Locandina del film “Munich” di Steven Spielberg (2005) sull’operazione Ira di Dio
Nel nostro quarto appuntamento parliamo dell’Operazione Ira di Dio, conosciuta per la spettacolarità delle azioni condotte e per il numero di scritti e di film dedicati come il famoso Munich di Steven Spielberg. Essa trae origine dai tragici eventi delle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972 dove un commando di terroristi palestinesi facenti capo all’organizzazione Settembre Nero prese in ostaggio e uccise undici componenti della delegazione olimpica israeliana. L’evento scosse violentemente l’opinione pubblica mondiale, in particolare quella ebraica. Golda Meir, Primo Ministro d’Israele, era convinta che si dovesse dare una risposta forte a questo atto e di conseguenza, svaniti i suoi dubbi iniziali, decise di formare una squadra segreta incaricata di colpire tutti i responsabili, diretti e indiretti, della strage di Monaco. L’operazione fu designata col nome ebraico Mivtza Za’am Ha’el, Operazione Ira di Dio. Golda Meir ribadì che l’obiettivo della squadra di agenti doveva essere quello di dare la caccia ai terroristi palestinesi e colpirli in maniera drammatica.
I componenti della squadra olimpica israeliana deceduti nella strage alle Olimpiadi di Monaco 1972.
Nell’ucciderli dovevano usare un grado di immaginazione tale da terrorizzare i terroristi palestinesi, da farli sentire perseguitati e sempre in pericolo. I membri della squadra, scelti tra gli agenti del Mossad, dovevano “licenziarsi”, rinunciare a tutto e diventare delle persone inesistenti per il governo d’Israele, dovevano seguire i bersagli tenendoli sotto sorveglianza, annotare le loro abitudini e infine colpirli nel momento migliore. Si procedette a stilare una lista delle persone da eliminare dove in cima compariva il nome di uno dei fondatori di Settembre Nero nonché organizzatore della strage di Monaco: Ali Hassan Salameh. Questo bersaglio però era molto difficile da scovare e avvicinare, si preferì quindi partire da bersagli meno sorvegliati e facilmente raggiungibili. Il primo ad essere colpito fu Wael Zwaiter intellettuale e traduttore palestinese, rappresentante dell’OLP a Roma. Venne ucciso da 12 colpi sparati da due agenti israeliani nell’androne del condominio dove abitava mentre aspettava l’ascensore. In seguito le autorità palestinesi affermarono più volte che Zwaiter era un filosofo e traduttore senza alcun coinvolgimento con i fatti di Monaco.
L’obiettivo successivo fu Mahmoud Hamshari, residente a Parigi e rappresentante dell’OLP in Francia. Sospettato dagli israeliani di essere il dirigente locale di Settembre Nero venne contattato da un giornalista, in realtà un agente israeliano, che approfittò della sua copertura per introdursi in casa di Hamshari e piazzare dell’esplosivo sotto il telefono. L’8 dicembre 1972 appena Hamshari rispose al telefono, un segnale inviato dagli agenti del Mossad fece esplodere la carica ferendo gravemente il rappresentante palestinese il quale morì poche settimane dopo in ospedale per le ferite riportate. Dopo Hamshari il bersaglio degli agenti operativi israeliani fu Hussein Al-Shir elemento di contatto di Settembre Nero con il KGB sovietico. Al-Shir si trovava a Cipro ed alloggiava in una stanza d’hotel a Nicosia. Gli agenti israeliani si introdussero nella sua camera e posizionarono dell’esplosivo sotto il materasso. Appena tornato all’hotel, Al-Shir si stese a letto e dopo pochi istanti morì dilaniato dall’esplosione della carica fatta brillare a distanza dagli agenti.
Gli obiettivi successivi furono tre alti dirigenti dell’OLP rifugiati a Beirut: Abu Youssef, Kamel Adwan e Kamal Nasser. L’Operazione Primavera di Giovinezza, allestita per la l’uccisione dei tre dirigenti e passata alla storia per l’efficienza e la rapidità con cui venne svolta, prese luogo il 9 aprile 1973 e fu condotta dal reparto speciale dell’esercito israeliano: il Sayeret Matkal. La sera del 9 un gruppo di soldati speciali salpò dal porto di Haifa per poi sbarcare su una spiaggia di Beirut dove vi erano degli agenti del Mossad ad aspettarli con delle macchine. Una volta sbarcati e travestiti da turisti si diressero verso le abitazioni dei dirigenti palestinesi e appena entrati li uccisero in pochi minuti. Una volta usciti dalle abitazioni respinsero le forze di polizia libanesi che erano sopraggiunte per gli spari e poi si diressero verso la spiaggia dove trovarono le imbarcazioni che li avrebbero riportati a casa. L’azione, durata solo trenta minuti, fu condotta magistralmente e suscitò l’incredulità dell’opinione pubblica mondiale.
Ehud Barak, in passato comandante del Sayeret Matkal (forze speciali dell’esercito) e comandante del commando israeliano durante l’Operazione Primavera di Gioventù
Le azioni israeliane però non si fermarono qui. Già pochi giorni dopo gli agenti si spostarono ad Atene per uccidere il successore di Al-Shir, Zaiad Muchasi, il quale venne ucciso da un esplosivo al fosforo nella sua camera d’hotel. Nel luglio del 1973 venne creata in tutta fretta una nuova squadra per uccidere Ali Hassan Salameh, il quale, secondo informazioni che poi si riveleranno false, era andato a vivere in Norvegia. La squadra, poco esperta e trascinata dall’esaltazione, scovò la persona che si riteneva essere Salameh nella cittadina norvegese di Lillehammer e la sorvegliò per giorni finché il 21 luglio 1973 decise di agire e la uccise. La persona che avevano ucciso però non era Salameh ma Ahmed Bouchiki, un giovane cameriere marocchino trasferitosi in Norvegia.
Ahmed Bouchiki sulla sinistra e Ali Hassan Salameh sulla destra
I sei autori dell’omicidio tentarono di scappare ma vennero arrestati e interrogati dalla polizia norvegese. Le loro dichiarazioni durante gli interrogatori furono un tremendo colpo alla rete clandestina di agenti israeliani schierati in Europa. Fu necessario richiamare gli agenti, abbandonare le case rifugio, cambiare i numeri di telefono e modificare i metodi operativi. Il fallimento di questa azione fu un duro colpo per Israele che si vide smascherato nelle sue azioni davanti a tutto il mondo. Di conseguenza Golda Meir ordinò la sospensione dell’operazione la quale rimase congelata per cinque anni fin quando nel 1978, sotto il governo di Menachem Begin, riprese seppur con minore intensità. Nuovi agenti furono inviati a Beirut per sorvegliare Salameh il quale aveva notevolmente diminuito le misure di sicurezza nei cinque anni passati. Era l’occasione giusta per uccidere il bersaglio più importante della lista dell’Operazione Ira di Dio, pericoloso per la sua influenza, le sue capacità ed i suoi contatti con la CIA. Il Mossad inviò a Beirut degli agenti i quali posero un’automobile carica di esplosivo nella via che il palestinese percorreva spesso per andare a trovare l’amante. Il 22 gennaio 1979 Ali Hassan Salameh, come previsto dagli agenti, percorse la solita via, e appena passò accanto all’autobomba gli agenti fecero detonare l’esplosivo. Salameh, ferito gravemente, morì poco dopo in ospedale.
La carcassa dell’auto su cui viaggiava Ali Hassan Salameh distrutta dall’esplosione dell’autobomba israeliana
La sua morte scatenò lo sconforto negli ambienti palestinesi per la grave perdita e la gioia degli agenti israeliani che erano finalmente riusciti a vendicare la strage di Monaco. Negli anni successivi Israele si dedicò agli altri bersagli rimasti, non riuscendo però ad ucciderli tutti con le proprie mani in quanto alcuni di essi vennero eliminati da fazioni palestinesi avversarie o, nel migliore dei casi, morirono di vecchiaia.
L’operazione ancora oggi è oggetto di dibattito. Israele era moralmente distrutto dalla vicenda di Monaco ’72 e si sentiva gravemente minacciato. L’atto era stato il più violento ed eclatante compiuto dai terroristi arabi e non sarebbe stato l’ultimo, così Israele, come aveva promesso più volte, decise di reagire con altrettanta forza e spettacolarità. Come molte azioni segrete compiute da Israele, la tattica adottata nell’Operazione Ira di Dio prevedeva, oltre al desiderio di vendetta, il raggiungimento di alcuni obiettivi precisi: instillare il terrore fra le fila palestinesi, suggerire la superiore forza e determinazione dell’avversario, distruggere il morale, convincerli dell’inutilità dei loro sforzi e informarli della brutalità con cui Israele avrebbe risposto a ogni azione volta a minacciare la sua incolumità. Tutto questo per non discostarsi dal primo imperativo strategico israeliano: garantire la sopravvivenza dello stato d’Israele davanti alle più grandi minacce e di conseguenza permettere ai suoi cittadini di vivere in sicurezza. I metodi utilizzati per il raggiungimento di questi obiettivi furono svariati e tutti improntati al terrore psicologico. Per esempio, molti esponenti palestinesi presi di mira ricevevano chiamate minatorie, minacce e in alcuni casi vedevano addirittura comparire sui giornali degli annunci mortuari con il loro nome scritto, nonostante fossero vivi e in perfetta salute. In tutto ciò sono riusciti davvero a perseguire il must strategico d’Israele?
Le opinioni sono ancora discordanti ma col senno di poi potremmo dare una risposta. Dal punto di vista puramente tattico l’Operazione Ira di Dio fu, tutto sommato, un successo. I servizi israeliani colpirono numerosi obiettivi vitali per i terroristi, spinsero molti di essi a condurre una vita da segregati, ne convinsero altrettanti a farsi da parte o a rivedere la loro intenzione di arruolarsi tra le fila degli estremisti, uccisero numerosi esponenti di Settembre Nero e dell’OLP e soprattutto furono in grado di ridurre gli attentati all’estero compiuti dalle organizzazioni palestinesi. L’impressionante precisione ed efficacia delle azioni israeliane, in particolare quella condotta nella capitale libanese, suscitarono preoccupazione e angoscia, se non il panico, fra le autorità palestinesi alimentando il mito dell’invincibilità degli israeliani i quali sembravano capaci di colpire chi e cosa volevano, dove, quando e come volevano.
Un commando israeliano in azione
Dal punto di vista strategico però l’Operazione Ira di Dio non fu un grande successo. Iniziata sull’onda della commozione provata per le vittime di Monaco, l’operazione aveva come imperativo strategico ultimo la sicurezza d’Israele e dei suoi cittadini. Automaticamente questo obbligo implicava anche il perseguimento della pace nel Mashreq in quanto, cosa che Israele sa bene, qualsiasi disordine o rivolta nell’area può con altissima probabilità coinvolgere lo stato ebraico spesso indicato come la causa di ogni male e volentieri utilizzato come collante e catalizzatore delle masse.
In un contesto del genere e con un imperativo così arduo da perseguire, l’Operazione Ira di Dio non ha fatto che compattare ancora di più l’opposizione verso Israele, rafforzare nel mondo arabo l’immagine subdola e malvagia dello stato ebraico e distogliere dalle vicine potenze arabe una parte delle attenzioni dell’intelligence, mossa che pochi mesi dopo porrà Israele in una situazione di serio pericolo.
Inoltre l’operazione, trattandosi letteralmente di “una caccia ai potenziali e presunti colpevoli di atti di terrorismo contro i propri cittadini, fuori dalle norme del diritto internazionale e senza controllo giudiziario”, provocò le critiche della comunità internazionale e alienò il favore di alcune fasce dell’opinione pubblica occidentale indignate dall’omicidio di personaggi ritenuti dei semplici intellettuali estranei alle azioni terroristiche; senza contare poi il dissenso che l’operazione suscitò in alcuni ambienti della stessa società israeliana e presso alcuni parenti delle vittime, uno dei quali arrivò a definirsi “disgustato” da essa.
Col senno di poi potremmo dire che le autorità israeliane mancarono, se non proprio dimenticarono, per un certo lasso di tempo lo scopo ultimo della loro linea strategica: la costruzione di una pacifica convivenza nel Vicino Oriente, unica via perseguibile per la futura sicurezza d’Israele.
Autore Alessandro Trabucco