costituzionali dei loro poteri, e prese di posizione e indirizzi eccessivamente emotivi. In particolare, gli attuali rapporti concorrenti in materia sanitaria non hanno tenuto conto che in questa emergenza i poteri di coordinamento del governo centrale devono avere la precedenza, soprattutto nel garantire il funzionamento del sistema e i livelli essenziali di assistenza. D’altra parte, lo stesso governo, già debole in sé , ha dovuto fare i conti con la novità e l’enorme complessità dei problemi da affrontare, e, dopo le incertezze iniziali, nel vivo delle difficoltà e nonostante i ripetuti attacchi a Giuseppe Conte delle opposizioni, ha ritrovato una certa fermezza di indirizzo e di intervento .
Nello specifico l’azione di contrasto all’emergenza durante la Fase 1 ha visto un potere di rilievo attribuito al Presidente del Consiglio, che ha ridotto sia il margine di azione parlamentare (dimostrazione di ciò è stata la scelta di non adottare i decreti legge ma i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri), sia del Ministro della Salute, il quale può intervenire solo in assenza di un provvedimento del P.d.C. e sia dell’intervento regionale, subordinato alle stesse linee guida dettate dai DPCM . La base giuridica in generale di tali provvedimenti era data dal fine della tutela della salute, diritto dell’individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost.) , posta in una posizione di rilievo rispetto alle libertà che automaticamente gli stessi provvedimenti limitavano , e dall’eccezionalità della fattispecie in esame, che imponeva l’uso di misure “tempestive e necessarie”. L’adozione dei DPCM poneva in risalto il difficile, ma non incompatibile, rapporto con il fondamentale principio della separazione dei poteri.
L’accentramento voluto dal Governo era quindi giustificato dalla situazione di estrema gravità vissuta dal Paese, ma tutto ciò aveva alimentato solo gli scontri politici e istituzionali, in particolare con i presidenti di regione, i quali ponendo in risalto la loro autonomia e i loro poteri sui territori di competenza, sviluppavano il proprio dissenso, più che all’interno di sedi istituzionali legittimate (a riprova di ciò c’è lo scarso utilizzo della Conferenza Stato-Regioni durante l’emergenza ), su palcoscenici mediatici e social.
I decreti legge che disciplinavano via via l’emergenza e le sue fasi, soprattutto nei rapporti istituzionali, non sono quasi mai riusciti nei primi mesi a placare le critiche e nonostante in particolare il D.L.19 del 25 Marzo 2020, chiarisse quali fossero i compiti delle regioni e dei provvedimenti da adottare, con chiari confini e limiti di competenze, anche questo non arrestò le derive protagoniste di alcune figure politiche nel corso dell’emergenza.
In particolare, il risultato di questo brusco braccio di ferro ha portato solo a confusione e ad un enorme lavoro da parte dei Tar Regionali per discutere su legittimità più o meno condivisibile dei vari provvedimenti e alla quasi totalità di verdetti di questi ultimi a favore della linea governativa e alla conseguente perciò sospensione dei provvedimenti regionali.
Il caso più emblematico di scontro e conflitto multilivello rimane comunque l’ordinanza n. 37 del 29 Aprile 2020 emanata dalla regione Calabria e dalla sua Presidente Santelli. L’ordinanza numero 37 rappresentava la volontà della presidente di creare un’idea di fase 2 più ampia in Calabria rispetto a quella statale, generando anche all’interno del territorio regionale un dissidio su quale linea fosse da seguire (numerose città hanno infatti deciso di adottare la linea governativa di attesa, altre l’ordinanza in questione). E tanto per cambiare, sapete qual è stata la risposta del Tar Calabria:
“l’emanazione di norme misure necessarie a contrastare il Covid-19 spetta al presidente del Consiglio, mentre alle Regioni è dato intervenire” solo per alcuni aspetti. Per questo motivo “emerge chiaramente l’illegittimità dell’ordinanza del presidente della Regione Calabria”.
Vi è da precisare comunque, che il duro scontro si verificò in particolare durante la Fase 1, mentre nella Fase 2 in particolare nell’emanazione dei protocolli di sicurezza per le riaperture e del DL n. 33, approvato il 16 maggio, si è visto un arduo lavoro di coordinamento e collaborazioni tra tutte le realtà coinvolte attraverso la realizzazione di tavoli di regia ad hoc.
Questione che riporta l’attenzione invece, successiva alla Fase 1, è il caso dell’ordinanza di Agosto n.33 del Presidente Musumeci, una chiara presa di posizione contro la linea governativa su questione migranti e sanitaria.
Infatti il braccio di ferro estivo ha rimesso in luce la problematica dell’ambiguità del testo dell’art. 117 della Riforma del 2001, in particolare sulla questione poteri Stato e Regioni, contrapponendo, in fattispecie simili, rispettivamente la competenza in materia di profilassi internazionale del primo contro il ruolo di garante sanitario territoriale delle seconde. Anche in questo caso il Tar non ha potuto che dare prevalenza alla linea governativa, tuttavia ancora tutt’oggi la questione non può dirsi risolta, anzi…
I casi analizzati oggi rappresentano la ciliegina del nostro percorso. Introdotti nella prima puntata, ad oggi in virtù degli approfondimenti sviluppati, ci risultano più familiari e più comprensibili, perciò andiamo a fare una summa su ciò che può essere considerata la morale della “nostra favola”.
Le varie domande che ci potrebbero venire in mente, si potrebbero anche sintetizzare con un solo quesito: l’Italia nel complesso, nella sua organizzazione territoriale del potere tra Stato e Regioni, si è dimostrata resiliente all’urto Covid-19?
Le risposte che si possono dare sono certamente anch’esse da approfondire e sottoporre al vaglio, ma in base allo studio portato avanti, si proverà a dare una giusta e piena argomentazione. Se si riprende la definizione di Resilienza, lasciando da parte la concezione di questa nella tecnologia, nel suo significato psicologico, voleva racchiudere “la capacità di reagire alle difficoltà e agli eventi traumatici, riorganizzando la propria vita e trasformando gli ostacoli in occasioni di crescita” .
Da questa stessa definizione, se si prende in considerazione il Caso Italia, dal punto di vista degli sforzi sanitari compiuti e delle difficoltà alle base per molti SSR, anche in virtù dei possibili rischi connessi, si può tranquillamente pur dire che durante la prima ondata, “tutto sommato” si è dimostrato in grado “di reggere l’urto” .
La riorganizzazione delle terapie intensive e degli ospedali, le cure sperimentali, le manovre attuate dal governo hanno dimostrato che l’Italia abbia evitato danni ben peggiori di quelli avuti, anche se ci sono stati degli errori e delle carenze. Tuttavia, nonostante l’elogio e l’encomio da destinare ai sacrifici del Sistema sanitario, la stessa definizione di resilienza porta realmente tutti a porre una domanda di fondo: le difficoltà vissute e le criticità dimostrate dal Sistema si sono realmente apprese e si ha avuto realmente da questa crisi quella finestra di opportunità per rilanciare il Paese?
Le differenze del Sistema Italia nei suoi Sistemi Sanitari, il complesso delle fonti, i vari poteri e la poca chiarezza da parte del testo Costituzionale, carente di una disciplina emergenziale, hanno portato in risalto problemi di cui si doveva solo togliere il velo, come le manie di protagonismo di alcune figure politiche, le carenze del riparto delle competenze lasciato dal titolo V e i rapporti precari tra Centro e Periferia con la necessità di nuove riforme ma soprattutto di una nuova cultura politica per gli amministratori italiani. Un’ulreriore premessa da compiere è sul fatto di come le nostre regioni beneficiano di un riparto legislativo da rivedere e in cui la riforma del 2001 ha solo portato in luce una questione “zoppa” e irrisolta con lo Stato .
La riforma del 2001 è da considerarsi “zoppa”, proprio perché lo spirito che la guidava lasciava presupporre un prosieguo nelle riforme da attuare nella gestione dei rapporti Centro-Periferia, che però nei fatti sono rimaste solo idee, alimentando solo la tensione e facendo in modo che i presidenti di Regione affrontassero questa emergenza con un eccesso di protagonismo e con un senso di sfida all’autorità centrale, mostrando molte volte il superamento dei limiti costituzionali dei loro poteri, dimostratesi nelle varie ordinanze a flusso emanate, in anticipo o semplicemente in contrasto alla linea governativa.
David Alexander, come molti teorici delle emergenze, ha da sempre professato come parole d’ordine nella gestione di un’emergenza i termini: Coordinamento e Collaborazione tra i vari attori. Nel caso italiano, nei rapporti Stato e Regioni durante l’emergenza se pur non sia mancato del tutto, ha bisogno di essere rivisto e riportato all’attenzione.
L’idea di accentramento voluta dal Governo, non si è solo scontrata con le singole figure dei Presidenti di Regione, ma anche dalla struttura multilivello della stessa sua governance, frammentata in sedi e strutture ordinarie e speciali (Arcuri e le task force, Protezione civile, Inps, Inail, Istituto superiore di sanità e naturalmente i ministeri di settore), oltre che di un riparto funzioni con i territori confuso .
Il principio di leale collaborazione mancava sia “a monte”, in fase cioè di emanazione dei D.P.C.M., sia “a valle”, nella sede di adozione delle ordinanze regionali, nonostante venisse professato come criterio risolutivo.
Alla base di questa assenza, non c’erano solo meri motivi politici o personalità troppo forti ferite nell’orgoglio, ma una storica diatriba su quale modello istituzionale si rivolgesse come assetto la Repubblica Italiano.
“Nessun paese riconosce vantaggi in un assoluto accentramento o decentramento”
(Gianfranco Viesti, 2019)

Inoltre ciò che ha caratterizzato i conflitti Stato e Regioni durante l’emergenza è stata la mancanza di una sede stabile di mediazione istituzionale, capace di assicurare la rappresentanza di tutte le regioni nei rapporti con lo stato, il confronto sistematico nel law-making nazionale e la composizione dei diversi interessi, come prospettato dal federalismo cooperativo rimasto incompiuto. Alla base di questi problemi c’è però la Questione Titolo V, che generava una criticità del disegno istituzionale, che tutt’oggi porta a riproporre stereotipi macro-organizzativi che vedono ora tornare di moda la centralizzazione: «lo Stato dovrebbe avere più poteri»; «il decentramento crea confusione», etc . Un gioco di slogan che se anche in questo caso portato agli estremi, non genera la “compliance” dell’art.5, a dimostrarlo è il fatto che le regioni abbiano mantenuto policies diverse. Il modello italiano non può configurarsi perciò né con il centralismo proposto dei primi decenni di vita repubblicana, e nemmeno con il regionalismo degli ultimi decenni. L’assenza della collaborazione nella creazione dei provvedimenti normativi del Governo dei Territori, oltre ad aggravare la tensione, ha esasperato la questione dell’assenza di un luogo e di uno strumento effettivo dove raggiungere l’intesa.
La Riforma del Titolo V e il suo “intreccio delle competenze ” può essere risolto o con una riforma costituzionale, ad oggi quanto mai difficile da attuare, o con un sistema di riforme che riprendano il percorso già avviato di una maggiore partecipazione dei territori, tenendo conto ormai della forza politica di cui rivestono. Il sistema della riforma costituzionale del 2001 non era la soluzione alla questione, ma un punto di partenza a cui sono mancate le riforme successive. Non si può pensare di risolvere le controversie con un mero riparto delle competenze e dei poteri.
Alcuni storici, hanno pensato di riesumare l’art. 11 della legge costituzionale del 2001 , per la partecipazione delle Regioni al procedimento legislativo statale attraverso il procedimento di revisione della Costituzione per collocare tra gli organi costituzionali la cosiddetta Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. Tuttavia anch’essa non può rappresentare l’emblema dell’esigenza primaria da ottenere.
Non si può immaginare un’idea che ognuno si salvi da solo , ma creare una nuova visione della politica, in cui si generi quella reale concezione di cittadinanza nazionale, ma si può sempre iniziare a mutare la prassi, incrementando gli incontri tra i territori e richiedendo uno speciale sforzo comune nell’azione e nella proposta.
Allo stesso modo la soluzione predisposta dalla riforma costituzionale di Renzi del 2016, bocciata, non era certo la migliore delle soluzioni possibili, ma comunque era una soluzione che apriva il dibattito e la riflessione sul tema (“Il fatto è che il perfezionismo è un peccato imperdonabile nel modellare, le istituzioni politico-costituzionali; è sempre meglio una soluzione non perfetta che nessuna soluzione. ”). Tuttavia, sembra doveroso riprendere la discussione anche sulla questione “la Camera dei rappresentanti dei territori”. Una prima proposta avanzata dal dibattito pubblico suggeriva l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con i presidenti delle regioni (e province autonome), come prospettato dalla riforma costituzionale del 2001, in modo da consentire concertazione e ricomposizione degli interessi regionali in sede parlamentare.
Un ulteriore proposta potrebbe essere la Riforma del Sistema delle Conferenze, con un provvedimento che liberi dalla disciplina della prassi il sistema e assicuri un maggior peso giuridico da attribuire alla Conferenza dei Presidenti delle regioni (ed eventualmente dei sindaci), costituzionalizzandola e attribuendole quello status idoneo di sede di concertazione, in quanto rappresenta in sé la flessibilità e collaborazione richiesta in questi casi.
L’ipotesi del costituzionalista Bin, ad esempio, è che: la Conferenza Stato-regioni (o l’Unificata) istituisca tavoli stabili di lavoro tra le amministrazioni centrali e periferiche – che già per altro esistono e funzionano – per tracciare le linee di confine delle competenze rispettive. Materia per materia, politica per politica, andrebbero così fissati i punti che lo Stato ritiene necessariamente soggetti ad una disciplina unitaria e gli ambiti in cui invece le regioni sono libere di agire; le regole che appaiono inderogabili e i principi che le regioni non possono contraddire; gli adempimenti che lo Stato vuole sempre e comunque rispettati e le attività che restano disponibili per le scelte autonome delle regioni; il “minimo” di competenza che alle regioni va sempre e comunque riconosciuto, salvo che la loro discrezionalità non trasmodi in arbitrio, e le ipotesi codificabili che sicuramente appariranno arbitrarie .
In tutto ciò però è necessario l’impegno politico del Governo a coinvolgere le regioni in fase di preparazione delle leggi e degli atti legislativi e di programma, adottando un sistema di comunicazione preventiva alla Conferenza dei presidenti, lasciando alla presidenza della Conferenza il compito di chiedere di esprimere parere formale entro tempi molto brevi .
La diversificazione tra le regioni italiane mostra come sia necessaria la loro differenziazione (“situazioni eguali vanno trattate in modo eguale, ma situazioni diverse devono essere trattate diversamente”), sia come aiuto e supporto, sia come fonte di apprendimento, come insegna tale esperienza. Tuttavia, anche se il decentramento non può essere considerato un ostacolo, ma uno strumento efficace per combattere anche un’emergenza sanitaria come quella vissuta, grazie alla vicinanza e alla conoscenza dei territori, le idee portate avanti dalle regioni del Nord del 2017 possono portare ad un ulteriore estremo, se non tutelate da un disegno di messa a punto di meccanismi perequativi che assicurino l’equità di diritti e prestazioni sull’intero territorio nazionale e alla maggiore responsabilizzazione fiscale delle regioni, in modo da assicurare la tenuta finanziaria del paese, e si eviti una semplice competizione tra regioni, con conseguente esclusione alla gara meritocratica ai cittadini delle Regioni più svantaggiate .
Il decentramento, infatti, non può essere allo stesso modo dell’accentramento la soluzione assoluta, se non viene canalizzato su binari che portino ad una maggiore rivalutazione delle istanze dei territori. Fondamentale perciò nell’attuazione del federalismo fiscale, è la definizione dei LEP e la creazione di un quadro comune di regole e principi (invece del mero negoziato bilaterale) delle richieste di maggiore autonomia, alla base della proposta del Ministro Boccia del Dicembre 2019. Il lavoro di riflessione può partire da questo spunto, affinché si convergano le varie linee ideologiche sotto l’impulso del “principio di leale collaborazione”.
Allo stesso modo l’emergenza ha messo in risalto il caso delle controversie giuridiche tra atti di diversa natura in contrasto. Il caso dell’ordinanza n.37 della Regione Calabria può essere preso come esempio. In tale circostanza il modus operandi del Governo è stata l’impugnazione delle ordinanze regionali in contrasto alle sedi giuridiche di natura amministrativa, il Tar, a cui poi sarebbe spettato il verdetto. Tuttavia tale procedura si è dimostrata non totalmente efficace per due motivi: il primo è il permanere in vita delle ordinanze nonostante la loro palese illegittimità; poiché in assenza di un’espressa declaratoria di inefficacia di esse, quest’ultime continuano comunque a rimanere in vita ; la seconda, riprendendo le famose parole di commento della “governatrice” Santelli (“la vittoria di Pirro”), è basata sul fatto che la pronuncia del Tar non sia la piena e manifesta espressione di organo in grado di risolvere tali controversie, poiché di natura costituzionale. Tali accuse infatti delegittimavano il ruolo del giudice amministrativo, ma mettevano in risalto come la disciplina peccasse ancora di un’adeguata procedura risolutiva in termini di soggetti legittimati e di azioni concrete ed effettive da compiere.
Il coronavirus ci consegna il ritratto di un Paese contagiato anche sotto il profilo della certezza del diritto («e dei diritti») , come anche dei rapporti tra istituzioni. In fondo però a tutte le questioni richiamate, tra cui la tendenza a personalizzare la politica e i suoi atti, vi è un’impellente necessità di riformare le istituzioni come individui a livello culturale e politico, riportandoli alle funzioni più alte tanto della politica quanto della cultura, e riportando in voga i principi della formamentis istituzionale. La caduta del modello partitico come scuola di formazione è alla base del fenomeno della personalizzazione della politica e della carenza costruttiva dei suoi uomini, molto più tesi a distruggersi e a distruggere anziché a costruire una Comunità. Una politica debole e senza partiti è una politica fondata sui leader e uomini forti, anche in ambito regionale.
La pandemia ha reso evidente come sia necessario avviare una discussione sul tema Centro e Periferie, valorizzandone l’importanza di quest’ultime, non più viste come “accessorio” di una politica accentratrice. Tutto ciò si pone come una grande opportunità da cogliere. “Dobbiamo imparare le lezioni di questa pandemia e dobbiamo farlo alla svelta perché la prossima può arrivare prima di quanto pensiamo”
Bisogna innanzitutto capire quali siano state le ragioni dei successi di alcune esperienze regionali e gli insuccessi di altre, avvantaggiandosi di una differenziazione regionale in materia di sanità, posto che non si può prescindere dal contributo del livello regionale per meglio adattare le misure nazionali alle specificità territoriali .
Alla base di ciò, le amministrazioni politiche devono riuscire a convergere in una sintesi del famoso dilemma sanità vs prosperità , comprendendo che lo smantellamento del sistema sanitario pubblico e la sua trasformazione in un’industria medica in fase di privatizzazione è un danno in circostanze pandemiche come questa. Il Bilancio è da considerare come un vincolo, non come un obiettivo della sanità, il cui obiettivo è infatti fornire un servizio per la collettività. La sanità infatti è da considerare non come un costo, ma come un investimento importante e funzionale in termini di occupazione e di ridistribuzione del reddito. Diventano necessarie post-Covid importanti riflessioni e novità su: introduzione del digitale nella sanità e nel reimpostare un progetto di formazione e ricerca esterna e interna sia di medici che di buoni amministratori, per tentare di produrre una classe dirigente preparata e con una preparazione interdisciplinare e che guardi anche all’aspetto etico.
Bisogna riconsiderare una “manutenzione dell’insieme dei rapporti tra lo Stato e le regioni nella sezione del titolo V della Cost .”, cercando casomai di riportare le grandi sfide sociali al Governo (salute, istruzione e ambiente) , valorizzando una maggiore autonomia dei territori su altre (come il welfare), proponendo uno schema che vada oltre l’attuale “rigidità”, riconsiderando le idee che portavano anche ad una maggiore partecipazione delle Regioni al processo di law-making, anche in virtù del loro maggior peso. In tutto ciò però non può essere da meno il ruolo altrettanto chiaro di sostegno e di aiuti, sul piano sovranazionale, che deve garantire l’Unione europea.
Francis Fukuyama, nella sua tesi di natura prettamente economica, precisava che: “usciranno meglio dalla crisi economica postpandemica e più velocemente quei paesi che hanno: amministrazioni pubbliche efficienti, leadership politiche efficaci e una fiducia sociale diffusa ”. In base a tutto ciò, le Istituzioni italiane devono comprendere che il momento delle Riforme è arrivato e che una buona gestione condivisa e compatta dell’emergenza sanitaria può produrre le basi per una buona ripresa economica post-pandemia. Alla domanda: l’Italia si è rivelata resiliente? ”
Oggi si pone tale risposta: nonostante le carenze organizzative e una non ottimale collaborazione, l’emergenza ha comunque messo in risalto le capacità resilienti di un sistema e di un popolo, che poche volte nella storia si era ritrovato così unito e riunito, come una Nazione. Lo spirito dei primi giorni, un mix tra paura e voglia di fare, attraverso slogan, riti collettivi, campagne di raccolta fondi o semplicemente rispettando le limitazioni imposte, ha dimostrato una grande coesione, oltre che una rivalutazione del settore sanitario e dei suoi operatori.
La speranza in tutto ciò, nel tentativo di attuare la migliore gestione possibile, è che si ritrovino le condizioni per una maggiore e leale collaborazione, avendo presente che fin d’ora questa vicenda ci ha indicato almeno due insegnamenti da non dimenticare. Innanzitutto, il valore fondamentale, pur con i suoi evidenti limiti provocati da decenni di gestione non sempre coerente, del nostro Sistema sanitario nazionale, che va valorizzato e migliorato con adeguati investimenti umani e materiali. In secondo luogo, la prevista autonomia differenziata regionale va rivista alla luce di quest’ultima esperienza per evitare forzature semplicistiche del nostro delicato sistema istituzionale che poi dovremo pagare in termini di conflitti paralizzanti.
Buccini nell’opera “Governatori”, dopo aver ampiamente criticato la gestione regionale e il modello del decentramento, auspicava alla cosiddetta “riforma delle riforme”, che andava oltre il semplice superamento di un modello di asset istituzionale, e che si doveva porre come punto di partenza per il vero rilancio italiano: uno scatto in avanti del nostro senso civico, di una più compiuta idea di comunità pacificata dentro norme condivise e rispettate da tutti, realizzando così la vera rivoluzione civile mancata al tempo di Mani pulite . Da questo spunto si confida nel buon senso delle Istituzioni e della cittadinanza tutta, affinché l’auspicio di Buccini e degli altri teorici non rimanga utopia o sul piano dell’astratto, ma si materializzi in una nuova e prospera idea di solidarietà nazionale e istituzionale.
Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.
Messaggio di fine anno agli Italiani del 1981, del Presidente della Rep. Italiana Sandro Pertini


Davide vs Golia, Achille vs Ettore o chissà con quale altra immagine potremmo accostare questo conflitto. Chi è lo Stato tra i due? Chi le Regioni/le Periferie?
La domanda non è chi sono loro, ma chi possiamo essere noi e soprattutto come risolvere tale diatriba come molte altre. La rubrica arriva al suo termine, non volendo porre in risalto posizioni ideologiche o preferenze di alcun tipo, ma solo porre un accento su questa come altre questioni poco discusse in Italia. Ad oggi la pandemia ancora non è un brutto ricordo, ma attualità! Tuttavia, un’emergenza devastante come il Covid-19 non può essere scusa o giustificazione per non cambiare modo di concepire e vivere la comunità!
Oggi Davide vs Golia e l’Ass. Geopolis tutta vi ringrazia dell’attenzione e di averci seguito nel corso di questi mesi, aspettando nuovi spunti, idee o riflessioni per Costruire anziché Distruggere, per Fare e Sognare dove molte invece può prevalere solo il dire o lo sconforto!


Ad maiora semper


BRUNO MONORCHIO

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