Come scoppia una guerra: il confronto del giugno 1967

L’Incidente di Samu, con tutte le inefficienze dimostrate e con gli evidenti segnali di debolezza e divisione nel fronte arabo, aveva lanciato un forte allarme a tutti gli attori in campo: lo scoppio di una guerra era imminente. Nei mesi successivi la situazione si deteriorò molto velocemente scatenando una serie di piccoli scontri armati e attriti politici non di poco conto i quali confermarono l’imminenza di un nuovo conflitto armato su vasta scala nel Vicino Oriente e spinsero i principali attori a prendere le precauzioni reputate necessarie per una guerra. Come abbiamo già visto una parte di questi scontri e attriti sorsero in conseguenza delle incursioni armate dei guerriglieri palestinesi, i quali usavano la Cisgiordania come base principale. A partire dagli anni ’50 gli israeliani cercarono di risolvere la cronica mancanza d’acqua di alcune sue regioni progettando un grande condotto nazionale che permettesse di trasportare l’acqua dal lago Tiberiade fino alle regioni centrali d’Israele. Il progetto venne completato e approvato dal governo israeliano nel 1956 e nel 1959 iniziò la costruzione che durò circa cinque anni. Tale iniziativa suscitò l’allarme dei paesi arabi, in primis la Siria e l’Egitto, i quali, nonostante reputassero il progetto israeliano una grave violazione del diritto internazionale e dei diritti della popolazione del bacino, per via delle loro rivalità e incomprensioni non riuscirono ad adottare un’efficace soluzione comune prima del 1964. Infatti solo a condotto già operativo riuscirono a incontrarsi ad Alessandria nel settembre del 1964 per coordinare un’azione comune che traducesse in fatti i piani pensati al Cairo nel gennaio dello stesso anno e le numerose dichiarazioni e minacce pubbliche espresse contro il progetto israeliano.

Summit della Lega Araba ad Alessandria del settembre
1964. Partendo da sinistra osserviamo re Hussein di
Giordania, il presidente dell’Egitto Gamal Abdel Nasser,
il presidente dell’Iraq Abdul Salam Arif, il presidente
della Tunisia Habib Bourguiba e re Hassan II del Marocco

In questa sede decisero di stanziare un fondo speciale per la realizzazione dell’ambizioso progetto di deviazione delle acque degli affluenti dell’alto Giordano approvato al Cairo qualche mese prima. In più venne stabilita la creazione di un comando militare guidato dall’Egitto, votato alla difesa dei siti e delle opere di deviazione da un’eventuale aggressione israeliana. Il progetto di deviazione però venne concretamente iniziato con molto ritardo e fin da subito gli israeliani fecero sentire la loro voce. Essi descrissero i loro progetti come essenziali e rispettosi del Piano Jhonston (The Jordan Valley Unified Water Plan, comunemente noto come “Piano Johnston”, era un piano per lo sviluppo unitario delle risorse idriche della Valle del Giordano sviluppato dallo statunitense Eric Johnston tra il 1953 e il 1955) e di conseguenza iniziarono quasi subito ad attaccare ripetutamente i cantieri per le deviazioni in Siria. Nei due anni successivi i lavori di deviazione furono interrotti e ripresi più volte a causa delle incursioni israeliane. Nel 1966 i cantieri e i mezzi vennero nuovamente bombardati dagli israeliani, i quali abbatterono anche un mig-21 siriano accorso in difesa. Gli attriti fra le forze armate siriane e israeliane innescati dai problemi sulla gestione delle risorse idriche conobbero un salto di qualità il 7 aprile del 1967.

In questo giorno l’aeronautica israeliana bombardò diciassette postazioni siriane e abbatté ben sei mig-21 siriani come risposta ai bombardamenti da terra e da aria che i siriani avevano effettuato con più frequenza sui territori israeliani, sfruttando il vantaggio strategico che potevano fornire le alture del Golan. La situazione era divenuta molto incandescente e un conflitto armato su vasta scala fra Siria e Israele sembrava solo questione di tempo. Quando il 13 maggio giunse un’informazione sovietica (poi rivelatasi falsa) riguardo grossi accumuli di truppe israeliane lungo il confine siriano e quando ricevette l’invito dagli stessi siriani ad attuare misure con valore di deterrenza verso Israele, Nasser, certo che lo stato ebraico stesse per sferrare un’imponente offensiva contro l’alleato siriano, prese una serie di decisioni che influenzarono irreversibilmente una situazione già di per sé critica e pronta ad esplodere da anni, di fatto accelerando lo scoppio delle ostilità. Il 14 maggio, anniversario dell’indipendenza israeliana, il Primo Ministro israeliano Levi Eshkol venne informato dal Generale Yitzhak Rabin che truppe egiziane avevano attraversato il Canale di Suez e si accingevano ad entrare nel Sinai.

Il Primo Ministro d’Israele Levi Eshkol

Il 18 maggio 1967 Nasser richiese il ritiro dei caschi blu dell’ONU dal Sinai, dispiegati dopo la crisi di Suez. Incredibilmente il segretario delle Nazioni Unite U Thant, senza consultare il consiglio di sicurezza, approvò la richiesta di Nasser e i contingenti ONU vennero rapidamente ritirati dalla penisola del Sinai e dalla striscia di Gaza. Radio Cairo annunciò l’evento esordendo: “Arabi, questa è la nostra occasione per infliggere a Israele un colpo mortale, annientarlo, cancellarne la presenza dalla Terra Santa”. Nasser rimase esterrefatto dall’evolvere della situazione in una maniera che lui non si aspettava e, ormai “prigioniero” della sua popolarità presso tutto il mondo arabo, si lasciò trascinare dagli eventi e dall’esaltazione incominciando a fare la voce grossa non più con le parole ma con i fatti, sicuro che Israele non avrebbe reagito. Il 21 maggio ordinò la mobilitazione generale e schierò minacciosamente 100.000 uomini in tutto il Sinai. Intanto i servizi israeliani, “ubriacati” da anni di propaganda araba, non rimasero sorpresi da queste mosse, restando della convinzione che tutto ciò fosse solo un bluff e che Nasser volesse solo sviare l’attenzione d’Israele dalla Siria e mostrare i muscoli al mondo. Dovettero ricredersi subito. Il 22 maggio 1967, durante una visita presso una base aerea in Sinai, il presidente egiziano annunciò con parole dure la decisione di chiudere gli stretti di Tiran alla navigazione di tutte le navi battenti bandiera israeliana e a tutte le petroliere dirette verso Eilat, il porto israeliano sulle coste del Mar Rosso. Queste furono le sue parole: “Ieri le forze armate hanno occupato Sharm El-Sheikh. Quale è il significato dell’occupazione armata di Sharm El-Sheikh? È un’affermazione dei nostri diritti e della nostra sovranità sul Golfo di Aqaba. Il Golfo di Aqaba appartiene alle nostre acque territoriali. In nessuna circostanza consentiremo alla bandiera israeliana di attraversare il golfo di Aqaba. Gli ebrei minacciano la guerra. Noi gli rispondiamo che sono i benvenuti, siamo pronti per la guerra. Le nostre forze armate e tutto il nostro popolo sono pronti per la guerra, ma noi in nessun caso abbandoneremo i nostri diritti. Queste acque sono nostre. La guerra potrebbe essere un’opportunità per gli ebrei -per Israele e per Rabin- di testare le loro forze contro le nostre e vedere che quelle cose che hanno scritto riguardo la guerra del 1956 e riguardo l’occupazione del Sinai sono tutte delle sciocchezze”. Alle dodici del giorno dopo, l’annuncio si tradusse in realtà e in seguito a tale gesto e a tali parole tutte le autorità israeliane capirono che si era giunti al punto di non ritorno. Chiudere a Israele l’accesso alle acque internazionali e paralizzarne l’economia significava guerra, molti esponenti politici e militari israeliani lo avevano ribadito numerose volte negli anni passati, fin dalla crisi di Suez quando gli egiziani, dopo aver nazionalizzato il canale, chiusero gli stretti di Tiran.

Gli stretti di Tiran

Il giorno stesso il generale Ahron Yariv a capo dell’Aman, il servizio d’intelligence dell’esercito israeliano, espose il suo punto di vista a tutto lo stato maggiore dell’esercito con queste parole: “Se Israele non reagisce alla chiusura degli stretti perderà ogni credibilità, e l’IDF ogni potere di deterrenza; gli stai arabi vedranno nella debolezza d’Israele un’occasione per mettere in forse la sua sicurezza e la sua stessa sopravvivenza”. Nonostante il favore dell’esercito ad un attacco, il Primo Ministro Eshkol esitava in quanto era convinto di poter risolvere la situazione in maniera diplomatica mediante l’aiuto delle superpotenze. Solo pochi giorni dopo due mig-21 egiziani sorvolarono l’impianto nucleare israeliano di Dimona. La tensione cresceva a vista d’occhio. Il 28 maggio Eshkol decise di rivolgere un discorso alla nazione per tranquillizzare il suo popolo. Tale discorso, il quale passerà alla storia come il “discorso balbettante”, fu un fallimento così grande da spingere tutta la popolazione civile nel panico. Rabbini incominciarono a benedire parchi e campi sportivi per poterli utilizzare come centri di emergenza o cimiteri, scuole ed edifici pubblici vennero trasformati in ospedali; gli israeliani credevano di essere vicini ad una guerra totale, ad un nuovo olocausto. Solo i militari erano tranquilli, sicuri della loro forza e determinazione ma allo stesso tempo impazienti e scocciati dai tentennamenti del Primo Ministro. Il 28 maggio stesso lo stato maggiore pretese un incontro con Eshkol durante il quale il ministro fu attaccato su tutti i fronti. Solo due giorni dopo, il 30 maggio, il re di Giordania Hussein, contro ogni pronostico, si recò in Egitto per stipulare un trattato di difesa con Nasser. Nonostante le numerosissime incomprensioni con il leader egiziano riguardo molti dilemmi tra cui la scottante questione palestinese, il re di Giordania compì un gesto imprevedibile. Hussein non aveva intenzione di abbandonare gli stati arabi e rinnegare la sua parola anche perché, in caso contrario, era convinto che sarebbe stato accusato di tradimento da tutti i popoli arabi e quindi delegittimato e probabilmente rovesciato dal trono. Inoltre, essendo uno dei principali sostenitori del Comando Arabo Unificato, stipulò questo trattato al fine di recuperare in fretta e furia il tempo perso e cercare di organizzare con i suoi alleati arabi un piano unico per far fronte all’inevitabile scontro e al potere militare israeliano. Con l’ingresso della Giordania, e poco dopo dell’Iraq, nella precedente alleanza siro-egiziana e la momentanea pacificazione tra il re Hashemita e il Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Ahmad Shuqayri. A questo punto il popolo israeliano ritenne che il cappio si era definitivamente chiuso attorno al suo collo. Frattanto, durante questi giorni cruciali, intere masse arabe vennero indotte in un vero e proprio “stato di isteria militarista e prematura esultanza” dagli esponenti politici e dai media dei loro paesi, in modo da inebriare i soldati e isolare e terrorizzare Israele, facendo credere al suo popolo di essere vicino alla fine. Gli israeliani assistettero a tutto ciò impietriti dai loro televisori e dalle loro radio le cui antenne captavano benissimo i segnali arabi. Un esempio delle dichiarazioni fatte dai leader arabi per demoralizzare Israele ed esaltare le masse arabe può essere una frase tanto coincisa quanto chiara espressa dal presidente dell’OLP Shuqayri: “Tra gli ebrei praticamente non ci saranno sopravvissuti”. Anche i giornali e le riviste non furono da meno. Un giornale egiziano addirittura espose attraverso una vignetta l’immagine di una mano nell’intento di pugnalare al cuore una stella di David con sotto una scritta la quale titolava “Azienda di oli del Nilo e saponi”, facendo esplicito riferimento alla macabra pratica nazista di fabbricare sapone con i corpi degli ebrei morti.

Due esempi di vignette di propaganda araba risalenti al periodo precedente la Guerra
             dei Sei Giorni. Nella prima si vede Nasser nell’intento di buttare in mare un ebreo
             che simboleggia Israele. Nella seconda si vedono teschi di ebrei ammassati fra le
              rovine di Tel Aviv.

La situazione stava peggiorando vertiginosamente. Nasser, male informato dai sovietici, aveva dato inizio all’escalation che avrebbe condotto alla guerra. Tale escalation poteva essere interrotta quasi subito, infatti Nasser aveva ottenuto una grande vittoria politica cacciando le forze ONU, riavvicinando le sue truppe al confine israeliano e mostrando solidarietà all’alleato siriano in (falso) pericolo, ma nonostante questo il controllo della situazione gli sfuggì di mano. Lui e gli altri leader arabi, escluso il re di Giordania, si lasciarono letteralmente trascinare dall’isteria delle masse e dalla loro stessa propaganda, di cui abbiamo visto qualche esempio poche righe sopra, arrivando a credere davvero in ciò che dicevano. Ciò convinse Nasser che Israele, spaventato da tanta espressione di forza, non avrebbe reagito. Inoltre tale convinzione giocava a suo vantaggio in quanto non era davvero intenzionato a scendere in guerra ma piuttosto a dare una grande manifestazione di forza, a far valere le sue richieste e i suoi interessi sul tavolo delle trattative (e non sul campo di battaglia) e ad ampliare la sua popolarità fra le masse. Nel caso di guerra avrebbe fatto valere la forza del suo grande esercito, garantitagli e dal suo potente Ministro della Difesa ‘Amer, e la generale superiorità in uomini e mezzi di tutto il fronte arabo. In sostanza i leader arabi, imprigionati in una bolla che loro stessi avevano contribuito a creare, non si resero conto dei pericoli insiti in una politica così spregiudicata, in una propaganda così aggressiva e soprattutto non si accorsero che le forze armate d’Israele e il loro comandanti (a differenza della stragrande maggioranza della popolazione civile) erano tutto fuorché impressionati o spaventati dalle reboanti parole e dalle teatrali mosse dei capi arabi, bensì fermamente decisi a rispondere.

Nasser mentre rivolge un discorso alle masse nei giorni
                                 precedenti lo scoppio della guerra

Il primo giugno del 1967 Levi Eshkol, ormai assalito, schernito e reputato da tutti inadatto ad affrontare il momento, cedette e acconsentì a spogliarsi della carica di Ministro della Difesa, che deteneva lui stesso, e di affidarla a Moshe Dayan, eroe della Crisi di Suez, creando così un governo di alleanza nazionale il cui scopo primario era quello di affrontare al meglio la grave situazione creatasi. Il giorno seguente i membri dello stato maggiore optarono per l’inizio delle ostilità ma il Primo Ministro israeliano riuscì a trattenerli, non per molto, tuttavia. Il suo scopo era quello di poter intraprendere un’ultima ondata di incontri diplomatici per raccogliere il sostegno internazionale, essenziale per un paese piccolo e circondato da nemici. Al Ministro degli Esteri Abba Eban e al capo del Mossad Meir Amit toccò l’importantissimo compito di ottenere l’assenso della superpotenza americana. Questi ricevettero dal presidente americano Lyndon Johnson una risposta enigmatica interpretata da Amit come un assenso statunitense a un attacco israeliano: “Israele non sarà solo a meno che non deciderà di fare da solo”. Il 4 giugno, dopo il rapporto di Eban e Amit, arrivarono l’autorizzazione del governo all’inizio delle ostilità e l’approvazione dei piani di guerra. Il giorno dopo, alle prime luci del 5 giugno 1967, gli aerei da combattimento israeliani si levarono in volo per svolgere la loro missione. Iniziava così la Guerra dei Sei Giorni.

Articolo di Alessandro Trabucco

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