Con l’ultimo appuntamento di due settimane fa ci siamo lasciati con la fine della Guerra Dei Sei Giorni e con la trasformazione d’Israele in potenza occupante il cui destino appariva ormai legato a quello dei territori occupati, West Bank primo fra tutti. Proprio in virtù di questo stretto legame e anche in virtù del recentissimo “Deal of the Century”, l’ultimo dei numerosi tentativi di risolvere la questione dei Territori Palestinesi Occupati, abbiamo deciso di trattare brevemente in questo nuovo articolo la memoria, o meglio le memorie, del conflitto da cui tutto ha avuto origine nel contesto del paese più frastagliato e che forse più di tutti ne ha sperimentato le conseguenze: Israele. Non possiamo parlare di memoria della Guerra dei Sei Giorni in Israele senza innanzitutto enunciare i tre macro gruppi in cui la società israeliana si divide: gli israeliani laici e atei, gli israeliani credenti più influenzati dalla religione fra cui gli ortodossi e i cittadini israeliani di origine araba. Enunciare questa divisione è molto importante viste le spesso notevoli differenze che possiamo riscontrare all’interno di ciascuno di questi gruppi. Per gli israeliani più credenti, come anche per tutti gli altri, i giorni che hanno preceduto la guerra sono ricordati come densi d’angoscia. Tale angoscia era dovuta al ricordo degli eventi dell’Olocausto, ancora vivi nella mente di tutta la popolazione israeliana e in particolare in quella di origine ashkenazita, proveniente in maggioranza dai paesi più colpiti dalle persecuzioni naziste. Sono giorni di paura e preghiera, dove i rabbini si affrettavano alla benedizione dei campi incolti o dei giardini di scuole e ospedali al fine di utilizzarli come cimiteri per ospitare le numerosissime vittime previste nell’imminente scontro. Come sappiamo la guerra prese una piega totalmente opposta alle previsioni fatte dalla popolazione civile israeliana. La grande vittoria venne vista, ed è vista tutt’ora, dai cittadini israeliani più credenti come un incredibile e imprevedibile dono divino che sanzionava la sua benevolenza, il suo favore, la sua vicinanza al popolo ebraico. Ciò spinse molti di questi a sfruttare al massimo questo dono e perciò molti reclamarono i territori recentemente ottenuti con la guerra al fine di costruire nuovi insediamenti possibilmente vicino luoghi dalla grande valenza storico/religiosa. Il maggior attivismo degli ambienti più religiosi condusse a degli stravolgimenti all’interno del sionismo perché permise alla corrente messianica, fino a quel momento poco importante, di uscire dall’emarginazione e di spostarsi sotto gli occhi di tutti, al centro dell’attenzione nazionale. Fra questi ambienti il gruppo più attivo era il movimento dei Gush Emunim. Per loro i territori conquistati altro non erano che un dono di Dio e quindi non potevano più essere restituiti agli arabi, erano solo per il popolo d’Israele. Di qui la rivendicazione dell’intera terra d’Israele, cioè dal Mediterraneo al Giordano, legata all’idea del Grande Israele.
L’idea del Grande Israele richiamava il sogno di ricreare i confini che dovevano spettare all’antico Regno d’Israele, citati più volte nella Torah, e ritenuti molto più estesi di quelli attuali. Naturalmente un’idea del genere non poteva che influenzare negativamente il ricordo della guerra presso le componenti più religiose. Infatti al giorno d’oggi esse la ricordano anche come una vittoria a metà, una vittoria incompiuta, una grande occasione mancata. Il governo dell’epoca doveva approfittare dei trionfi della guerra per espandere lo Stato d’Israele in tutti i territori menzionati nella Bibbia i quali, secondo essi, spettavano di diritto allo stato israeliano e doveva inoltre cancellare tutte le costruzioni che nel tempo avevano modificato Gerusalemme cancellandone l’identità ebraica, come le mura ottomane e la moschea di Al-Aqsa, in quanto sorte su un luogo sacro agli ebrei cioè le rovine del secondo tempio. Questo loro ricordo spinge le comunità più religiose a sostenere massicciamente le forze di destra “capitanate” da Netanyahu in quanto considerate le uniche in grado di rimediare agli errori del passato, le uniche in grado porre fine alla situazione creatasi nel corso degli anni e in grado di riportare fra le braccia d’Israele ciò che ritengono gli spetti. Nonostante i sogni infranti e le numerose speranze, è praticamente impossibile cancellare dalla memoria collettiva di questo gruppo il collegamento della vittoria in guerra con la gioia provata alla notizia della liberazione della Città Santa e del Muro del Pianto, il luogo più sacro per gli ebrei. La liberazione del Muro in particolare ha innescato un sentimento religioso molto forte fra molti israeliani, sentimento che è andato espandendosi soprattutto all’interno delle forze armate come racconta il veterano della Guerra dei Sei Giorni Yaki Hetz: “Quando combattemmo la maggior parte dei soldati non erano religiosi, solo il 5% lo era. Oggi è diverso, nell’esercito israeliano forse la percentuale dei religiosi è del 50%”.
Per queste componenti le odierne cerimonie nazionali come lo Yom Yerushalaim (il Giorno di Gerusalemme, festa nazionale di grande importanza in Israele la quale commemora la riunificazione di Gerusalemme all’indomani della Guerra dei Sei Giorni) assumono il valore di cerimonie religiose, valore dovuto alla grande permeazione di Dio nella storia e alla presenza di importantissimi luoghi sacri all’interno dei territori ottenuti nel 1967. La religione comunque ha giocato un grande ruolo anche fra gli israeliani laici e atei infatti il loro nazionalismo secolare era “intimamente connesso”, nonostante rifiutasse di presentare sé stesso in questo modo, al simbolismo religioso e al discorso sulla redenzione per coloro che fossero giunti a Gerusalemme. Per questi ultimi il ricordo della guerra è più particolareggiato, spesso diverso a seconda dell’ideologia politica, e ha conosciuto numerose trasformazioni nel corso del tempo. Negli anni strettamente successivi alla guerra, quando ancora le guerre arabo-israeliane erano una realtà vicina se non contemporanea, il ricordo comune rappresentava un paese isolato, Israele, circondato da numerosi nemici violenti e fanatici della guerra, i paesi arabi, privi di alcun rispetto per la vita altrui. Sostanzialmente tutte le responsabilità venivano scaricate sugli arabi e si gioiva al pensiero di aver riottenuto delle terre che secoli prima appartenevano agli ebrei. L’avvento di nuove interpretazioni del passato e dei processi di pace portò a una prospettiva meno di parte la quale tendeva anche a una maggiore immedesimazione nell’avversario, nei suoi pensieri, nelle sue ragioni. Inoltre gli avvenimenti degli anni ’70 e ’80, in particolare la guerra in Libano, avevano inferto un duro colpo alla tradizionale narrazione trionfalistica dei primi tempi. Ora la guerra rimaneva sempre un grande trionfo ma allo stesso tempo un conflitto evitabile, simbolo di un periodo travagliato il quale aveva irrimediabilmente sporcato la coscienza d’Israele e trasformato lo stato ebraico in un paese aggressivo, militarista e violento. Senza dimenticare le guerre, gli attentati, le violenze reciproche e l’odio connessi alla vittoria i quali avevano lasciato agli israeliani, per la maggior parte desiderosi solo di una vita normale, un “dono avvelenato” colpevole di aver ridotto la società israeliana allo stremo. Questi rapidi mutamenti, in buona parte assenti nelle controparti arabe, altro non sono che un grande segnale di maturità proveniente dalla società israeliana la quale ha dimostrato di saper mettere in dubbio le proprie categorizzazioni, alcuni pezzi della propria memoria e identità nazionale, i propri modi di pensare e di vedere i vicini. Mutamenti però che hanno anche dato spazio a correnti di pensiero più spinte, tendenzialmente vicine all’estrema sinistra. Per esse la guerra fu un conflitto da tempo ben calcolato dagli israeliani al fine di mantenere l’ordine, al fine di preservare la “struttura di potere” venutasi a creare nel corso del tempo così da sottomettere i paesi arabi allo strapotere delle armi israeliane. Esse ritengono che la narrazione sul conflitto sia massicciamente condizionata dal militarismo imperante in Israele e dallo straordinario peso che hanno le forze armate nella società israeliana. Gli anni dopo Oslo però hanno esternato ampiamente i dubbi e le paure che covavano in seno alla società israeliana nonostante i processi di pace e le nuove correnti interpretative. Lo scoppio della seconda Intifada, la seconda guerra in Libano, i continui conflitti, i sogni egemonici dell’Iran e, infine, la guerra civile in Siria, l’infiltrazione di numerosi attori nella polveriera siriana, l’ISIS e il suo carico di atroci violenze, hanno spinto ampie porzioni della società israeliana a una nuova e rinnovata diffidenza, simile a quella provata negli anni precedenti, nei confronti dei suoi vicini considerati ancora poco propensi a un accordo e quindi non pronti alla pace.
Dopo un periodo di speranza Israele si è sentito di nuovo accerchiato da vicini ostili che riteneva non avessero la minima intenzione di fare la pace con esso. Il timore dell’accerchiamento è sempre stato vivo nella mente degli israeliani ed è anche stato uno dei fattori scatenanti della Guerra dei Sei Giorni. Se da un lato questa psicosi da accerchiamento non corrisponda sempre alla realtà ma più che altro alle paure e ai ricordi del passato, dall’altro lato anche gli opposti schieramenti non collaborano nella distensione degli animi con i loro continui attacchi missilistici o terroristici e le loro insistenti minacce. Senz’altro un contesto del genere può rappresentare una potenziale minaccia per l’identità nazionale israeliana e per la memoria collettiva nazionale, infatti situazioni violente e traumatiche del genere posso distruggere, oltre che le vite, anche le ideologie e le convinzioni e spingere verso diversi schieramenti. Ed è proprio quello che è successo in Israele in questi ultimi vent’anni dove il crollo di Oslo e il terrorismo hanno forgiato un rinnovato senso di unità presso la collettività degli ebrei israeliani, unità che aveva conosciuto un momento di crisi dagli eventi e da nuove interpretazioni del proprio passato. La memoria della Guerra dei Sei Giorni in questo contesto ha visto una “regressione” a vecchi schemi di pensiero collettivo simboleggiata dalla perdita di credibilità del ricordo della guerra che si era fatto strada negli anni ottanta e novanta il quale la identificava come “peccato originale”, causa scatenate di numerosi soprusi e violenze, e dal rinvigorirsi di vecchi paradigmi di pensiero mai sopiti. Al contrario, per quegli ambienti ritornati agli “schemi familiari” del passato, la guerra ritornò a caricarsi di quei simboli che tanto spazio avevano avuto negli anni dopo la guerra. In realtà questi schemi non erano mai scomparsi ma al contrario avevano preso forza nei crescenti movimenti di destra contemporaneamente all’aumento, in altri ambienti, dell’ostilità nei confronti della retorica nazionale, della narrativa ufficiale. Acquisirono una forza così grande da condurre più volte al potere i principali esponenti degli ambienti che li avevano adottati, cioè quelli principalmente schierati nell’ala destra del Sionismo. Per questi il conflitto è un trionfo indiscutibile da non caricare con significati negativi e dal quale bisogna attingere in quanto fonte di ideali e valori. In un periodo di crisi e di incertezza come quello che si sta attraversando, le gesta dei soldati che hanno combattuto la guerra, caricate di significati conferiteli nel corso del tempo dai “fabbricatori di memoria”, diventano, ancor più di prima, un patrimonio dal quale attingere e prendere esempio. Un patrimonio capace di dare un’identità e un passato a gruppi di persone smarrite le cui convinzioni e speranze sono crollate una per una. Quegli eventi densi di valori e di insegnamenti sono, ora più che mai, utili per affrontare un nuovo accerchiamento, da alcuni considerato simile a quello del 1967, così da ottenere la solidità morale e ideologica ritenuta indispensabile per affrontare tali avversità. Come ritornano le scene del passato, ritornano anche le convinzioni del passato, dei vicini bellicosi i quali non vogliono la pace ma soltanto la totale distruzione d’Israele. Quindi non è un caso che in momenti di crisi come questo siano più frequenti gli sforzi dei media e delle scuole nel sostegno delle politiche e delle ideologie nazionali, e di conseguenza siano anche più frequenti delle iniziative come le visite guidate, predisposte dalle più diverse organizzazioni, in luoghi di particolare importanza, dato il grande valore
educativo che questi trasmettono mediante la narrazione che intendono preservare.
Un’ultima componente decisiva della società israeliana che, come le altre, è pesantemente influenzata dalla memoria e dalle conseguenze della Guerra dei Sei Giorni è la comunità degli arabi israeliani. Gli arabi israeliani sono una popolazione di nazionalità palestinese con cittadinanza israeliana e sono i diretti discendenti dei palestinesi che durante e dopo la Guerra d’Indipendenza Israeliana non furono cacciati o si rifiutarono di scappare dalle loro case. Essi corrispondono a circa il 20% della popolazione d’Israele, sono in maggioranza musulmani con forti minoranze cristiane e sono localizzati soprattutto fra Gerusalemme, Haifa, Akko e Nazareth. I palestinesi israeliani sono di fatto dei cittadini di serie B e ancora oggi soffrono di diverse discriminazioni e stereotipi. Paradossalmente per loro il ricordo del conflitto del ‘67 non è così negativo come ci si possa aspettare. Rappresenta sicuramente una rottura, un brutale colpo alle loro speranze di tornare sotto un governo arabo, possibilmente palestinese, ma allo stesso tempo rappresenta un ricordo per certi versi, positivo. Prima di tutto il crollo delle loro speranze fece capire che non potevano più interamente contare sulle forze degli stati arabi i quali si erano generalmente dimostrati inefficaci contro Israele. Questa presa di coscienza fece comprendere ai palestinesi israeliani, come ai palestinesi del West Bank, che era giunto il momento di prendere il proprio destino nelle mani e ciò condusse all’incredibile rafforzamento del nazionalismo palestinese soprattutto fra i palestinesi israeliani. Non è un caso che il grande storico e politico Michael Oren sostenga questa posizione. Nel periodo strettamente precedente il cinquantesimo anniversario della guerra del ‘67 affermò: “I palestinesi sono i più grandi vincitori della guerra. Fu il fallimento degli eserciti arabi nello sconfiggere Israele nella Guerra dei Sei Giorni che ispirò i palestinesi a unirsi insieme e combattere per la propria indipendenza”. Quindi alimentati dagli eventi e dagli sviluppi drammatici di questo periodo, gli arabi israeliani gradualmente rivendicarono la propria identità palestinese in un processo, che divenne noto come “palestinizzazione”. La guerra del 1967 fece rinascere il sentimento palestinese in un modo tale che la nazione palestinese ritornò dalla cenere della catastrofe del 1948 e si pose di nuovo lì a esprimere il suo sentimento nazionale, la sua volontà indipendente, la speranza che forse la nazione palestinese potesse essere unita di nuovo come prima, dopo la guerra del 1967. Laa guerra per gli arabi israeliani significa anche il ricordo della rottura della linea che per diciannove anni aveva separato i palestinesi d’Israele e i palestinesi del West Bank. La vittoria israeliana all’inizio portò sconforto sulla popolazione palestinese israeliana perché si riteneva svanita ogni possibilità di essere liberati e di poter ritornare a muoversi liberamente, ma non fu così. Ironicamente i palestinesi d’Israele potrebbero essere considerati l’unico partito arabo emerso in parte vittorioso dalla sconfitta. Per la prima volta dal 1948, ebbero la possibilità di vedere luoghi fino ad allora interdetti come Gerusalemme, una parte della Siria, dell’Egitto e un po’ di Giordania. I reparti militari abbandonarono le loro posizioni nelle zone a maggioranza araba dalle quali, a causa dei sospetti verso i cittadini palestinesi, non erano mai andati via fin dalla guerra del 1948 e si diressero verso il West Bank, Gaza e le altre zone passate sotto il loro controllo permettendo così agli arabi israeliani di muoversi quasi in libertà per tutta la “Palestina riunita” anche sotto un governo da loro non gradito. Essenzialmente, “in un agrodolce colpo di ironia, i palestinesi di entrambi i lati del confine furono uniti dalla sconfitta”.
Come abbiamo potuto osservare, Israele è un paese tanto piccolo quanto frastagliato, caratterizzato da numerose comunità al suo interno le quali più o meno tutte si riconoscono in un’appartenenza comune. Questa pluralità interna non deve essere interpretata come un punto di debolezza ma anzi come una grande sorgente di forza del piccolo paese. Un fattore in più capace di fornire prospettive diverse, di avvicinare sempre di più la sua popolazione alla ricerca della verità. Il ricordo di questa guerra come abbiamo visto non è stato, non è e non sarà uniforme ma a seconda del periodo storico, dei vissuti della società e delle ideologie politiche dominanti conoscerà imprevedibili cambiamenti i quali daranno origine a memorie sempre diverse e, mai dimenticarlo, sempre figlie dei loro tempi, delle aspirazioni nazionali, delle necessità presenti e future e delle sfide che il piccolo stato ebraico si ritroverà ad affrontare.
Articolo di Alessandro Trabucco.