Vittorio Emanuele II è conosciuto per tante ragioni: per essere stato il primo re dell’Italia Unita, per i suoi dissidi con Cavour, per il suo carattere e per le sue vicende amorose. Un aspetto però per il quale egli appare meno conosciuto è la sua avventata politica estera. Alla morte del Conte di Cavour infatti venne meno il principale ostacolo che si poneva fra il re e il perseguimento di una politica estera personale indirizzata al soddisfacimento degli interessi dinastici e nazionali. Per poterli soddisfare il re si servì di una vera e propria rete di agenti segreti, composta da alti dignitari, membri della corte, aristocratici fedeli alla corona e personalità politiche, impegnata in una diplomazia parallela a quella ufficiale, il tutto alla quasi totale insaputa del governo e del parlamento. Questi agenti fedeli alla corona avrebbero dovuto illustrare nelle principali sedi internazionali le ambizioni e i progetti del monarca. Un primo esempio di questa politica fu l’improbabile proposta per la conquista di Venezia inviata pochi mesi dopo la nascita del Regno d’Italia all’imperatore francese Napoleone III. Vittorio Emanuele voleva convincere l’imperatore a dichiarare nuovamente guerra all’Austria approfittando delle difficoltà militari che essa avrebbe attraversato a causa di eventuali sommosse scatenate dall’invio di Garibaldi in Ungheria e nei Balcani. Inoltre il monarca italiano chiedeva l’abbandono di Roma da parte delle truppe francesi. Naturalmente la risposta fu negativa e la proposta si rivelo un totale fallimento.
Un secondo esempio fu il surreale valzer di proposte di guerra fatte dal re ai sovrani di mezza Europa nel tentativo di ottenere in qualche modo il Veneto e il Trentino. Nel giro di pochi mesi vennero fatte pressioni sulla Francia tentando di alimentare le sue mire sul Belgio e sulla Renania, sulla Prussia sollecitandola ad avviare un processo di unificazione nazionale della Germania sull’esempio del Piemonte e successivamente addirittura sull’Austria offrendole un supporto bellico in ottica antiprussiana in cambio della cessione del Veneto e del Trentino. Infine l’Italia seguì la Prussia, il paese più intenzionato alla guerra, dando inizio a quella che poi sarebbe stata la tragica terza guerra d’Indipendenza. Un ulteriore esempio di politica estera segreta del re, probabilmente il meno conosciuto di tutti, fu il finanziamento della missione affidata a al maggiore polacco Carlo Borzyslawski. Nel 1863 la parte polacca dell’impero russo si rivoltò contro di esso. Venuto al corrente dell’insurrezione, Vittorio Emanuele ritenne fosse giunto il momento di estendere la rivolta anche nei territori sottoposti al dominio austriaco. A questo punto l’esule polacco Carlo Borzyslawski, già maggiore di cavalleria nel Regio Esercito, cascava a fagiolo. Esso venne incaricato di innescare moti insurrezionali in tre zone dell’Impero Asburgico, Galizia, Ungheria e Veneto, grazie all’aiuto di un nutrito corpo di spedizione di circa 6.000 uomini. Questi uomini, polacchi, ungheresi e italiani, sarebbero partiti dall’Italia e, una volta giunti nelle regioni di destinazione, avrebbero dovuto fungere da centro d’irradiazione dei moti insurrezionali. Anche in questo caso l’intera operazione venne condotta mantenendo gli esponenti politici italiani all’oscuro sul suo svolgimento e anche in questo caso si rivelò un totale fallimento. Infatti, fallita l’insurrezione polacca nei territori russi, nel 1864 venne ordinato di sospendere le operazioni e di sciogliere il corpo di spedizione. Borzyslawski nel frattempo, convinto che il progetto insurrezionale non fosse stato del tutto abbandonato, attese ben due anni prima di consegnare tutta la dettagliata documentazione relativa all’operazione, con tanto di conto delle spese complessive. Questi imbarazzanti documenti furono opportunamente tolti di mezzo e nascosti per evitare di mettere in luce le gravi responsabilità della monarchia in tutta la vicenda. Tali politiche personali del re avevano enormemente raffreddato le relazioni con gli esponenti politici del paese. Sostanzialmente essi non tolleravano più le avventure di Vittorio Emanuele considerate fin troppo contraddittorie, avventate e pericolose per la sicurezza del paese. L’insofferenza verso le politiche del re venne fuori nel 1870, alla vigilia della guerra franco-prussiana. Vittorio Emanuele nei mesi precedenti, seguendo il solito copione, tentò di mettere in piedi all’insaputa di molti un’alleanza con la Francia e l’Austria in chiave antiprussiana. Il folle tentativo, spinto dal desiderio del re di assicurare gloria militare alla dinastia sui campi di battaglia europei, venne osteggiato in blocco da governo, totalmente contrario all’ingresso della giovane e ancora fragile Italia in un conflitto estraneo agli interessi nazionali. Il re rinunciò ai suoi intenti e successivamente, dinnanzi alla catastrofica sconfitta francese, riconobbe la sventura evitata esclamando: “L’abbiamo scampata bella”.
Negli anni successivi, venute meno le questioni veneta e romana, Vittorio Emanuele II prese una pausa nella conduzione della sua politica estera personale dedicando le sue principali attenzioni ad altro fin quando, nel 1877, riprese con le sue consuete abitudini inviando Francesco Crispi nell’ufficio di Bismarck nel tentativo di convincere il cancelliere a sferrare un attacco congiunto contro l’Austria. Durante gli ultimi anni però erano cambiate molte cose, soprattutto era cambiato l’orientamento politico del governo. Infatti, con la nomina del nuovo esecutivo capeggiato da Agostino Depretis, finiva l’esperienza della destra storica lasciando il passo alla sinistra. Il governo Depretis non era di certo disposto a soccombere dinnanzi l’attivismo del sovrano e, di conseguenza, si profilava all’orizzonte una fase di intensa conflittualità. Quando ormai lo scontro sembrava inevitabile ci si mise di mezzo il fato: il 9 gennaio del 1878 una letale polmonite portò alla morte il re Vittorio Emanuele II, destinato a essere celebrato per tutto il periodo monarchico e oltre come il “Padre della Patria”.
Articolo di Alessandro Trabucco.