Il 28 marzo del 1949 Israele ottenne il riconoscimento da parte di un paese molto importante, composto da una popolazione in maggioranza musulmana. Quel paese era la Turchia, primo nella regione mediorientale a riconoscere il neonato stato ebraico. Negli anni seguenti le relazioni fra i due paesi furono tutto sommato tiepide ma comunque costanti, tant’è vero che subito dopo la Guerra dei Sei Giorni la Turchia, sebbene fosse a favore di un ritiro israeliano dai territori occupati, non indicò, almeno ufficialmente, Israele come l’aggressore. Inoltre nel 1969, durante una conferenza dell’Organizzazione della cooperazione islamica, si oppose alla decisione di rompere le relazioni diplomatiche con lo stato ebraico. Le motivazioni di questa inaspettata vicinanza vanno rintracciate nel complementare ruolo strategico svolto durante la Guerra Fredda, affidatogli dal potente alleato americano: bloccare l’Unione Sovietica nella regione fra il Mar Nero, il Caucaso e il Vicino Oriente. Tale ruolo permise allo stato ebraico di poter fare affidamento sulla Turchia in quanto uno dei pochi paesi della zona a non essere ostile nei suoi confronti. Questa tiepida vicinanza a Israele da parte turca era dovuta alla lealtà nei confronti dell’alleanza con gli Stati Uniti, all’allontanamento della Turchia dagli scenari mediorientali e soprattutto alla forte spinta verso l’occidente e al laicismo che fin dai tempi di Mustafa Kemal Atatürk caratterizzava i governi turchi e in particolare l’esercito.
Al termine della Guerra Fredda, Israele volle “riscaldare” e valorizzare le relazioni con la Turchia, soprattutto in considerazione dei passati fallimenti con l’Etiopia del Negus e con l’Iran dello Scià, in seguito alle rivolte marxiste nell’uno e Khomeiniste nell’altro, e in considerazione della “fredda” pace con l’Egitto e la Giordania, imposta dai rispettivi governanti arabi e mai completamente digerita dalla popolazione. Quindi in breve tempo, subito dopo gli accordi di Oslo, la Turchia diventò un solido alleato israeliano nella regione. La maggior parte degli accordi fra i due paesi furono siglati prettamente in ambito economico e militare. Nel 1994 venne siglato l’Accordo di Sicurezza e Segretezza, il quale sanciva la condivisione di informazioni fra le agenzie d’intelligence dei due paesi e il coordinamento nell’addestramento dei piloti turchi da parte di quelli israeliani e nella fabbricazione di armi, in particolare sistemi antimissile. Inoltre questo accordo aveva assicurato a Israele l’accesso allo spazio aereo turco. Ciò significava che il nord della Siria e il nord dell’Iraq diventavano obiettivi sensibili di eventuali strike delle forze aeree israeliane. Due anni dopo fu la volta di un accordo economico che condusse alla creazione di un’area di libero scambio fra i due paesi e a un conseguente aumento esponenziale degli scambi economici e dei flussi turistici. Questo forte avvicinamento portò anche a delle importanti intese strategiche che si declinarono in numerose esercitazioni congiunte, spesso assieme ad altre forze armate Nato come quelle americane o italiane. Nonostante l’amicizia fra i due paesi stesse proseguendo in maniera positiva e prolifica, fin dai primi anni ’90 iniziarono a palesarsi i primi semi della futura crisi. Infatti in Turchia stavano emergendo dal sostrato sociale quei movimenti di ispirazione islamica che crebbero anche a livello di rappresentanza politica negli anni a cavallo fra il XX e il XXI secolo. Un esempio di questi primi segnali di crisi fu la nomina a Primo Ministro della Turchia di Necmettin Erbakan, esponente del partito islamista Refah, il quale guardava a Israele con diffidenza e contemporaneamente strizzava l’occhio ad Hamas e a Hizbullah. Durante il suo breve governo, dal 28 giugno 1996 al 30 giugno 1997, vi furono delle incomprensioni con Israele soprattutto riguardo un accordo che prevedeva l’ammodernamento di alcuni caccia Phantom. In seguito a tali incomprensioni, Erbakan dichiarò di non voler ratificare l’accordo, ma fu successivamente costretto a farlo dopo le fortissime pressioni fatte dell’esercito il quale rimaneva decisamente a favore di una politica all’insegna del laicismo e dell’alleanza economico-militare con lo stato ebraico la quale ai loro occhi, in vista delle future sfide strategiche della Turchia, avrebbe fruttato grandissimi vantaggi per le forze armate turche, soprattutto in virtù delle avanzate conoscenze tecnologiche fornite da Israele.
Nonostante la vicenda si fosse risolta a favore dell’alleanza turco-israeliana e nonostante la scarsa durata del governo di Erbakan, schiacciato dalle antipatie dei militari, la situazione vide l’inizio dell’involuzione nei primi anni duemila. Se l’alleanza con Israele aveva permesso un decisivo upgrade delle forze armate turche e aveva rallentato le tendenze espansionistiche iraniane, la fine della Guerra Fredda aveva aperto alla Turchia la possibilità di svincolarsi in parte dall’ingombrante alleanza con gli Stati Uniti e di emergere come attore geostrategico di primo piano dotato di una propria agenda operativa. L’alleanza con Israele a questo punto incominciava a diventare ingombrante, anche perché un paese con tali ambizioni non poteva più permettersi di dipendere così tanto dalla tecnologia bellica di un soggetto potenzialmente avverso alle mire turche, senza contare le aspirazioni nazionali e i sentimenti islamisti sopiti da decenni che ora stavano riemergendo e rapidamente prendendo piede in Turchia. La conseguenza di questi inesorabili mutamenti fu l’elezione a Primo Ministro nel novembre 2002 di Recep Tayyip Erdoğan, espressione di tutta quella profonda Turchia islamista, arginata per decenni dalla politica interna laicista di ispirazione kemalista ed esterna di asservimento agli Stati Uniti, la quale mal digeriva la sottomissione agli USA, il laicismo filoccidentale e il ridimensionamento geopolitico della nazione turca nello scacchiere internazionale vissuto durante il XX secolo. La salita al potere di Erdoğan segnò per la Turchia l’inizio di una nuova fase che aveva conosciuto durante gli anni ’90 un lungo processo di gestazione e la quale si basava su una nuova ambiziosissima dottrina geopolitica incentrata sul concetto di “profondità strategica” elaborato nell’omonimo libro del “Metternich turco” Ahmet Davutoğlu, Ministro degli Esteri di Erdoğan. Questa nuova dottrina, che ben si adattava alle idee islamiste del nuovo partito AKP al governo e del suo leader Erdoğan, prevedeva l’abbandono della politica di occidentalizzazione posta in essere da Mustafa Kelmal Atatürk e successori, un progressivo abbandono delle speranze d’ingresso nell’Unione Europea e il ritorno della Turchia nello scacchiere mediorientale, che essa aveva dominato per secoli, attraverso il perseguimento delle direttrici “panturca” e “panislamica” e attraverso il perseguimento della “politica del buon vicinato” con i paesi attigui e con tutti gli attori a “ispirazione musulmana”.
Questa dottrina e le sue relative direttrici incarnavano il sogno di una grossa fetta della popolazione turca di rendere nuovamente la Turchia la principale potenza della regione e la protettrice della comunità sunnita. Insomma la Turchia di Erdoğan rinunciava alla linea filoccidentale percepita come aliena da una buona parte della popolazione e ritornava a concentrarsi sulla sua “vocazione orientale” tipica dei passati fasti imperiali, anche attraverso una certa dose di componente religiosa, indispensabile per accattivarsi il favore degli ambienti islamisti del mondo arabo e musulmano in generale. Anche in Israele l’atmosfera stava cambiando. I governi di Netanyahu e Sharon, la Seconda Intifada e la relativa repressione, il terrorismo, il generale fallimento degli Accordi di Oslo, la capillare diffusione dell’ultranazionalismo e del revisionismo e la salita al potere nella repubblica anatolica delle forze dell’Islam politico incrinarono la percezione della Turchia in Israele. Il vecchio alleato si stava lentamente trasformando in una potenziale minaccia. Con degli stravolgimenti del genere gli stretti rapporti fra i due paesi avevano i minuti contati e se Erdoğan voleva davvero rendere nuovamente la Turchia leader del mondo musulmano doveva necessariamente “aggravare le relazioni con Gerusalemme, per dimostrare agli altri Stati musulmani che ormai Israele non era più suo alleato”. Sebbene le relazioni pubbliche non conobbero eccessivi strappi ufficiali, eccezion fatta per la sospensione turca dei contratti militari con l’industria israeliana, le condanne alla repressione dell’Intifada, la visita di Yasser Arafat in Turchia e l’accusa di “terrorismo di stato” fatta da Erdoğan nei confronti d’Israele dopo l’uccisione del leader di Hamas Ahmed Yassin, l’inizio di una vera e propria caduta nelle relazioni era solo questione di tempo. Furono quattro gli eventi decisivi che condussero a essa: la vittoria di Hamas nelle elezioni a Gaza, la guerra fra Israele e Libano nel 2006, l’Operazione Piombo Fuso e l’Incidente della Freedom Flotilla. Il primo portò a all’attivazione dei primi canali di contatto fra i leader di Hamas e della Turchia e al sostegno turco al nuovo governo di Gaza, mal digerito dalle autorità israeliane, nell’ottica di “appropriarsi” della causa palestinese così come voleva Erdoğan. Il secondo causò il fallimento degli investimenti economici che la Turchia aveva iniziato nel piccolo paese mediterraneo e l’indignazione per il duro colpo inferto da Israele a Hizbullah con il quale la Turchia aveva già da tempo avviato delle relazioni amichevoli. Il terzo scatenò le fortissime accuse turche riguardo violenze indiscriminate compiute da Israele a danno della popolazione di Gaza ed emblematicamente simboleggiate dall’abbandono da parte di Erdoğan del dibattito con Shimon Peres durante il World Economic Forum di Davos, perché stizzito dalle giustificazioni del presidente israeliano in merito all’attacco di Gaza.
A ciò si aggiunse la diffusione da parte di un canale televisivo turco, a sostegno delle accuse lanciate da Erdoğan, di alcune immagini che ritraevano dei soldati israeliani nell’atto di uccidere volontariamente dei civili palestinesi, fatto che provocò le ire del governo israeliano, il quale pretese le immediate scuse, e grandi manifestazioni di piazza antisraeliane nelle principali città turche. Il quarto episodio, l’Incidente della Freedom Flotilla, dette il colpo di grazia. Il 30 maggio del 2010 una flottiglia di navi con a bordo attivisti pro Palestina e dei rifornimenti di aiuti umanitari e merci di vario tipo si avvicinarono presso le acque di Gaza sottoposte a blocco marittimo. Israele, che era venuto a conoscenza già da prima della missione della flottiglia, aveva proposto agli attivisti di far sbarcare le merci nel porto di Ashdod le quali, dopo essere state sottoposte a un controllo di sicurezza, sarebbero state inviate a Gaza via terra. Gli attivisti, sapendo che alcune delle merci in loro possesso come il calcestruzzo non avrebbero mai passato i controlli israeliani in quanto sospettate di essere utilizzate dai palestinesi per scopi bellici, avevano rifiutato l’offerta e si erano diretti verso le acque di Gaza. Verso le 23:00 del 30 maggio, poco prima dell’avvicinamento della flottiglia alle acque sottoposte a blocco, la marina israeliana contattò gli attivisti intimandogli di fermarsi e comunicandogli che Israele non avrebbe permesso la violazione del blocco. La risposta degli attivisti fu ovviamente negativa. Quindi una volta compresa la non intenzione da parte della flottiglia di fermarsi, secondo le trascrizioni delle comunicazioni radio gli attivisti risposero con la frase “Shut up. Go back to Auschwitz” agli avvertimenti della marina d’Israele, alle 04:00 del 31 maggio i commandos della marina israeliana abbordarono le navi della flottiglia per impedirne lo sbarco. Sulla nave più grande, la Mavi Marmara, gli attivisti reagirono violentemente all’abbordaggio scatenando la reazione dei commandos che portò alla morte di nove attivisti aventi la cittadinanza turca.
La brutale azione condotta dai commandos e il rifiuto israeliano di porgere le scuse ufficiali e risarcire le famiglie delle vittime, vennero abilmente trasformate da Erdogan nella “punta di diamante della sua sfida a Israele” e spinsero la Turchia a un ulteriore e brusco avvicinamento alla causa palestinese. Avvicinamento che fu sentito moltissimo dai palestinesi al punto che “nei giorni successivi all’assalto alla Mavi Marmara, nei negozi di Gaza City si trovavano gadget di ogni tipo: dalle sciarpe con la bandiera turca e la scritta «Palestina», alle tazze con la foto di Erdoğan”. Subito aumentarono i proclami di Erdogan in favore della Palestina e del suo popolo con frequenti richiami ai legami fra il popolo turco e quello palestinese: “Noi ci opponiamo a coloro che costringono il popolo di Gaza a vivere in una prigione a cielo aperto. Noi non ci fermeremo fin quando il blocco di Gaza non sarà tolto, fino a quando non cesseranno i massacri e il terrorismo di Stato in Medio Oriente non sarà considerato tale”, “La sorte di Gerusalemme è la stessa di Istanbul, come la sorte di Gaza è la stessa di Ankara. Se il mondo ignora Israele e le stragi, noi non lo permetteremo”. Queste sue parole, con annesse le accuse di terrorismo di stato nei confronti delle azioni compiute dallo stato ebraico, fecero di Erdoğan il principale paladino della causa palestinese e un nuovo potenziale ostacolo o addirittura pericolo per Israele. L’atto finale di questa crisi fu il richiamo dell’ambasciatore turco a Tel Aviv e la successiva espulsione dell’ambasciatore israeliano in Turchia voluta da Erdoğan. La frattura ormai consumata non fece che approfondirsi negli anni immediatamente successivi a causa del divampare delle primavere arabe. Da un lato la Turchia, nel tentativo di volgere la situazione a suo vantaggio e allargare la propria influenza geopolitica, sosteneva attivamente le fazioni islamiste spesso ostili a Israele. Dall’altro lo stato ebraico cercava di arginare l’avanzata dell’Islam politico proprio in virtù della potenziale minaccia insita in esso e nelle sue politiche, e favoriva la salita al potere di regimi laici più disposti ad atteggiamenti amichevoli verso Israele. Un esempio di queste posizioni è l’Egitto. La Turchia ho sostenuto il governo di Morsi, al contrario Israele, timoroso della grave minaccia che un Egitto islamista poteva porre alla sua sicurezza, ha sostenuto il regime laico di Al-Sisi.
Nonostante le diffidenze e le reciproche accuse, i due paesi, a partire dal 2016, iniziarono un lento processo di avvicinamento che portò alla ripresa delle relazioni diplomatiche, alla nomina dei due nuovi rispettivi ambasciatori e alla promessa israeliana di risarcire le famiglie delle vittime dell’Incidente della Freedom Flotilla. Questa ripresa però durò poco, infatti la salita al potere di Donald Trump in America significò un deciso ritorno alle politiche filoisraeliane tipiche delle amministrazioni pre-Obama. Lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme e il conseguente riconoscimento della città come capitale d’Israele volute da Trump e caldeggiati dal Primo Ministro Netanyahu incrinarono nuovamente i rapporti fra i due paesi. Fu un altro fatto però a scatenare la seconda rottura nel giro di dieci anni. Nel maggio del 2018, in seguito a dei violenti scontri fra le forze armate israeliane e manifestanti palestinesi nella striscia di Gaza, Erdogan decise di sfruttare la situazione per dimostrare ancora di più la sua intatta vicinanza ad Hamas e al popolo palestinese in generale. Come aveva già fatto dopo i fatti della Freedom Flotilla, espulse (questa volta temporaneamente, come ebbe a dire lui stesso) l’ambasciatore israeliano e ritirò l’ambasciatore turco da Tel Aviv. Subito dopo dette inizio a una campagna di accuse nei confronti d’Israele definendolo uno “stato terrorista” reo di aver compiuto un “genocidio” verso i palestinesi e di averli sottoposti per decenni a un vero e proprio “stato di apartheid”. Alcune di queste accuse vennero portate da Erdoğan stesso sul palcoscenico internazionale della settantaquattresima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per mostrare ancora una volta al mondo intero il suo impegno per la causa palestinese. Ebbero molto risalto le parole di Erdoğan, il quale presentò una mappa raffigurante l’espansione israeliana a danno dei palestinesi paragonando Israele alla Germania nazista e le operazioni contro Gaza all’Olocausto, e anche le risposte portate nella stessa o in altre sedi dal Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz e da Netanyahu i quali risposero invitando Erdoğan a non diffondere bugie o idee antisemite e sottolineando che Israele non avrebbe accettato la morale da un personaggio ritenuto autoritario e oppressore del popolo kurdo.
Come abbiamo potuto osservare, allo stato attuale le relazioni fra i due paesirimangono volubili nonostante essi abbiano siglato ulteriori accordi commerciali. Probabilmente esse continueranno a mantenere tale forma fin quando non vi sarà uno stravolgimento geopolitico, un ricambio al vertice dei rispettivi paesi o ancor di più un mutamento dei sentimenti e delle aspirazioni delle due nazioni. In particolare fin quando la Turchia vorrà perseguire l’egemonia nell’aerea seguendo direttrici “panislamiche” e attirando a sé le simpatie dei movimenti islamisti e fin quando le azioni militari israeliane o palestinesi e il conflitto israelo-palestinese in generale, con tutto il loro fardello di odio e violenza, non vedranno una fine pacifica secondo linee guida condivise da tutti, i rapporti fra questi due importati paesi mediorientali non potranno mai vedere la stabilità e l’intensità che hanno conosciuto negli anni a cavallo fra il vecchio e il nuovo millennio.
Articolo di Alessandro Trabucco.