Per questa mini serie di articoli dedicati alla Guerra dei Sei Giorni inizieremo da un evento quasi sconosciuto ma di grande importanza nel contesto del conflitto arabo-israeliano: l’Incidente di Samu del 13 novembre 1966.
Fin dalla fine degli anni ’40 i palestinesi furono uno dei principali motivi di attrito tra Giordania, Israele e i paesi arabi. Tali attriti furono una delle motivazioni che spinsero il Presidente dell’Egitto Nasser a indire una conferenza al Cairo dal 13 al 17 gennaio del 1964 dove, oltre che sancire l’adozione di contromisure ai piani israeliani di sfruttamento delle acque del Giordano, si giunse alla decisione di fondare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’OLP (costituita ufficialmente il 2 giugno del 1964 a Gerusalemme), e di creare il Comando Arabo Unificato. La Giordania accettò la creazione dell’OLP a patto che questa organizzazione collaborasse con le autorità giordane senza seminare discordie all’interno del paese e tra la Giordania e gli altri stati. Inoltre l’OLP, prima di svolgere qualsiasi operazione, doveva sottoporla al vaglio e all’approvazione della autorità del Comando Arabo Unificato. Il fine di queste intenzioni era di non fornire un ghiotto pretesto a Israele per attaccare prima che gli eserciti arabi non fossero sufficientemente armati, addestrati e integrati. L’OLP però, in molte occasioni, agì di testa propria compromettendo la posizione degli stati arabi ma in particolare quella della Giordania che comprendeva all’interno dei suoi confini la Cisgiordania, regione popolata quasi esclusivamente dai palestinesi, e ospitava sempre all’interno dei suoi confini la maggior parte dei profughi e dei fedayin palestinesi.
Nonostante i ripetuti richiami l’OLP agì per conto suo, soprattutto dopo la conferenza di Casablanca del 1965. La pericolosità delle mosse palestinesi venne espressa in un discorso del 1966 dallo stesso re di Giordania Hussein il quale affermò che “ogni azione (di commandos) estranea alle decisioni adottate al vertice dai responsabili arabi è inutile, se non nociva”. I fedayin in Giordania e Libano erano addestrati principalmente dai siriani i quali preferivano farli partire da questi due paesi arabi in modo da evitare violente ritorsioni israeliane sul loro territorio. Quindi, considerato il territorio di provenienza della maggior parte dei raid palestinesi, una dura ritorsione israeliana verso il Regno Hashemita era solo questione di tempo. Questa, emblema delle tensioni esistenti fra i confini dei due paesi, avvenne il 13 novembre del 1966 con un violentissimo attacco al villaggio di Samu in Cisgiordania, regione che come abbiamo visto prima sottostava alla giurisdizione giordana. Lo scopo degli israeliani era punire i palestinesi per i loro attentati e per le loro incursioni sia contro civili che contro soldati e guardie di confine. La “spedizione punitiva” chiamata Operazione Shredder iniziò la mattina presto verso le 4:30 e vide impiegati circa quattromila soldati israeliani, aerei, sessanta semicingolati e undici carri armati. Una volta giunti nel villaggio di Samu, praticamente senza aver incontrato resistenza, gli israeliani radunarono la maggior parte della popolazione nella piazza principale e successivamente si dedicarono alla distruzione di un grande numero di edifici incluse case, ambulatori e moschee. L’attacco, della durata di quattro ore, fu molto duro e incluse un’imboscata a una colonna di mezzi giordani giunti in soccorso i quali, erroneamente convinti che l’attacco si fosse spostato verso un altro villaggio, attraversarono Samu certi di non incontrare truppe israeliane quando all’improvviso vennero violentemente attaccati dalle forze avversarie ancora nel villaggio le quali causarono pesanti perdite in uomini e mezzi fra i giordani.
Avvenuto nel giorno del compleanno del re di Giordania, tale attacco lo segnò molto, anche perché nel 1963 aveva stabilito con Israele un dialogo segreto il quale, alla luce di quanto era avvenuto a Samu, sembrava “non contare per nulla” agli occhi degli israeliani. L’operazione subì pesanti condanne internazionali e anche all’interno d’Israele le critiche che si levarono furono forti e numerose. Le forze armate vennero accusate di aver utilizzato troppo liberamente la forza e di aver attaccato un paese che in generale non era percepito come una minaccia trascurando invece quello considerato il vero obbiettivo del momento cioè la Siria, colpevole dei bombardamenti provenienti dalle alture del Golan e dei tentativi di sabotaggio del grande progetto idrico israeliano conosciuto come National Water Carrier.
Dopo gli eventi di Samu le proteste di Hussein contro i suoi alleati arabi si levarono forti. Ai suoi occhi era ingiusto che tutte le incursioni palestinesi partissero o passassero dal suo paese attirando così sulla Giordania stessa la maggior parte delle ritorsioni israeliane. Sottolineò l’importanza che tutte le azioni dei commandos godessero dall’approvazione del Comando Arabo Unificato per evitare di dare a Israele dei pretesti per attaccare, ammonì la Siria per il supporto fornito alle azioni violente dei guerriglieri intraprese senza approvazione del comando unificato e condotte in un momento così delicato, accusò gli alleati arabi di aver lasciato la Giordania da sola, di non aver rispettato le promesse di aiuto in caso di attacco israeliano e in particolare accusò Nasser di “nascondersi dietro le gonne del contingente delle Nazioni Unite”, permettendo così agli israeliani di attaccare un paese alleato in pieno giorno senza fornirgli aiuto. Per Nasser, convinto di essere il leader naturale delle masse arabe, tali parole rappresentarono un insulto inaccettabile. Da quel momento quindi tutti i media palestinesi, egiziani e siriani portarono avanti una propaganda anti-hashemita molto forte.
Radio Cairo, chiamata “Sawt Al-Arab” (la voce degli arabi), diffuse messaggi del presidente dell’OLP Shuqayri che invitavano palestinesi, giordani, poliziotti e parlamentari alla disubbidienza e alla ribellione contro Hussein. Lo stesso Shuqayri, durante la seduta straordinaria del consiglio della Lega Araba al Cairo, usò toni molto aggressivi verso re Hussein affermando la necessità di trasformare il Regno di Giordania in una repubblica palestinese.
Anche Radio Damasco lanciò violenti strali contro la monarchia giordana arrivando addirittura ad affermare: “prima di liberare Tel Aviv bisogna liberare Amman”. La concentrazione di tutte queste offensive verbali verso il re di Giordania, sommate alla dilagante indignazione per la pessima prova sul campo data dalle forze giordane durante l’attacco israeliano, provocarono lo scoppio di pericolose sommosse in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme, dove venne addirittura proclamato lo stato d’assedio per porre fine alla grave situazione. L’intervento riportò l’ordine in alcuni giorni ma il risentimento provato dal re verso gli alleati della Lega Araba e i palestinesi per tutto l’odio riversato su di lui fu forte. Nel frattempo negli ambienti di governo giordani divenne sempre più popolare, soprattutto dopo tali eventi, la tesi che l’OLP altro non fosse altro che “un movimento politico creato dall’Egitto socialista per fomentare disordini nella Giordania monarchica e mantenere sotto il suo controllo i palestinesi”. Lo stesso Wasfi Al-Tal, probabilmente il più grande politico che la Giordania abbia mai avuto, era convinto che Shuqayri fosse “uno strumento nella mani dell’Egitto” i cui obiettivi erano abbattere la monarchia giordana e estendere la propria sfera d’influenza. Anche in virtù di ciò nel 1966 Al-Tal, grazie ai suoi poteri di Primo Ministro, ordinò la chiusura delle sedi dell’OLP in Giordania. A tutti questi sospetti si aggiunse la convinzione che i fatti di Samu altro non fossero stati che l’inizio di una gigantesca trappola israeliana messa in piedi per fornire giustificazioni valide a un’eventuale invasione e annessione della Cisgiordania, sulla quale si riteneva che Israele avesse puntato gli occhi fin dalla fine della prima guerra arabo-israeliana.
Secondo le tesi sostenute da questa ipotetica “teoria della trappola israeliana”, l’obiettivo dell’Operazione Shredder era di saggiare le capacità difensive dell’esercito giordano così da permettere agli israeliani di conoscere ed esaminare in anticipo chi avrebbero dovuto affrontare in un eventuale futuro scontro ma anche provare l’efficienza del Comando Arabo Unito. Inoltre si riteneva che l’intensa propaganda anti-hashemita scatenata dai vicini facesse parte di un piano il quale prevedeva lo spaccamento del fronte arabo e la manipolazione, diretta o indiretta, della propaganda dei regimi arabi contro la Giordania così da fomentare insurrezioni in tutto il paese minandone la stabilità e di conseguenza ottenere una valida scusa, la sicurezza dei confini, per invadere la Cisgiordania in quanto potenziale minaccia per Israele. Inoltre tale ridondante propaganda, sempre manovrata dagli israeliani, avrebbe esasperato gli animi dei popoli arabi e dei rispettivi leader trascinandoli più o meno volontariamente verso una guerra per la quale non erano preparati e che quindi non avrebbero mai potuto vincere.
Lasciandoci alle spalle queste teorie mai veramente accettate e confermate dalla ricerca storica, ci si potrà chiedere come ha potuto un evento all’apparenza così marginale contribuire allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni e influenzarne l’andamento? I motivi sono molteplici. Innanzi tutto l’incursione rafforzò il forte sentimento antisraeliano delle popolazioni arabe, in particolare di quelle più colpite, contribuendo a creare le basi necessarie per quel periodo di esaltazione quasi isterica delle masse precedente allo scoppio del conflitto del 1967 il quale spinse i leader dei principali paesi arabi a imboccare la via verso il baratro della disfatta. Successivamente dimostrò l’inconsistenza del Comando Arabo Unificato il quale negli anni non aveva conosciuto nessun passo in avanti ed era rimasto sostanzialmente un progetto abbozzato e mai effettivamente testato e affinato. Poi accentuò e rivelò all’intera comunità internazionale le già profonde spaccature fra i principali paesi arabi schierati contro Israele e anche le loro divisioni interne.
L’Egitto di Nasser ambiva a divenire il paese arabo egemone allargando la sua influenza e legando a sé tutti i regimi vicini, sia mediante l’ideologia che attraverso la politica, l’economia e la dipendenza delle loro forze armate dalle maggiori capacità belliche egiziane. Anche la Siria ambiva ad estendere la sua influenza, soprattutto fra i palestinesi, e di conseguenza ad ostacolare le pretese egemoniche egiziane. Entrambi comunque intendevano arrogarsi il titolo di strenui sostenitori della causa palestinese sempre al fine di affermare la loro egemonia nel panorama delle nazioni arabe. La Giordania infine attirava le inimicizie dei suoi due più grossi vicini in quanto paese monarchico vicino all’Occidente caratterizzato da atteggiamenti ambigui verso Israele e quindi, agli occhi dei regimi “repubblicani” di Siria ed Egitto, simbolo del conservatorismo e della sottomissione all’Occidente imperialista. Inoltre la dinastia al potere in Giordania sembrava più preoccuparsi della stabilita del trono e della sicurezza interna che del leitmotiv del momento cioè la “distruzione dell’entità sionista”, suscitando le antipatie dell’ancora non integrata componente palestinese la quale rappresentava (e rappresenta ancora oggi) la metà della popolazione del regno. Questo non fece altro che incrementare il dissenso verso la monarchia e causare frequenti e pericolose insurrezioni palestinesi all’interno del regno rendendolo così instabile e fragile. Un tale contesto fatto di divisioni, esacerbate dai fatti di Samu, e di confliggenti interessi dei singoli stati arabi e dei loro leader, palesati dagli eventi successivi al novembre del ‘66, contribuì in maniera negativa sull’andamento della guerra del 1967 provocando un gravissimo deficit nella coordinazione e nella collaborazione delle forze arabe e la scarsa motivazione all’interno dei loro ranghi. In conclusione l’Incidente di Samu fu un potente segnale di allarme per tutti gli attori della regione. Segnale della superiorità bellica israeliana e della debolezza dei paesi arabi. In un’eventuale guerra Israele avrebbe vinto grazie alla sua netta superiorità bellica e quindi, per evitare di incappare in una pesante disfatta, si prospettarono due scelte dinnanzi ai leader dei paesi arabi: incentivare fin da subito una sincera collaborazione politica e un effettivo coordinamento fra le forze armate oppure smorzare i toni della propaganda, abbandonare i sogni egemonici ed avviare una discussione pacifica con Israele. Come vedremo ne prossimi due appuntamenti, nei mesi fra i fatti di Samu e lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni nessuna di queste opzioni venne presa in considerazione.
Articolo di Alessandro Trabucco.