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La crisi dello Stato

In questa seconda puntata della rubrica dedicata al Golden power ci occupiamo di Stato.

Il dibattito intorno alla “crisi dello Stato” non è esattamente una novità. Anzi, come ricorda Sabino Cassese, se ne discute dagli inizi del ‘900[1]. Dapprima, con riferimento all’emersione di sindacati e gruppi industriali che avrebbero messo in dubbio la sovranità interna dello Stato. Lo Stato avrebbe poi ricevuto un’altra “picconata” dal progresso dei poteri pubblici internazionali. Infine, gli anni ’90 avrebbero reso evidente l’inadeguatezza dello Stato imprenditore con la conseguente privatizzazione dei molte attività pubbliche. Addirittura qualcuno si spinse ad ipotizzare l’idea deterministica della fine dello Stato come conseguenza della de-territorializzazione del potere[2]. D’altronde il declino pareva evidente stante la minore importanza dei confini (ad esempio per i mercati finanziari), l’affermazione di nuove entità non statali o organismi internazionali, l’ingombrante presenza di grandi gruppi industriali e tecnologici multinazionali.

Frontespizio del “Leviatano” di Thomas Hobbes (1651) , incisione di Abraham Bosse

Stato ed economia

La perdita di sovranità si è realizzata soprattutto nella sfera economica. Volendo semplificare al massimo, basti la seguente considerazione: gli Stati vengono giudicati da società private che stabiliscono il rating da quale dipende il valore dei titoli di debito. E’ facile quindi constatare che non solo l’economia non deve più tenere conto della volontà dei singoli Stati, ma che anzi sono gli Stati a dover tenere in primaria considerazione ragioni di ordine economico. I più recenti avvenimenti – come il conflitto in Ucraina – ci mostra che non è più così (ammesso che lo sia mai stato).

Dopo oltre vent’anni dalla sua teorizzazione, la dissoluzione dello Stato non si è ancora verificata. Ed anzi, sono continui i tentativi di farne sorgere di nuovi (basti vedere le istanze Catalogna e Scozia, volendo limitarsi all’Europa). Intanto, l’ascesa dei fondi sovrani di investimento e delle banche pubbliche di sviluppo segna la “rinazionalizzazione” dell’economie. Così come il (parziale) superamento dello Stato imprenditore ha lasciato spazio allo “Stato innovatore”[3].  

In questa stessa direzione vanno interpretati i fenomeni di protezionismo economico (Usa) e l’affermazione del capitalismo ibrido (Cina). In tale contesto, il Golden power si pone l’obiettivo di tutelare – e rafforzare – proprio quei settori dell’economia che – è stato deciso – non possono essere lasciati semplicemente alle dinamiche di mercato. Non solo perché il mercato non è in grado di fornire autonomamente tutto ciò di cui le collettività abbisognano, ma anche perché le imprese si trovano ormai ad interagire in un ambiente dominato da logiche di tipo strategico. Nel 2007 l’ex Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Lawrence Summers, scriveva che “i fondi sovrani mettono in crisi la logica del capitalismo” proprio perché la classica motivazione economica della massimizzazione del profitto appariva spesso subordinata ad obiettivi di carattere politico[4]. L’anno successivo anche la Commissione europea evidenziò come “gli investimenti dei fondi sovrani in determinati settori possano essere utilizzati per fini diversi da quelli di massimizzare il rendimento economico”[5].

C’è poi da considerare che la globalizzazione ha esposto inevitabilmente le nostre economie ad alcune vulnerabilità e fragilità che è ormai impossibile ignorare. Complessità intrinseca delle supply chain, reti di produzioni internazionali interconnesse e dispersione di unità produttive in paesi diversi espongono la catena del valore ad una tensione eccessiva. La rottura di un solo anello provoca la paralisi di tutto il processo. La pandemia ce lo ha dimostrato. Ecco allora che si afferma prepotentemente la priorità di (ri)portare a casa e sovvenzionare alcune produzioni ritenute strategiche: batterie, semiconduttori, acciaio.

La questione energetica meriterebbe un discorso a parte, qui ci limitiamo ad una sola considerazione: la transizione energetica è prima di tutto un problema di autonomia strategica. La crisi con la Russia ha dimostrato come la dipendenza dal gas rappresenti un fattore di estrema vulnerabilità per l’Italia. Favorire la produzione energetica da fonti rinnovabili è sicuramente una buona cosa per il nostro paese. Tuttavia, se è vero che in Italia sole e vento abbondano, è anche vero che per catturare e sfruttare questa energia servono tecnologie per la cui produzione sono fondamentali diversi dei diciassette elementi metallici che costituiscono le “terre rare”. Ebbene, la Cina, oltre a detenere il 37% delle riserve, è anche responsabile dell’80% dell’offerta di terre rare. Si tratta di numeri da tenere in considerazione, altrimenti c’è il rischio di passare da una dipendenza all’altra senza rendersene conto.

Lo Stato è quindi in crisi? Probabilmente no. Sicuramente il suo ruolo è ben diverso da quello di cento anni fa, ma non per questo dobbiamo considerarlo un repertorio da museo. Gli Stati hanno ancora ampi margini di intervento e restano fattore imprescindibile anche in campo economico. L’affermarsi di istituzioni multilaterali e sovranazionali – pur con i loro evidenti limiti – non contraddice questa condizione. Anzi, come evidenziava Henry Kissinger, “quando gli Stati non sono governati nella loro integrità, lo stesso ordine internazionale o regionale comincia a disgregarsi”[6].


[1] Cassese S., La crisi dello Stato, cit.  

[2] Per esempio, Ohmae K., The End of the Nation State: The Rise of Regional Economies, Harper Collins, Londra, 1995  

[3] Mazzucato M., The Entrepreneurial State: Debunking public vs. private sector myths, Anthem Press, Londra, 2013.  

[4] Summers L.H., “Sovereign Funds Shake the Logic of Capitalism”, in Financial Times, 29 luglio 2007  

[5] Comunicazione della Commissione, Un approccio comune europeo ai fondi sovrani, COM(2008) 115 definitivo, Bruxelles, 27 luglio 2008  

[6] Kissinger H., World Order, Penguin Press, New York, 2014, p. 143, citato da Aresu A. e Gori L., L’interesse nazionale, cit., p. 106.  

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