L’ECCIDIO DEL PILASTRO

Il Pilastro è un quartiere bolognese sito nella periferia del capoluogo emiliano. Molto distante dal centro cittadino, nei primi anni ’80 esso appariva come un’entità di fatto separata dalla città e per molti versi rifiutata e dimenticata. Questo perché esso, fra le sue vie delimitate da enormi condomini-dormitorio, dava ospitalità soprattutto agli ultimi della società come immigrati ed ex carcerati e perché compariva spesso fra le pagine di cronaca dell’epoca come il palcoscenico di numerose azioni criminali. Proprio in questo luogo, il 4 gennaio 1991 intorno alle 22 i giovani carabinieri Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini si trovavano di pattuglia nel quartiere bolognese del Pilastro a bordo della loro Fiat Uno d’ordinanza.

L’incarico dei tre militari era quello di sorvegliare l’ex scuola Romagnoli che fungeva da enorme ricovero per circa trecento immigrati. Nei mesi precedenti infatti vi erano stati numerosi episodi di intolleranza ai danni di cittadini stranieri. Il 20 settembre del 1990 gli stessi immigrati ospitati nell’ex scuola erano stati accolti con lanci di bombe molotov. Inoltre, nelle settimane successive, ignoti avevano tentato di dare alle fiamme la stessa ex struttura scolastica. Il 23 dicembre del 1990 alcuni uomini armati avevano preso d’assalto il campo nomadi di via Gobetti sparando alla cieca con fucili d’assalto e uccidendo due persone, Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina. In quella notte dell’antivigilia dell’Epifania 1991 i tre carabinieri non avevano notato nulla di sospetto. Per i giovani militari sembrava prospettarsi una normale operazione di sorveglianza. Contemporaneamente però, nello stesso quartiere, si aggirava un’altra Fiat Uno, in questo caso di colore bianco, con a bordo tre uomini. Questi tre erano i componenti principali di un’organizzazione criminale conosciuta con il nome di “banda della Uno bianca”, dovuto al mezzo che i banditi utilizzavano più o meno frequentemente per i loro colpi. Gli uomini a bordo della Uno bianca, i fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi, si trovavano presso il quartiere del Pilastro per dirigersi nel paese di San Lazzaro di Savena dove, stando alla testimonianza in tribunale di Roberto Savi[1], avrebbero dovuto rubare un’Alfa Romeo 33 da impiegare per future rapine. Lungo via Casini, la vettura dei carabinieri incrociò quella dei tre criminali e la sorpassò. Fu proprio quel sorpasso a scatenare la furia omicida dei banditi. Esso infatti fu da loro interpretato come una manovra compiuta dai carabinieri per prendere la targa del loro mezzo o per intimarli ad accostare per un controllo. Prima che il mezzo dei militari completasse il sorpasso, il conducente della Uno bianca, Roberto Savi, aprì il fuoco contro i carabinieri ferendo Otello Stefanini. A quel punto la Uno dei militari accelerò per sfuggire al fuoco dei banditi ma pochi metri più avanti sbandò finendo contro dei cassonetti. A questo punto iniziò il conflitto a fuoco fra i carabinieri e i banditi. I militari non fecero tutti in tempo a scendere dalla macchina che furono immediatamente sopraffatti dall’impressionante volume di fuoco, quasi da guerra, scatenato dai fratelli Savi, dotati non solo di pistole ma anche di armi d’assalto.

Furono più di trenta i colpi che raggiunsero i tre giovani carabinieri i quali, dopo pochi istanti, giacevano a terra in una pozza di sangue, ormai privi di vita. I banditi fuggirono immediatamente verso San Lazzaro e successivamente, lasciata la vettura in un parcheggio, cancellarono le loro tracce bruciando la Fiat Uno in quanto uno dei sedili risultava macchiato dal sangue di Roberto, rimasto ferito all’addome durante il conflitto a fuoco. L’intera opinione pubblica nazionale rimase attonita dinnanzi l’omicidio dei tre carabinieri, soprattutto quando iniziarono a circolare le prime ipotesi e ricostruzioni le quali supponevano che i banditi, prima di fuggire, si fossero fermati davanti ai corpi agonizzanti dei tre giovani per finirli a sangue freddo. Inizialmente le indagini si concentrarono su diverse piste. Si pensò a un gruppo di zingari, a una banda criminale comandata dall’ex carabiniere paracadutista Damiano Bechis, a un gruppo di ex appartenenti alle forze armate oppure, come nel caso della banda belga Brabante-Vallone, a elementi appartenenti a organizzazioni del tipo Stay-Behind[1] come Gladio, dediti alle rapine o ad azioni terroristiche. A complicare la situazione ci si misero perfino le minacce della “Falange Armata”, misteriosa organizzazione terroristica che fra gli anni ’80 e ’90 rivendicò numerose azioni criminali e terroristiche in tutta Italia. Alla fine per la strage del Pilastro, sulla base di alcune ricostruzioni e testimonianze che in seguito si riveleranno fasulle, vengo arrestati nel 1992 il camorrista Marco Medda, Massimiliano Motta e i fratelli William e Peter Santagata. Essi sono accusati dell’omicidio dei tre carabinieri, quest’ultimi, secondo la Procura della Repubblica, uccisi in quanto avevano colto in flagrante i quattro durante uno scambio di armi. Nonostante la condanna dei quattro imputati, erano numerosi gli elementi che lasciavano pensare alla cattura delle persone sbagliate. Non a caso la scia di efferati episodi di sangue in tutta l’Emilia Romagna non accennò ad arrestarsi. Inoltre il modus operandi adottato in alcuni di questi continuava a essere il medesimo, come anche la tipologia di armi e mezzi impiegati.

Due anni dopo, nel 1994, gli appostamenti e i pedinamenti compiuti da due poliziotti, Luciano Baglioni e Pietro Costanza, e l’impegno del magistrato Daniele Paci condussero prima all’identificazione e poi all’arresto di tutti i componenti della banda della Uno bianca[1], i veri autori della strage del Pilastro, i quali, escluso Fabio, si rivelarono essere tutti poliziotti in servizio presso le questure dei capoluoghi di provincia emiliano-romagnoli che più erano stati colpiti dalla banda. Grazie alle loro deposizioni in tribunale fu possibile ricostruire dei passaggi ancora oscuri della vicenda e quindi non solo condannare i tre fratelli Savi all’ergastolo per tutti i loro crimini, compresi l’eccidio del Pilastro e il precedentemente citato assalto al campo nomadi di via Gobetti, ma anche scagionare gli innocenti fratelli Santagata, Motta e Medda. Proprio in tribunale però, oltre alle confessioni dei banditi, vennero a galla numerose disattenzioni compiute durate le indagini che, se evitate, avrebbero potuto portare alla cattura dei componenti della banda anzitempo. Una di queste in particolare è direttamente legata alla strage del Pilastro. La perizia balistica sui proiettili sparati dai banditi era riuscita a risalire a una delle armi utilizzate durante la sparatoria. L’arma in questione era il fucile d’assalto Beretta AR70, arma tanto precisa quanto rara, al punto che in provincia di Bologna risultavano solo una trentina di possessori di questo fucile fra cui lo stesso Roberto Savi. Essi quindi furono contattati dalla scientifica per sottoporre a perizia le loro armi. Roberto, consapevole del rischio, aveva ordinato immediatamente in armeria un nuovo fucile AR70 pulito da consegnare alle autorità. Quest’ultime, che di certo non sospettavano ci fosse un poliziotto dietro i fatti del Pilastro, si limitarono a fotografare l’arma non accorgendosi che Roberto aveva denunciato il possesso di un altro fucile identico acquistato in precedenza.

Oltre alle disattenzioni emersero anche numerose false segnalazioni che agli occhi di molti apparvero come dei veri e propri depistaggi. Per esempio, il servizio segreto civile (SISDE) aveva indicato come gli autori della strage sei zingari di origine slava. Oltre che rivelarsi quasi fin dall’inizio una pista poco credibile, il SISDE “non fornisce i nomi degli zingari da ricercare, ma spiega di aver attinto le notizie da propri informatori della criminalità organizzata”[1] senza aggiungere ulteriori informazioni. A questo vanno sommate le ambigue minacce portate ai giornalisti che si occupavano del caso dalla già citata “Falange Armata” dietro alla quale ancora oggi non si conosce chi vi si celasse. Proprio in conseguenza di questi ancora numerosi nodi insoluti, il presidente dell’Associazione Vittime della Uno Bianca, Rosanna Rossi Zecchi, in occasione della commemorazione dei trent’anni dalla strage il 4 gennaio 2021[2], ha espresso la richiesta di digitalizzare gli atti dei processi e di riaprire le indagini, quest’ultima richiesta sottoscritta mediante una lettera anche dalla controversa ex compagna di Fabio Savi e testimone chiave nei processi alla banda, Eva Mikula.


Articolo di Alessandro Trabucco.

[1] Per la testimonianza di Roberto Savi si veda https://www.youtube.com/watch?v=r3_wwyabR6s&t=2244s,  https://www.youtube.com/watch?v=U7Vf_CGN3VQ&t=323s.

[2] Le organizzazioni del tipo Stay-Behind erano dei raggruppamenti creati in tutti gli stati europei della NATO composti da paramilitari addestrati a muoversi e a organizzare forze di resistenza dietro le linee nemiche in caso di invasione sovietica del suolo nazionale.

[3]I tre fratelli Savi, Roberto, Fabio e Alberto, esecutori materiali della strage del Pilastro, e i poliziotti Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli

[4] Sandro Provvisionato, Giustizieri Sanguinari. I poliziotti della Uno bianca. Un altro mistero di Stato, Tullio Pironti Editore, Napoli, 1995.

[5] Per la commemorazione della strage si veda: https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/uno-bianca-strage-pilastro-1.5877213.


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