L’influenza spagnola fu una gravissima epidemia diffusasi in tutto il mondo tra il 1918 e il 1920, oggi tornata di moda ma fino a qualche mese fa poco conosciuta e poco trattata, forse perché a differenza di altri grandi avvenimenti del passato essa “non ha un inizio o una fine precisa e nessun eroe definito”. Tutto partì dagli Stati Uniti dove all’inizio del 1918 alcuni ragazzi provenienti dalla contea texana di Haskell vennero arruolati nell’esercito per essere inviati in guerra contro gli imperi centrali. Fu esattamente questo il momento in cui l’influenza oltrepassò i confini della contea, diffondendosi lungo le “vie” militari grazie alla grande concentrazione di soldati nelle caserme. In poche settimane si diffuse nei campi d’addestramento e iniziò a fare la sua comparsa anche nelle città. Ormai però la macchina bellica americana era in moto e non poteva essere fermata, di conseguenza parecchi soldati americani con in corpo il virus vennero spediti sui fronti europei.
Nell’Europa devastata dalla Grande Guerra la prima ondata del virus si diffuse velocemente seguendo una linea molto simile a quella della classica influenza stagionale senza suscitare un particolare timore. Durante l’estate il virus non sparì ma rimase nelle trincee e nelle città avviando un processo di mutazione, per poi ripresentarsi all’inizio dell’autunno. Questa nuova ondata però fu così devastante da portare alla morte circa 50 milioni di persone, molte più di quante ne aveva fatte la guerra, e alla riduzione della speranza di vita di ben 12 anni. La diffusione fu capillare al punto che la maggioranza dei soldati degli eserciti in guerra ne fu contagiata. Una particolarità inquietante della seconda ondata fu la tipologia delle vittime: esse infatti erano principalmente persone giovani, apparentemente in salute. Questa apparenza però risultò sbagliata. L’esposizione agli agenti atmosferici e alle malattie, la convivenza forzata in anguste e insalubri trincee, lo stress, la violenza, le ferite, i gas tossici e la fame avevano ridotto ai minimi termini le difese immunitarie dei soldati i quali si ammalarono e morirono in massa.
Il virus si diffuse anche fra i civili di tutto il mondo procurando altri milioni di morti, in particolare nei paesi orientali come l’India, l’Indonesia e la Cina. Anche in Italia il virus colpì con straordinaria brutalità causando la morte di circa 600.000 persone, praticamente lo stesso numero di vittime causato dalla Grande Guerra. L’influenza causata dal virus assunse il nome di “spagnola” perché in quel periodo la Spagna neutrale non sottopose i suoi mezzi di comunicazione a una stretta censura militare e quindi informò regolarmente i cittadini sull’epidemia. Inizialmente la circolazione di queste informazioni non era avvenuta nei Paesi in guerra, dove le autorità avevano preferito o non diffondere le notizie sull’influenza o sminuire la sua letalità così da evitare la diffusione del panico e quindi poter continuare i combattimenti.
Quali furono però i risultati di questa catastrofica epidemia? Essa naturalmente rese più forte il Paese con la situazione interna migliore e uscito sostanzialmente “intatto” dalla guerra, gli Stati Uniti, indebolendo l’Europa dove alle devastazioni portate dalla guerra si aggiunsero quelle portate dalla spagnola. Difatti i paesi europei, in particolare quelli sconfitti, dovettero fronteggiare una situazione disperata. Non solo essi erano indebitati fino al collo per colpa degli altissimi costi bellici e di ricostruzione, ma erano anche a corto di manodopera. Infatti la guerra aveva causato la scomparsa di milioni di uomini, ne aveva mutilati molti di più e in tanti erano tornati dal fronte in condizioni psicologiche precarie. Infine la spagnola aveva dato il colpo di grazia portando via altri esseri umani. In sostanza l’influenza non fece che imprimere un ulteriore accelerazione al processo di spostamento del baricentro mondiale dal Vecchio al Nuovo Mondo, velocizzando la crescita dell’egemonia americana a scapito di quella europea, ormai in lento disfacimento, e incrementando ancor di più la dipendenza economica europea nei confronti degli Stati Uniti. Sul fronte interno l’influenza aumentò il già dilagante disprezzo sia verso alcune componenti della nazione reputate estranee o nemiche, sia verso la classe politica, alimentando un malcontento così forte da provocare le numerose sommosse e violenze dei primi anni del dopoguerra.
Le nazioni del periodo, distrutte dalla concomitanza dei due eventi catastrofici, si abituarono sempre di più a convivere con la morte, diventata ormai una presenza costante, e rivalorizzarono l’idea di giovinezza in connessione con l’azione, il movimento e purtroppo anche la violenza. Questo fu il momento dei movimenti di estrema destra come il Fascismo che fecero della giovinezza uno dei loro simboli e uno dei loro inni. Mussolini ebbe la perspicacia di attirare a sé le masse di giovani sopravvissute alla guerra e all’epidemia, di incanalare le loro energie verso un rafforzamento del suo movimento; ebbe l’intuizione e il desiderio d’incentrare sul mito della giovinezza il nucleo stesso del Fascismo innalzando “lo stendardo della giovinezza” dinnanzi alla vecchia e apatica Italia del passato reputata sorda verso le aspirazioni di una gioventù tradita dai politici e decimata dalla guerra e dalla malattia.
Oggi, a più di un secolo di distanza, la situazione non appare più come quella di allora. La società odierna non viene da anni di guerra (nonostante la terminologia militare venga spesso usata per indicare la lotta contro il virus), l’epidemia del SARS-CoV-2 (almeno per ora) è ancora molto lontana dai livelli di letalità della febbre spagnola e in questo secolo l’umanità ha visto stupefacenti progressi in campo medico e scientifico. Nonostante ciò le due situazioni presentano delle somiglianze.
Prima fra tutte la connessione che, oggi come allora, caratterizza tutto il mondo. Le due epidemie in sostanza hanno marcato l’effimera consistenza dei confini agli occhi delle malattie come anche agli occhi delle invisibili interdipendenze e fitte interconnessioni createsi nel tempo fra le nazioni.
La Cina, come gli Stati Uniti un secolo prima, potrebbe approfittare dell’impreparazione di alcuni soggetti politici (Unione Europea e Stati Uniti) per espandere le sue aree d’influenza, per rinvigorire il suo soft power, per indirizzare l’opinione pubblica dei paesi più colpiti attraverso l’invio di aiuti (come nel caso dell’Italia) e per apparire come l’unica potenza capace di far fronte in poco tempo alla peggiore epidemia degli ultimi decenni (e cercando così di nascondere l’iniziale gestione maldestra, la scarsa trasparenza e le evidenti colpe del governo cinese nella diffusione del virus su scala planetaria).
Il Coronavirus potrebbe diventare una grande occasione per il governo di propagandare la potenza, la solidità, la disciplina, la risolutezza, l’efficienza della rinnovata nazione cinese, nonché la sua nobiltà d’animo. Un’altra impressione che la Cina vuole dare di sé a tutte le potenze del mondo è quella di essere un paese giovane e vigoroso. E qui di nuovo appare evidente il collegamento tra giovinezza, azione e violenza. Quella cinese è una nazione giovane, quindi in grado di agire con prontezza e quando serve capace di autoimporsi la violenza (quarantena forzata a milioni di cittadini, caccia spietata a coloro che hanno violato la quarantena e pena capitale per chi nasconde i sintomi) pur di non intaccare il suo potere e il suo percorso di rinnovamento. Auto imposizione della violenza, tipica di una potenza giovane affascinata più dal potere che dalle agiatezze, che risulterebbe quanto meno crudele, se non impossibile, presso le democratiche nazioni occidentali abituate al benessere e alla pace.
Contemporaneamente, forse piccolo residuo di un passato da potenza, si sta diffondendo in Europa una nuova e controversa “esaltazione” della giovinezza la quale trae le sue origini dalla falsa credenza che i giovani siano quasi immuni al nuovo virus. Tale credenza, diffusa soprattutto presso alcuni paesi nordeuropei, segue la convinzione che sia inutile fermare le attività e porre il paese in quarantena dato che i giovani, implicitamente considerati “la parte utile e produttiva delle società”, non sono soggetti agli effetti più gravi della malattia e sono quindi pronti a rientrare velocemente nel sistema produttivo.
L’evidente disumanità insita in questa nuova “esaltazione” della giovinezza è la totale mancanza di empatia nei confronti della parte più anziana e debole della società; più nello specifico denota la quasi totale mancanza di attenzione ai sentimenti dell’essere umano e l’assenza d’interesse verso il ruolo di custodi della memoria da esse rivestito. In sostanza denota il sacrificio di una parte di ciò che ci rende umani a tutto vantaggio dei pochi.
Per concludere, le epidemie sono sempre state, come le guerre, causa di sofferenza, morte, crisi, caduta o ascesa di imperi. Tutto questo però non deve abbattere il morale ma favorire la collaborazione, stimolare il rispetto della vita, spingere a non dimenticare il passato, incoraggiare a ripensare sé stessi e insegnare a prestare più attenzione ai pericoli.
Autore Alessandro Trabucco