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Guerra asimmetrica nel conflitto arabo-israeliano

L’evoluzione della guerriglia palestinese dal 1948 al 1993

Le origini della guerriglia

La guerriglia rappresenta un aspetto non secondario all’interno del lungo conflitto israelo-palestinese. Quest’ultima è stata lo strumento con cui i palestinesi hanno tentato di contrapporsi alle forze israeliane, sia in accordo con gli stati arabi che in autonomia, attribuendole varie finalità, da quella di semplice appoggio alle forze regolari, a quella di una guerra insurrezionale che potesse portare alla sconfitta di Israele. Dopo la sconfitta degli eserciti arabi nella guerra del 1948, la grande maggioranza della popolazione palestinese dell’ex mandato britannico di Palestina lasciò il territorio che era ricaduto sotto il controllo delle forze armate israeliane e si rifugiò negli stati confinanti. Già pochi mesi dopo la fine del conflitto alcuni palestinesi, da soli o in piccoli gruppi, cercarono di superare la linea di confine per tornare alle loro case e/o cercare di ricongiungersi con i loro parenti. Infatti, “nonostante i successi militari” che avevano “fornito zone cuscinetto tra il cuore di Israele e gli stati arabi vicini, Israele rimase vulnerabile alle infiltrazioni”[1]. Dopo il 1952 la penetrazione individuale fu gradualmente sostituita da un’attività più organizzata, sponsorizzata e armata dai governi arabi. Sul confine giordano i tentativi di ingresso furono contrastati dalle forze armate israeliane tramite raid e le stesse autorità militari della Giordania furono sempre molto fredde verso i palestinesi che tentavano di superare il confine e, temendo le rappresaglie israeliane, intensificarono i pattugliamenti di frontiera, rimuovendo gli ufficiali che non avevano agito con sufficiente energia. Per ciò che riguarda l’Egitto, il dibattito sulla creazione di unità militari palestinesi si presentò dopo il colpo di stato dei liberi ufficiali, dato che la monarchia si era sempre mostrata restia nel supportare questo progetto, temendo che esso potesse incoraggiare azioni espansionistiche israeliane. Il gruppo più importante che prestò servizio nelle forze armate egiziane è quello conosciuto con il nome di Fidaiyyin (uomini del sacrificio). Si trattava di palestinesi che erano stati impiegati dall’intelligence militare egiziana per condurre ricognizioni all’interno del territorio israeliano fin dal 1949. Negli anni successivi essi saranno trasformati in un’unità militare formale e saranno impiegati in azioni di schermaglia e guerriglia lungo il confine egiziano fino alla guerra del 1956 che vedrà gli israeliani, appoggiati militarmente da Inghilterra e Francia, occupare la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai, salvo essere successivamente costretti al ritiro a causa dell’intervento congiunto degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Nei dieci anni che separarono la guerra di Suez da quella dei sei giorni, unità palestinesi continuarono a compiere azioni di guerriglia partendo dal territorio egiziano. Tuttavia, sebbene queste iniziative fossero politicamente appoggiate dal presidente Nasser, egli fu sempre attento nel fare in modo che esse non portassero ad un’escalation e ad uno scontro diretto con Israele. Lo strumento principale con cui le forze arabe speravano di vincere non era la guerriglia, bensì un’azione di guerra tradizionale condotta dagli eserciti regolari. Per pianificare e condurre la futura guerra, nel gennaio 1964 Nasser decise la creazione del Commando arabo unificato. L’organizzazione della guerriglia da parte dei palestinesi fu strettamente legata all’organizzazione politica che essi si diedero nei paesi della diaspora: fondamentale fu la fondazione, nel giugno 1964, a Gerusalemme, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), un’organizzazione ombrello che riuniva al suo interno vari movimenti. Ben presto il movimento di Fatah, rappresentato dal suo leader Yasser Arafat, ottenne un ruolo di guida. Fu decisa, parallelamente, anche creazione dell’Esercito di Liberazione della Palestina (ELP) che andava ufficialmente a costituirsi come ala militare dell’OLP e avrebbe dovuto coordinarsi con il Comando arabo unificato ma che, nei fatti, non operò mai sotto il comando di quest’ultima e fu sempre sottoposto all’autorità degli stati maggiori arabi dei paesi in cui le brigate erano stanziate.

I territori occupati dopo la guerra dei sei giorni

La disfatta degli eserciti arabi nella guerra dei sei giorni del giugno 1967 e l’occupazione di Gerusalemme est, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, impose ai palestinesi di ridefinire la loro strategia e “il sogno di distruggere l’entità sionista con una forza araba unificata sotto la guida di Nasser fu infranto”[2]. Di conseguenza, “il terrorismo e l’azione di guerriglia, in gran parte in emulazione del modello vietnamita di una lotta di liberazione nazionale”[3] diventarono il principale strumento di lotta. Dopo la sconfitta, la dirigenza dell’OLP si trovò spaccata tra una minoranza che si opponeva all’iniziare azioni di guerriglia nei territori ora occupati da Israele, sostenendo che queste avrebbero potuto portare a rappresaglie contro gli abitanti locali e una maggioranza che insisteva sulla necessità della resistenza armata, sostenendo che essa avrebbe sollevato il morale dell’opinione pubblica palestinese. Fatah mirava a sfruttare la disfatta degli eserciti arabi per emancipare il movimento palestinese dalla loro tutela e per condurre la lotta in maniera maggiormente autonoma, sperando di coinvolgere tutta la popolazione dei territori occupati in una lotta che avrebbe potuto portare alla liberazione della Palestina. Era ormai chiaro come non fosse più possibile contare unicamente sugli eserciti arabi per sconfiggere Israele e che l’OLP avrebbe dovuto intraprendere la lotta in prima persona. Sotto la guida del movimento di Arafat furono organizzate diverse cellule di guerriglieri nelle aree occupate. Gli sforzi di Fatah si concentrarono maggiormente nel territorio della Cisgiordania piuttosto che a Gaza, dove le azioni di guerriglia furono condotte da ex appartenenti all’ELP i quali avevano già sostenuto alcuni limitati scontri con gli israeliani, in coordinamento con le forze armate egiziane. Dopo aver iniziato le operazioni di combattimento, i comandanti di Fatah in Cisgiordania divennero estremamente ambiziosi ed iniziarono a progettare un’insurrezione generale che avrebbe dovuto portare alla creazione di zone semi-liberate e alla relegazione delle forze israeliane nelle città e lungo le strade principali. Le ambizioni di Fatah, però, erano difficilmente concretizzabili: la scarsa organizzazione, le vigorose contromisure israeliane e la scarsa partecipazione popolare condannarono il progetto al fallimento. Le autorità militari israeliane che erano state istituite nei territori occupati reagirono in maniera energica alle azioni di guerriglia, ricorrendo alla detenzione amministrativa (che non necessitava di un capo di accusa o di un processo), sia individuale che collettiva, al coprifuoco, alla demolizione di case, ai divieti di viaggio e di commercio e all’espulsione in Giordania di elementi accusati di attività ostili. Dal punto di vista militare “gli israeliani installarono difese fisse contro l’infiltrazione”, e schierarono “pattuglie itineranti tratte dalle forze speciali (sayaret) e dalle forze speciali dei paracadutisti (sayaret tsanhanim)”[4]. Le misure di sicurezza alle frontiere e il pattugliamento delle colline da parte delle forze militari israeliane portarono anche a scontri con i guerriglieri, in cui i palestinesi subirono spesso la superiorità di armamento israeliana. Il fallimento di questa strategia fu dovuto anche al fatto che buona parte della popolazione dei territori occupati non prese parte attiva ai progetti dell’OLP, fornendo solamente un supporto passivo e “cercando di adattarsi alla realtà in cambiamento e di stabilire un modus vivendi con la nuova autorità”[5].


Il periodo di permanenza in Giordania

La mancata insurrezione spinse Fatah a teorizzare la necessità di basi sicure nei paesi arabi confinanti con Israele, da cui piccole unità di guerriglieri palestinesi conducevano azioni contro gli insediamenti nei territori occupati e contro il territorio israeliano, in un rapporto di ambiguità con i governi arabi che, formalmente, sostenevano la lotta dei palestinesi ma che, nei fatti, erano desiderosi di evitare rappresaglie israeliane. Alcune azioni furono condotte dal Libano e dalla Siria, ma lo stato che maggiormente funse da piattaforma per la guerriglia fu la Giordania, dove viveva la maggior parte dei rifugiati palestinesi e che tra gli stati arabi era quello che aveva il confine più lungo con Israele e la Cisgiordania. Le autorità giordane tentarono, in una prima fase, di limitare e di ostacolare le azioni di guerriglia, desiderose, come erano, di evitare un nuovo confronto militare con Israele ma “i guerriglieri trovarono molti soldati giordani non disposti ad agire contro di loro”[6] e pronti ad offrire un aiuto concreto. Il centro più importante in territorio giordano sfruttato dai palestinesi fu Karameh. Per contrastare le azioni di guerriglia, Israele decise, il 21 marzo 1968, di lanciare un attacco allo scopo di distruggere i centri di addestramento e di punire la Giordania per quella che veniva vista come una complicità con le azioni ostili dei palestinesi, impiegando sia forze di terra che di aria. Israele immaginava che l’esercito giordano non avrebbe preso parte ai combattimenti, lasciandogli mano libera contro i palestinesi. In realtà, i giordani attaccarono le unità israeliane con l’artiglieria pesante, mentre i miliziani palestinesi si impegnarono in azioni di guerriglia, spingendo gli israeliani a ritirarsi dopo una battaglia durata un solo giorno. Se, a livello tattico, Israele era riuscito a distruggere la maggior parte del campo di Karameh e a catturare un centinaio di combattenti, a livello politico, la Giordania e l’OLP poterono rivendicare di aver fermato un’incursione di terra israeliana. La battaglia ebbe significative conseguenze politiche in Giordania, spostando maggiormente l’opinione pubblica in favore dei palestinesi e della lotta contro Israele. La popolarità ottenuta dall’OLP gli consentì di aumentare il numero di guerriglieri sotto il suo comando, i quali furono organizzati in piccole squadre sparse sul territorio, allo scopo di poter compiere più agevolmente incursioni in territorio israeliano, rendendo più difficile al nemico di colpirli con l’artiglieria o con raid aerei. Nonostante questa strategia “il fuoco israeliano costrinse la maggior parte delle basi di combattimento a rischierarsi fuori dalla Valle del Giordano e sulle colline a est entro l’estate del 1968, e innescò uno sforzo più attivo per stabilire il quartier generale” ed i centri di comando ed addestramento “nelle principali città e campi profughi del regno”[7]. Nel fronteggiare le azioni dei guerriglieri, Israele adottò sia una tattica definita di annientamento, “basata su una singola azione o su una serie di azioni intraprese in un lasso di tempo limitato, con lo scopo di giungere alla totale distruzione delle forze nemiche, grazie alla superiorità in uomini e mezzi”, sia una strategia definita di attrito, che “si basa sull’effetto cumulativo di una sequenza prolungata di azioni militari intermittenti, nessuna delle quali, di per sé, elimina la minaccia rappresentata dai guerriglieri”[8]. Israele preferì generalmente fare ricorso all’annientamento, puntando su una strategia che massimizzasse i risultati e minimizzasse il logoramento delle risorse, sia materiali che umane. Comprendendo che “Israele era orientato a ottenere rapide vittorie militari” allo scopo di minimizzare le perdite, i palestinesi decisero di “fare affidamento sui loro vantaggi di profondità umana e geografica per neutralizzare la sua superiorità e prosciugare le sue risorse in un lungo conflitto”[9], impedendo alle forze israeliane di ottenere una rapida vittoria. La tattica dell’infiltrazione, però, non si rivelò fruttuosa. L’energica risposta israeliana fece sì che, entro la fine del 1968, la maggior parte delle pattuglie palestinesi deputate all’attacco in profondità fossero state neutralizzate. La perdita di queste unità impose ai palestinesi di ricorrere al fuoco transfrontaliero che divenne la loro principale azione bellica, tramite l’utilizzo di mortai e razzi di artiglieria.


Il settembre nero e le sue conseguenze

Grazie alla sua lotta contro Israele L’OLP stava guadagnando peso e ciò impensieriva molto la monarchia e le autorità del Regno giordano. Oltre alla popolarità che l’organizzazione riscuoteva tra i numerosi palestinesi e che rischiava di mettere in discussione l’autorità dello Stato, le azioni di guerriglia, che spesso i palestinesi intraprendevano autonomamente, senza consultarsi con le autorità giordane e spesso ignorando i loro avvertimenti e le loro perplessità, avevano provocato pesanti rappresaglie israeliane sul suolo giordano. Inoltre, all’interno dell’OLP, le frange di sinistra iniziarono a manifestare un atteggiamento ostile nei confronti della monarchia, vista come troppo accondiscendente nei confronti degli Stati Uniti e restia a intraprendere la lotta contro Israele. Iniziarono, così, a progettare di scalzarla e di trasformare la Giordania nell’avamposto da cui sarebbe partita la futura liberazione della Palestina. Queste tensioni attraversarono tutto il 1970 ed esplosero nel settembre di quell’anno, in quello che sarebbe passato alla storia come “settembre nero” e che fu una vera e propria guerra civile, sebbene di breve durata, all’interno della Giordania e che vide contrapposte le forze di guerriglia palestinesi e l’esercito regio. La superiorità in termini di armamento e di addestramento delle forze fedeli alla monarchia fece sì che esse avessero la meglio sui gruppi armati palestinesi. La crisi esplosa rischiò, però, di degenerare in un conflitto molto più ampio. In una prima fase sembrò, infatti, che le forze armate siriane e irachene fossero intenzionate ad intervenire in supporto dei palestinesi, cosa che preoccupò molto gli israeliani, anch’essi pronti a intervenire sul suolo giordano, e gli stessi Stati Uniti, che spostarono navi da guerra al largo di Israele e prepararono le forze aviotrasportate stanziate in Germania ad intervenire nel conflitto. I belligeranti furono indotti ad un accordo grazie all’intervento degli Stati arabi, in particolare del presidente egiziano Nasser. La monarchia giordana accettò di consentire all’OLP di abbandonare il suolo del regno, per trasferirsi in Libano, privando quest’ultima del suo principale terreno d’azione contro Israele. La sconfitta del movimento di guerriglia in Giordania vide l’inizio di un’escalation nella campagna israeliana a Gaza che, entro la fine del marzo dello stesso anno, portò alla demolizione di migliaia di case nei campi profughi e all’evacuazione forzata di circa 100.000-150.000 abitanti.

L’OLP in Libano

Le forze palestinesi cercarono di riorganizzarsi e gli ex militari giordani che, al momento dello scontro, avevano disertato e si erano uniti all’OLP furono raggruppati nelle Forze Yarmuk, una brigata stanziata in Siria, che “il comando di Fatah inizialmente considerava […] come il nucleo di un esercito di liberazione […] che avrebbe potuto difendere gli avamposti della guerriglia e contrastare le minacce dei governi ospitanti”[10]. Gli sforzi di riorganizzazione della leadership di Fatah, però, non si limitarono alle sole forze Yarmuk, ma si estesero anche alle forze della guerriglia. Nonostante questi sforzi gli attacchi contro Israele andarono rapidamente scemando. Dopo che le autorità siriane imposero l’allontanamento dei guerriglieri dal confine e l’interruzione delle azioni di guerriglia a causa dei raid israeliani del settembre 1972, infatti, il terreno di azione dell’OLP rimase limitato al solo Libano. Anche il Paese dei cedri dovette subire i raid israeliani che causarono la morte anche di soldati e civili libanesi. Dopo questi eventi l’esercito libanese impose l’evacuazione di alcuni avamposti e i partiti di destra dominati dai cristiani maroniti manifestarono la loro opposizione alla presenza dei guerriglieri palestinesi nel sud del paese. L’OLP accettò di sgomberare un certo numero di basi di confine e limitò i suoi attacchi transfrontalieri, ma la tensione andò nuovamente a crescere con i nuovi raid israeliani del 1973. La presenza dei guerriglieri andò a saldarsi con la crisi sociale esplosa in Libano a causa delle tensioni tra le comunità religiose per la divisione dei ruoli di potere. Nel culmine della crisi le forze armate libanesi tentarono varie azioni per confiscare le armi in possesso dell’OLP ma, a differenza di ciò che era avvenuto in Giordania, i miliziani palestinesi si dimostrarono in grado di reggere il confronto, pur rimanendo sulla difensiva per paura di provocare un intervento israeliano. Un nuovo sforzo bellico dei palestinesi si vide in occasione della guerra dello Yom Kippur, iniziata dalla Siria e dall’Egitto nell’Ottobre del 1973. Già a settembre Sadat, che aveva preso il posto di Nasser, chiese ad Arafat il contributo di alcune unità di guerriglia palestinesi utili allo sforzo bellico egiziano. Allo scoppio delle ostilità, l’OLP decise di aprire un terzo fronte contro Israele e di lanciare una serie di attacchi dal Libano, anche contro le vie di comunicazione israeliane, per alleggerire la pressione sul fronte siriano. Sebbene l’OLP avesse svolto un ruolo militare minore nella guerra fu premiata venendo riconosciuta dagli stati arabi come legittima rappresentante del popolo palestinese.


La guerra civile libanese

L’importanza del Libano per l’OLP divenne evidente quando, dopo la guerra, Sadat avviò, con l’ausilio degli Stati Uniti, un processo di pace. Il fatto che il più potente degli Stati arabi abbandonasse la lotta contro Israele e la prospettiva di un accordo di pace che escludesse i palestinesi spinsero l’OLP ad aumentare il numero degli attacchi dal Libano. I palestinesi si schierarono, sempre più, al fianco dei musulmani sunniti, i quali accusavano l’élite maronita di aver monopolizzato le cariche all’interno dell’amministrazione e dell’esercito. Oltretutto, le comunità religiose avevano progressivamente iniziato ad armarsi e a dotarsi di forze paramilitari, non confidando più nella capacità dell’esercito di mantenere l’ordine. Le tensioni deflagrarono definitivamente il 13 aprile 1975, quando nella città di Beirut scoppiarono violenti scontri a fuoco tra i militanti palestinesi e le milizie dei cristiani maroniti. La capitale libanese si trovò ad essere spaccata, con le forze palestinesi che controllavano la parte occidentale e quelle cristiane che controllavano la parte orientale. A causa dell’inazione del governo, l’esercito libanese non intervenne e nei mesi successivi sì susseguirono massacri tanto a danno dei musulmani, quanto a danno dei cristiani. Progressivamente, l’esercito libanese si disfece, i soldati abbandonarono l’uniforme per unirsi alle milizie armate dalle varie confessioni religiose e i militari sunniti andarono a ingrossare le fila dell’OLP. Nel 1976 l’esercito siriano invase il Libano e conquistò rapidamente i punti nevralgici del paese, scontrandosi anche con le milizie palestinesi. Soltanto l’intervento della Lega araba riuscì a ottenere un fragile cessate il fuoco. Lo scoppio degli scontri tra i palestinesi ed i maroniti non aveva indebolito la presenza dell’OLP nel sud del Libano, cosa che continuava ad impensierire Israele, soprattutto dopo che palestinesi e siriani ebbero appianato i loro contrasti. Israele iniziò ad appoggiare i maroniti ma, dopo un massacro compiuto in Israele l’11 marzo 1978 da un commando palestinese, le forze israeliane lanciarono una massiccia offensiva. La reazione dei palestinesi non fu, però, uniforme. In alcuni casi la resistenza fu feroce, mentre in altri ci fu una rapida ritirata appena dopo pochi scontri, L’avanzata israeliana fu, comunque, molto lenta, anche a causa della presenza di diversi campi minati. Di conseguenza, i miliziani palestinesi ebbero limitate perdite in uomini e mezzi. La presenza israeliana nel sud del Libano (a sud del fiume Litani) e la costante minaccia dei maroniti, spinse l’OLP ad un processo di rafforzamento militare che, sebbene fosse già stato tentato in passato, aveva ottenuto esiti limitati, nonostante l’afflusso di armi pesanti e il ricorso a tattiche difensive statiche tipiche degli eserciti regolari. Il consolidamento dell’OLP “fu caratterizzato soprattutto da importanti aumenti degli armamenti e delle infrastrutture e dalla crescente compartimentazione dei servizi di combattimento e di supporto”, i comandanti palestinesi erano consapevoli di non poter “né eguagliare l’IDF né condurre una difesa statica contro di esso”, anche a causa del dominio aereo israeliano che i miliziani non erano in grado di contrastare. Conseguentemente, puntarono su una forma di combattimento asimmetrico che prevedesse l’impiego di armi pesanti facili da trasportare e muovere nel corso degli scontri. “I principi dell’improvvisa concentrazione della potenza di fuoco e della rapida dispersione caratteristici della guerriglia dovevano essere applicati all’uso di armi pesanti” [11].


I cambiamenti politici e sociali nei territori occupati

L’irrobustimento bellico consentì all’OLP di rafforzare la sua influenza in Libano. Nondimeno, lo scopo dell’organizzazione era di radicarsi nei territori occupati. “Tuttavia, l’OLP si trovò di fronte a un contesto radicalmente diverso in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza rispetto a quello in cui stava già consolidando il suo stato in esilio”[12]. Nei territori occupati, infatti, aveva avuto un grande peso l’intromissione israeliana nella politica economica locale. “Tra le prime misure prese dal governo militare nel giugno 1967 ci fu la sospensione dei servizi bancari e finanziari locali, privando gli imprenditori palestinesi di una fonte di credito”, impedendo all’economia dei territori occupati di svilupparsi e, dunque, di poter competere con l’economia israeliana. “Una serie di decreti amministrativi emessi sotto forma di ordini militari ostacolarono l’industria e l’agricoltura” e negli anni successivi alla guerra dei sei giorni “la rapida espansione dell’industria, dell’agricoltura e dell’edilizia israeliana […] assorbì un numero crescente di lavoratori palestinesi che erano attratti non solo dalla prospettiva di un impiego, ma anche dai salari più alti offerti dalle imprese israeliane”[13], anche se la condizione salariale rimase estremamente discriminatoria nei confronti dei lavoratori palestinesi. Lo scopo dell’OLP era di combinare la resistenza militare con quella civile e, parallelamente, di costruire un sistema alternativo di welfare. Sempre OLP cercò di sfruttare “l’opportunità offerta dalle trasformazioni fondamentali che avevano avuto luogo nella società e nell’economia locale dal 1967”, tra cui il declino dell’élite tradizionale che “si rifletté nella schiacciante vittoria dei candidati pro-OLP nelle elezioni municipali in Cisgiordania dell’aprile 1976”[14], appartenenti alla classe media cittadina che era andata formandosi. Di contro, la situazione a Gaza era notevolmente diversa a causa dell’assenza di una middle class che potesse sfidare i leader sociali tradizionali. “L’assenza di settori industriali e finanziari, i bassi livelli di istruzione e le limitate prospettive per i laureati” impedirono l’emersione di una classe media, “c’erano pochi canali per competere per il potere politico o amministrativo […], sia prima del 1967, a causa della netta demarcazione tra la società locale e l’amministrazione militare egiziana”[15], sia dopo, a causa della decisione israeliana di non consentire elezioni nel territorio di Gaza. “La sconfitta del movimento di resistenza armata a Gaza portò a un prolungato periodo di quiescenza politica dopo il 1972 e alla concentrazione della politica e dell’organizzazione nazionalista in Cisgiordania”[16]. Il principale sostegno al movimento nazionale palestinese fu fornito dagli studenti universitari e dai laureati (prima nei paesi arabi vicini e, successivamente, nella stessa Cisgiordania, dove furono istituite, tra il 1972 ed il 1975, tre università). Erano giovani uomini e donne che avevano avuto la possibilità di uscire dal contesto tradizionale e rurale dei propri villaggi. L’organizzazione politica (in Cisgiordania) fu affiancata dallo sforzo per organizzare la guerriglia. “Fatah aveva imparato alcune lezioni dalla sua esperienza nei territori occupati dal 1968”, uno dei quali era “quello di organizzare i membri in piccoli gruppi legati separatamente agli ufficiali di controllo con sede in esilio, invece delle grandi strutture piramidali che potevano essere più facilmente smantellate dai servizi di sicurezza israeliani”[17]. Per contrastare la ribellione nei territori occupati, gli israeliani, dal canto loro, ricorsero all’utilizzo delle forze armate come forze di polizia per il pattugliamento, il controllo del territorio e l’arresto dei leader locali ritenuti maggiormente pericolosi.


L’operazione “Pace in Galilea”

La violenza in Libano non era cessata dall’invasione israeliana del marzo 1978 e il timore della presenza siriana e palestinese spinse Israele ad intensificare gli attacchi. “Incapace di distruggere l’artiglieria palestinese o di costringerla al silenzio, il governo israeliano autorizzò”, il 17 luglio 1981, “un attacco aereo sul quartier generale dell’OLP a Beirut”[18]. Il raid colpì anche l’ufficio di Arafat, uccidendo 30 funzionari, ma nessun alto ufficiale. L’OLP reagì con massicci lanci di razzi Katusha, che obbligarono all’evacuazione molte comunità nel nord di Israele. Di fronte alle “dimostrazioni della capacità dell’OLP di demoralizzare ampie fasce della popolazione ebraica lungo il confine settentrionale di Israele” le autorità politiche di Tel Aviv “conclusero che una risposta limitata sarebbe stata inefficace, ordinando all’IDF di mobilitare “una forza massiccia, composta da diverse divisioni corazzate e quasi tutta la sua aeronautica militare” con lo scopo “di cancellare l’embrionale mini-stato dell’OLP in Libano”[19]. Il 3 giugno 1982 vi fu il casus belli che giustificò l’invasione, rappresentato dall’attentato subito dall’ambasciatore israeliano a Londra, azione condotta da un commando palestinese non legato all’OLP. L’attacco israeliano, iniziato il 6 giugno con un massiccio fuoco di artiglieria e da pesanti bombardamenti aerei, travolse le forze siriane e palestinesi nel sud del Libano. Le unità di fanteria, supportate da paracadutisti e da sbarchi anfibi lungo la costa, riuscirono rapidamente a raggiungere la città di Beirut. Tuttavia, gli israeliani evitarono di prenderla d’assalto, limitandosi a pesanti bombardamenti, considerato che al suo interno erano asserragliate diverse migliaia di combattenti dell’OLP. Nonostante il collasso delle sue linee difensive nel sud del Libano, quest’ultima era intenzionata a difendere la città, al cui interno aveva ricostituito alcune unità di artiglieria e organizzato posti di comando che preparavano e coordinavano le squadre di guerriglia che attaccavano gli israeliani con razzi anticarro. Lo stallo venutosi a creare fu risolto con un accordo che vide le forze dell’OLP evacuare Beirut e trasferire il quartier generale in Tunisia.


La prima intifada

Nonostante la sconfitta dovuta alla distruzione degli avamposti ed all’esilio della maggioranza dei combattenti, la lunga guerra del Libano offrì ai palestinesi importanti conoscenze militari. “Nel 1982 i palestinesi si resero conto che non era necessario avere un esercito grande e ben equipaggiato per danneggiare il miglior esercito del Medio Oriente”[20], bensì, le sole azioni di guerriglia potevano infliggere grossi danni. La lezione fu immediatamente recepita e messa in pratica nei territori occupati, dove vi fu un aumento degli attacchi tra il 1982 ed il 1987. Dal punto di vista politico la società palestinese degli anni 80 vedrà l’inizio del declino del nazionalismo laico e assisterà ad un maggiore radicamento dell’islam politico che avrà un ruolo durante la prima intifada. Il Movimento della Jihad islamica aveva tra i suoi fondatori Fathi al-Shiqaqi, un giovane rifugiato di Gaza che era stato ispirato dalla rivoluzione islamica in Iran del 1979, trovando nella teologia sciita i fondamenti ideologici per ribellarsi contro la tirannia, elementi che non riusciva a trovare negli insegnamenti sunniti ortodossi. Il Movimento di Resistenza Islamica, conosciuto con il suo acronimo Hamas, nascerà come appendice della Società dei Fratelli Musulmani in Palestina, a sua volta parte del movimento fondato in Egitto nel 1928. “Come le sue controparti arabe, il ramo palestinese si rincuorava per la clamorosa sconfitta araba del 1967, vedendola come la prova del fallimento del socialismo laico e del nazionalismo”[21]. Il movimento si radicherà in particolare a Gaza, dove sarà rappresentato dallo sceicco Ahmad Yasin. L’evento scatenante della prima intifada (termine che vuol dire rivolta) fu un incidente avvenuto l’8 dicembre 1987, quando un veicolo agricolo israeliano si schiantò contro due auto che trasportavano lavoratori palestinesi da Gaza, uccidendo quattro persone. Quando la notizia si diffuse, si radunarono folle spontanee, prima a Gaza e successivamente in Cisgiordania, che iniziarono ad attaccare le forze israeliane, ritenendo che l’incidente fosse stato, in realtà, un omicidio deliberato. Tra coloro i quali animarono le rivolte, “quasi tutti avevano un lavoro in Israele e parlavano ebraico”, erano in maggioranza giovani che “si sentivano discriminati dagli ebrei nei loro luoghi di lavoro”[22] e che denunciavano le umiliazioni e gli abusi subiti ai frequenti checkpoint che le forze armate israeliane istallavano nel territorio occupato, oltre alle continue violenze perpetrate dai coloni ebraici. I giovani che animeranno la rivolta, a differenza dei loro genitori, non avevano mai sperimentato l’occupazione giordana ed egiziana e non avevano assistito all’umiliante sconfitta delle forze arabe nella Guerra dei Sei Giorni. In una prima fase l’IDF ritenne che l’intifada fosse solamente un insieme di “sporadiche rivolte che rappresentavano solo una minaccia di basso livello alla legge e all’ordine” ma, quando iniziarono a verificarsi “manifestazioni di massa più coordinate, boicottaggio dei beni israeliani, altre forme di resistenza passiva e terrorismo”[23], le forze israeliane compresero come fosse necessario approcciarsi in una maniera diversa. Le principali azioni ostili condotte dai palestinesi prevedevano il lancio di sassi e, successivamente, di bombe molotov e granate contro i militari israeliani. Inizialmente, sebbene fossero meglio armate dei loro avversari, “le truppe non erano state addestrate o equipaggiate per un ruolo di polizia e il coprifuoco, la detenzione e la forza fisica erano la forma abituale di risposta”. Nel 1988, però, “emerse un’unità specializzata nel controllo della folla nota come Alpha” che aveva lo scopo di sviluppare nuove tattiche per contenere le proteste, impiegando anche armi non letali come i cannoni ad acqua e proiettili di gomma, furono utilizzate anche “deportazioni selettive di noti agitatori di Hamas”[24] e tattiche di infiltrazione condotte da agenti in borghese. L’intifada si concluse nel 1993 e, nella storia della guerriglia palestinese, rappresentò la prima occasione in cui essa infiammò i territori occupati fin dal 1967, coinvolgendo attivamente buona parte della popolazione.


Note

[1]Ian F.W. Beckett (2001), Modern Insurgencies and Counter-Insurgencies. Guerrillas and their Opponents since 1750, London and New York: Routledge, p.233

[2]Raphael Cohen-Almagor, The Intifada: Causes, Consequences and Future Trends, in Small Wars and Insurgencies 2(1):12-40, April 1991 p.13

[3]Ian F.W. Beckett (2001), Modern Insurgencies and Counter-Insurgencies. Guerrillas and their Opponents since 1750, cit. p.233

[4]Ivi p.234

[5]Raphael Cohen-Almagor, The Intifada: Causes, Consequences and Future Trends, cit., p. 14

[6]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. Oxford: Clarendon Press, 1997, p. 177

[7]Ivi p.183

[8]Stuart Cohen and Efraim Inbar. Israel’s Military Operations against the Palestinians, 1948–90′, in Small Wars and Insurgencies 2(1):41-60, Aprile 1991, p.44

[9]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. cit., p.197

[10]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. Oxford: Clarendon Press, 1997, p.295

[11]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. Oxford: Clarendon Press, 1997 p.449

[12]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. Oxford: Clarendon Press, p.465

[13] ibidem

[14]Ivi p. 466

[15]Ivi p. 467

[16]Ivi p.468

[17]Ivi, p 471

[18]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. Oxford: Clarendon Press, p. 506

[19] Stuart Cohen and Efraim Inbar, Israel’s Military Operations against the Palestinians, 1948–90′ in Small Wars and Insurgencies 2(1):41-60, Aprile 1991, p.56

[20]Raphael Cohen-Almagor, The Intifada: Causes, Consequences and Future Trends, in Small Wars and Insurgencies 2(1):12-40, Aprile 1991, p.16

[21]Yezid Sayigh. Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993. Oxford: Clarendon Press, 1997, p. 627

[22]Raphael Cohen-Almagor, The Intifada: Causes, Consequences and Future Trends, in Small Wars and Insurgencies 2(1):12-40, Aprile 1991, p.20

[23]Ian F.W. Beckett, Modern Insurgencies and Counter-Insurgencies. Guerrillas and their Opponents since 1750, London and New York: Routledge, 2001 p.235

[24]Ivi p.236

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