LOMBARDIA, EMILIA ROMAGNA E VENETO… COSÌ SIMILI MA COSÌ DIVERSI
Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto: tre regioni del Nord Italia, distanti da pochi km, considerate da molti esperti come il “motore economico” del Bel Paese Italiano, nei primi mesi del 2020 si sono ritrovate a combattere un nemico comune e sconosciuto: il Covid-19. Nonostante la vicinanza e l’importanza che rivestono però le armi a loro disposizione così come i presupposti cambiavano profondamente da territorio in territorio.
Nelle tre regioni risiedono complessivamente 19,4 milioni di persone circa, cioè il 31,5% della popolazione residente in Italia, e a livello economico le tre regioni hanno contribuito a sostenere negli anni il Pil a livello nazionale più di chiunque altro territorio, grazie alla loro vastità di attività economiche presenti. Inoltre, dal punto di vista politico, nel 2017 le tre Regioni si sono promosse capofila di varie iniziative di referendum consultivi per richiedere allo Stato Centrale maggiori poteri e autonomia sul proprio territorio, in particolare richiedendo il cosiddetto “residuo fiscale”, ovvero una maggiore libertà di gestione dei tributi riscossi nei propri territori, trattenendone una parte maggiore rispetto a quelle di solito destinate dallo Stato su base perequativa a tutte le altre regioni. L’idea in particolare basata sulla logica secondo cui le regioni a più alto reddito trattengono una parte maggiore delle tasse raccolte nel proprio territorio, sottraendola alla fiscalità nazionale. I tre territori infatti, proclamando quasi “una secessione dei ricchi”, in un contesto fortemente frammentato del SSN, proponevano l’attuazione di tale principio in particolare sulla questione sanitaria.
All’avvento del Covid-19 in Italia, la questione rimaneva però ancora irrisolta, tanto che intese e accordi di natura bilaterale si sono succeduti nel tempo e ancora rimane in cantiere la bozza del 2019 dell’intesa Stato-Regioni sulla questione dei LEA e la loro definizione, su proposta dell’ex Ministro per gli affari regionali Boccia.
Tre regioni simili su molti aspetti e non solo sulle richieste, che nemmeno a farlo apposta, ricevono, anche grazie ai loro ampi collegamenti internazionali, prima di ogni altro territorio, l’arrivo del virus cinese Sars-Cov2. Nelle somiglianze però risiedono anche profonde differenze, una su tutte, fondamentale in un contesto emergenziale, è quella relativa ai loro leader. Le Regioni, di per sé, durante i primi mesi emergenziali, si sono ritrovate in particolare protagoniste con i loro presidenti di Regione, ulteriormente legittimati dal 1999 (data della loro prima elezione), e tra questi dominus di riguardo particolare rilievo hanno: Fontana, Bonaccini e Zaia, rispettivamente i “governatori”[1]della Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto.
I tre, infatti, si renderanno protagonisti di importanti provvedimenti durante l’emergenza e in alcuni casi di vari scontri istituzionali con il Governo, tanto da essere ancora oggi ricordati.
In un contesto in cui il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) altamente decentrato, che attribuisce grande autonomia gestionale alle singole amministrazioni regionali, con strategie e modelli organizzativi dissimili tra di loro, anche in termini di qualità dei servizi offerti, e in un contesto emergenziale di profonda confusione su chi fosse il vero garante della salute sui territori tra il Governo e le Regioni, e la conseguente profusione di atti emanati da una parte e dall’altra, i tentativi di omogeneità da parte dello Stato svanivano contro una realtà dei fatti ben diversa.
L’analisi odierna, in sintesi, attraverso un’indagine delle strategie messe in campo da queste tre Regioni durante i primi mesi emergenziali del 2020, mostrerà come la varietà di sistemi sanitari in Italia ponga ad uno stesso problema risposte diverse.
La Lombardia, di trazione leghista sotto il presidente Fontana, è sicuramente la regione “sorpresa” dell’emergenza, in quanto non solo si ritrova a divenire il focolaio principale e iniziale dei primi giorni, ma anche perché numerose sue certezze di natura strutturale del sistema sono crollate a causa dell’esigenze emergenziali e di “scellerate scelte di natura politica e organizzativa”.
La Lombardia, che ha fatto dell’eccellenza ospedaliera una bandiera in tutto il mondo, si è scoperta infatti quasi totalmente sguarnita dal punto di vista dell’assistenza sul territorio, sin dal primo caso accertato di Codogno del 20-21 Febbraio 2020. Disorganizzazione su piani emergenziali e sulla gestione delle strutture ospedaliere e dei centri sul territorio ha aggravato una situazione assurda e paradossale in termini di contagi, ricoveri e decessi.
Sin dai primi anni Novanta, perciò in Lombardia si era generata una netta contrapposizione tra assistenza ospedaliera e assistenza territoriale, accentuata dalla riforma regionale del 2015 (l.r. 23 del 2015) . La riforma infatti aveva rivoluzionato il sistema sanitario lombardo, sopprimendo le Asl e le Ao(Aziende Ospedaliere) sul territorio e creando al loro posto 27 Aziende socio-sanitarie territoriali (Asst) e 8 Agenzie di tutela della salute . La riforma inoltre, aveva generato una maggiore frammentazione del sistema lombardo rispetto ad altre regioni. Infatti si erano sviluppate all’interno del sistema quasi il doppio di Asst rispetto alle provincie loro assegnate (la Lombardia ha oggi un numero di Asst (27) più che doppio rispetto a quello delle province (12)), generando una maggiore difficoltà di coordinamento), rispetto a territori come il Veneto e l’Emilia Romagna, dove la riorganizzazione del 2016 ha portato rispettivamente alla creazione di 9 Asl in 7 Province e 8 Asl in 9 Province. Inoltre, negli anni il modello “Lombardo” si è sempre più contraddistinto per il ruolo che aveva assunto il “privato”, sulla base di una logica del “mercato interno”, che ha fatto sì che nel sistema si creasse una competizione a pari livello tra strutture pubbliche e private. Infatti la Lombardia esternalizza a fornitori privati il 40,2% del proprio budget rispetto al 30,4% del Veneto o all’Emilia-Romagna con il suo 29,7% e rispetto ad una media nazionale del 33,8%[3].
Il fulcro, però, della questione è il ruolo “degli ospedali”, infatti la Lombardia all’assistenza ospedaliera assegna ogni anno il 46,8% del proprio budget, dimostrando perciò una maggiore predisposizione e attenzione al potenziamento delle cure ospedaliere a discapito dei trattamenti extra-ospedalieri e del territorio, che perciò nel corso degli anni hanno avuto numerosi tagli[4].
Lasciando da parte tuttavia le diatribe sulla gestione con il Governo, la Lombardia, da questa premessa e base anche culturale ha continuato ad operare e a gestire l’emergenza nei primi mesi. Infatti le risorse destinate dall’amministrazione Fontana sono state incentrate ad un ampio incremento dei posti ospedalieri di terapia intensiva e sub-intensiva, oltre che alla realizzazione di strutture ospedaliere provvisorie come la mega struttura di Milano City Life. Tuttavia tali misure non si sono rivelate idonee nel sopportare il peso dell’emergenza, soprattutto se non accompagnate da una logica di incremento dei servizi sul territorio o all’attivazione delle cosiddette USCA. Inoltre, scelte politiche sulla gestione delle zone rosse nei territori della bergamasca o la scelta di ricoverare i pazienti paucisintomatici ma ancora positivi all’interno delle strutture per anziani(RSA) attraverso la delibera n.9 dell’8 Marzo hanno mostrato l’apice del fallimento gestionale. La Lombardia infatti ha completamente sottovalutato l’importanza di coordinare e supportare l’attività ospedaliera con un lavoro nei territori e a dimostrazione di ciò, c’è il fulcro di tale strategia dimostrato negli ospedali del Lodigiano: “il ricovero a chiunque presenti sintomi”. Tale slogan è chiara sintesi di come i primi mesi siano stati per la Lombardia la chiara dimostrazione del collasso ospedaliero. Gli Ospedali lombardi, certi della loro supremazia, infatti si sono ritrovati in una situazione assurda, con una propria trasformazione a volte da luoghi di cura a rischio del contagio. Sul disastro gestionale lombardo, molto ancora si potrebbe dire, come dimostrano le rassegne giornaliste o le pubblicazioni già presenti, ma tuttavia ci limiteremo solo a mostrarne i tratti peculiari, di una gestione descritta da Agnoletto nel suo ultimo libro “Senza Respiro”, come la Caporetto della medicina.
Speculare alla strategia adottata e messa in campo dalla Lombardia, vi è quella del più lungimirante presidente della regione Veneto Zaia. Anche lui leghista, anche lui in netta contrapposizione con il Governo e anche lui voglioso di maggiori poteri e maggiore autonomia sul proprio territorio, ma con una struttura molto più incentrata a tutelare la sanità nei territori e con scelte coraggiose e apri-pista di una nuova idea anche nazionale di prevenzione e gestione. Il Veneto presentava, all’avvento epidemiologico, un modello che aveva attribuito maggiore importanza alla programmazione pubblica e all’integrazione delle cure, prediligendo il potenziamento di una struttura di offerta più pubblica. Infatti negli anni il Veneto si era già dotato delle cosiddette Medicine di gruppo integrate(MGI), team multi-professionali di medici di medicina generale, pediatri, infermieri e assistenti sociali. A tali team multi-professionali è affidata la presa in carico dei malati cronici e, più in generale, l’assistenza primaria della rispettiva popolazione di riferimento. L’arrivo del Covid-19 in Veneto avviene nella cittadina di Vo’ Euganeo e sin dai primi istanti si notano differenze di gestione dei reparti e dei protocolli rispetto alla vicina Codogno. Infatti veniva attuava infatti un’opera di sanificazione e trasformazione delle strutture ospedaliere pubbliche (come l’ospedale di Schiavonia), con al suo interno tutto il personale obbligato a sottoporsi a tampone e la creazione di appositi percorsi differenziati per pazienti Covid e non Covid. Inoltre alla base di questi primi interventi c’era una strategia fondata su un coordinamento tra autorità sanitarie (Regione e distretti sanitari) e il territorio attraverso il potenziamento di MGI e dei medici di guardia. L’idea di gestione veneta, infatti, era di tipo territoriale. A facilitare i collegamenti e la buona riuscita strategica, tentando di eliminare o ridurre al minimo ogni vincolo o via burocratica, si sono attuati una serie di provvedimenti che facilitavano la cura sui territori direttamente nelle case dei richiedenti ed evitavano, ad eccezione per casi estremi, il ricorso all’ospedalizzazione. L’obiettivo infatti era di evitare un sovraccarico dei reparti ospedalieri, per garantire non solo migliore cure ai pazienti, ma anche un maggior controllo/monitoraggio sul territorio, per permettere anche quell’opera sopracitata di potenziamento ospedaliero. Inoltre in aggiunta a tali provvedimenti veniva predisposto attraverso un piano emergenziale un potenziamento delle strutture ospedaliere nelle province venete, con un incremento dei posti di terapia intensiva e sub-intensiva. I risultati di questi provvedimenti sono stati che: soltanto poco più del 20% dei positivi è stato ospedalizzato e che al netto di un aumento dei posti di terapia intensiva del 67%, il valore medio relativo ai pazienti ospedalizzati sugli individui in assistenza domiciliare è stato il più basso rispetto a Lombardia ed Emilia-Romagna e pari a 0,25.
Fulcro però di questa linea di azione è la cosiddetta idea della “sorveglianza attiva”, che si è esplicata nel tanto criticato e poi emulato provvedimento della somministrazione dei tamponi a tappeto a tutta la popolazione del comune di Vo’ Euganeo e poi successivamente nelle altre province. L’idea criticata dal Governo e da esperti come il prof. Ricciardi, si fondava sulla convinzione che gli asintomatici avessero le stesse probabilità di contagio dei soggetti che presentassero dei sintomi. La strategia rientrante all’interno di un apposito Piano di sanità pubblica prevedeva la creazione di un sistema di tracciamento dei contatti, anche occasionali, con la creazione di un’unità ad-hoc, che garantisca l’effettuazione dei tamponi anche a domicilio. Tale mossa, collegata ad un potenziamento delle USCA e ad un coordinamento con le MGI, si è rivelata un successo e un modello che da criticato divenuta emulato dal Centro e dagli altri territori. Inoltre in aggiunta questi provvedimenti vi è la lungimiranza nel capire che il Veneto dovesse autodotarsi e autoprodurre i reagenti in grado di analizzare più tamponi nella stessa giornata, iniziativa promossa dall’ Università di Padova e dal prof. Crisanti. In particolare la procedura di controllo sui territori prendeva il nome di test «a centri concentrici», secondo la quale: una volta manifestati i primi sintomi, anche lievi, il soggetto veniva sottoposto a tampone e iniziava un periodo di quarantena fiduciaria in attesa dell’esito, che in caso di positività faceva attivare una procedura di screening su tutti i suoi contatti stretti.
Infine l’Emilia-Romagna, a trazione PD del Presidente Bonaccini, si è ritrovata a vivere tale emergenza in un contesto paradossale e più di mediazione tra i due modelli mostrati precedentemente. Il modello attraverso vari provvedimenti nel corso degli anni ha posto in risalto, come avvenuto in Veneto, l’importanza di un buon apparato sanitario pubblico integrato da un sistema territoriale capillare e poco frammentato. Gli investimenti, per esempio, che avevano portato alla creazione in Emilia-Romagna delle Case della Salute , sono dimostrazione di come sin dal 2018 si fosse avviato un percorso di potenziamento infrastrutturale e umano della sanità pubblica.
Il Covid-19 arriva in Emilia-Romagna il 23 Febbraio sul territorio di Piacenza. Lasciando da parte la questione ordinanze e zone rosse, da quella data la strategia della Regione Emilia-Romagna attuata durante la prima fase del Contagio per quanto riguarda l’organizzazione sanitaria, rappresentava il giusto mix tra i due modelli appena rappresentati e presentava al suo comando, oltre al Presidente regionale Bonaccini, la figura dell’assessore alla sanità Donini, appena insediato all’arrivo del virus, e il supporto del Commissario ad acta per l’emergenza, il Dott.Venturi , nonché ex-assessore alla sanità della regione. A dimostrazione di ciò i dati ci mostrano come ci sia stato un ricorso intermedio all’ospedalizzazione (oltre che una minor incidenza nell’uso delle terapie intensive), pari a circa il 40% dei positivi (quindi inferiore a quanto avvenuto in Lombardia e Piemonte, ma superiore a quanto registrato in Veneto), oltre che una propensione alle cure domiciliari per i pazienti positivi con sintomi lievi o con pochi sintomi. In particolare, la strategia messa in atto, ha visto un sostegno alle strutture ospedaliere, attraverso un piano di investimenti e potenziamento del settore pubblico, con in particolare: la creazione di appositi ospedali Covid (individuati uno per ogni provincia ); la trasformazione delle strutture precedenti, con creazione percorsi e reparti Covid, distinti dagli altri e l’aumento posti letto in terapia intensiva (da 450 a 573 per il territorio regionale). Anche all’interno del modello emiliano-romagnolo si è fatto un ampio uso di deroghe, affinché si riuscisse a garantire l’erogazione di servizi di emergenza anche per soggetti non Covid negli Ospedali, con priorità da dare e garantire a tutti quei trattamenti destinati a patologie croniche urgenti e indifferibili. La strategia inoltre si basava non tanto su progetti a breve termine ma sul rafforzare la rete delle strutture pubbliche (prova ne è lo scartare l’idea della creazione dell’ospedale Covid provvisorio di Bologna Fiere). L’11 Aprile 2020 l’Emilia-Romagna diveniva Hub nazionale per la Terapia intensiva, con la nascita del “Covid Intensive Care”, un’ampia rete di strutture ospedaliere pubbliche che ripercorrevano la storica Via Emilia. La strategia di rafforzamento ospedaliero in Emilia-Romagna è stata accompagnata da una stretta connessione nel lavoro tra sanità ospedaliera e sanità territoriale, grazie ad: un’attivazione tempestiva e puntuale delle 80 unità USCA operative di medici e infermieri e al potenziamento delle reti territoriali. Il caso dell’Emilia-Romagna nella gestione della somministrazione dei tamponi è un chiaro esempio di processo di learning-by-doing .Nello specifico la strategia attuata si è modificata a seconda delle esigenze e delle varie fasi epidemiologiche riscontrate. In particolare, con l’avvento del virus sul territorio il 23 febbraio, lo screening avveniva attraverso il triage presso le strutture ospedaliere , o in strutture temporanee all’aperto ad esse adiacenti, per poi a mano a mano passare in una pratica più capillare e “a tappeto”, molto simile a ciò che era avvenuto in Veneto. Tra le iniziative in materia, promosse e originali dell’autorità regionali, si ricordi l’arduo lavoro di sperimentazione che ha portato alla creazione del cosiddetto “test drive-through” . Tale pratica consisteva nel fatto che il personale sanitario somministrasse il tampone a persone collocate a bordo della propria autovettura e in precedenza prenotatesi per il test Tutto ciò, oltre a dimostrare originalità e una cultura organizzativa predisposta al cambiamento, ha portato ad avere un maggior numero di test in sicurezza. Con l’avvento perciò della zona rossa di Medicina, il metodo di somministrazione ha iniziato a riprendere un lavoro di screening a tappeto sul territorio , che prendeva come chiaro esempio il modello veneto, e che riusciva a mantenere sin dai primi mesi di attuazione una media di 5mila tamponi giornalieri, oltre che l’erogazione di numerosi test sierologici erogati ogni 15 giorni nei Comuni (l’obiettivo era perseguire una politica attua a testare con tamponi e con screening su popolazione e catturare la parte residuale di asintomatici positivi) . La somministrazione avveniva però seguendo il criterio della “gradualità”, ovvero dando priorità: in un primo agli operatori sanitari, in secondo momento ai lavoratori/lavoratrici delle imprese operanti in luoghi più a rischio e in generale alle fasce di popolazioni più vulnerabili, per poi in prospettiva avere un monitoraggio su tutta la popolazione regionale. Ad aggiungersi a tali iniziative vi sono anche: i vari protocolli intrapresi e promossi con le aziende del territorio e gli investimenti su telemedicina e altre innovazioni sul campo medico.
Parlare di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ha voluto rappresentare uno scorcio della gestione regionale sanitaria, dimostrando come, nonostante le comuni richieste avanzate e il comune disagio, la gestione è stata diversa già tra questi territori molto simili.
Ciò che si è contrapposto, in particolare, tra Lombardia e Veneto, sono stati non solo due modelli o due approcci alla pandemia, ma due differenti culture organizzative. Le risposte proposte infatti partivano dalla loro storia. La Lombardia ha infatti affrontato l’emergenza dando risalto allo strumento del “ricovero massiccio ospedaliero” e sulle strutture private, loro vecchi e ancestrali totem ideologici, trascurando invece il lavoro preventivo e territoriale di contrasto, e dimostrandosi così inefficace, oltre che inefficiente, nel contrastare l’avanzamento del Virus. D’altro canto modelli che hanno puntato ad un maggiore e migliore uso della prevenzione e azione nei territori si è dimostrato più resiliente e reattivo. I modelli dell’Emilia-Romagna e prima ancora del Veneto sono due modelli che hanno capito prima di altri le caratteristiche del loro nemico e da questa loro constatazione ne hanno potuto trarre forza e conoscenza.
Il confronto fatto, ha potuto mettere in risalto come ogni singola regione sia stata diversa in termini di assistenza ospedaliera, ma oltretutto ha potuto mettere in risalto, grazie ai dati in possesso, come sia stato più efficace un modello più capillare e proattivo sul territorio, rispetto al modello Lombardo. Tuttavia, nel dare una chiara risoluzione alla diatriba mossa, si può dire che ogni “eccesso sia stato un difetto”, e che nel caso della Lombardia il difetto non sia stato tanto la scelta ospedali-centrica, ma l’aver solo puntato su questa come unico mezzo di contrasto, sottovalutando e non prendendo in considerazione altre strade. La soluzione poteva nascere da una solida rete di cure territoriali e un approccio integrato ad un potenziamento ospedaliero, ma ad oggi rimane solo la riflessione e la speranza che si sia capito l’errore.
Ai posteri l’ardua sentenza
Bruno Monorchio
[1] Definizione erronea, in Italia non esistono “governatori” ma solo Presidenti di Regione. Usata come nel giornalismo per enfasi sulla loro figura e poteri.
[2] Cfr. Mattia Casula, Andrea Terlizzi e Federico Toth (2020), “I servizi sanitari regionali alla prova del COVID-19∗”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche n. 3/2020, p.322 TABELLA 1 sulle RISPOSTE REGIONALI A CONFRONTO
[3] Cfr. Mattia Casula, Andrea Terlizzi e Federico Toth (2020), “I servizi sanitari regionali alla prova del COVID-19∗”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche n. 3/2020, p.316
[4] Cfr. Mattia Casula, Andrea Terlizzi e Federico Toth (2020), “I servizi sanitari regionali alla prova del COVID-19∗”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche n. 3/2020, p.318