Arctic Tough 1st Sgt. Jonathan M. Emmett  leads U.S. Army Alaska Aviation Task Force Soldiers assigned to Headquarters Company, 1-52 Aviation Regiment, at Fort Wainwright, Alaska, as they conduct Cold Weather Indoctrination Course II (CWIC) training November 19, 2015. These Soldiers completed a three-mile snow shoe ruck march to their bivouac site and spent the night sleeping in Arctic 10-man tents. CWIC training is required of all Soldiers assigned to U.S. Army Alaska annually to ensure America's Arctic Warriors have the knowledge and experience to survive, train, operate, fight and win in extreme cold weather and high altitude environments. (Photos by Spc. Liliana S. Magers, U.S. Army Alaska Public Affairs.)

Il Fronte Artico Pt.2

Il ruolo degli Stati Uniti e dei loro clientes

I paesi scandinavi che si affacciano sul Mar di Barents hanno nell’export di pesce una fonte di guadagno essenziale. Peccato che il cambiamento climatico incida anche qui, modificando la composizione delle acque. I pescatori norvegesi mostrano paura di fronte a tanta incertezza: non sanno se il merluzzo, una delle specie più pregiate, che si sposta sempre più verso nord sarà in grado di riprodursi. E che dire del baccalà o dello sgombro che migra verso Islanda e Groenlandia? Grazie alla sempre più crescente domanda asiatica, l’export di pesce norvegese porta introiti pari a 12 miliardi di dollari l’anno. Le migrazioni ittiche rappresentano però un allarme difficile da ignorare e a cui tutti, qui nell’Artico (dove i temi commerciali si stagliano sullo sfondo della Competizione tra Usa-Russia-Cina e degli sconvolgimenti prodotti dal cambiamento climatico) , dovranno adattarsi.

I PAESI NORDICI: IL BASTIONE SETTENTRIONALE DELLA NATO

La Norvegia è all’avanguardia nella cosiddetta transizione ecologica, con il record mondiale di auto elettriche e mira a portare a zero quelle a combustibile fossile entro il 2025. Ciò non collide tuttavia con la sua capacità e volontà di estrarre idrocarburi e di pomparli all’estero. Obiettivo: diventare l’hub energetico europeo. Il paese dei fiordi è inserito nelle dinamiche della competizione artica come bastione della Nato per fronteggiare la minaccia russa. “Il Mare di Barents ha molte probabilità di trasformarsi in uno scenario di conflitto. Le manovre militari sono sempre più impressionanti”, dice l’ex capo della US Coast Guard, Paul Zukunft, in un’audizione al Senato statunitense. Non a caso nel 2018 si è svolta Trident Juncture la più grande esercitazione militare artica dal crollo dell’Urss, con la partecipazione di 50mila uomini provenienti dai 27 paesi Nato coinvolti (prima volta anche per Svezia e Finlandia) che ha coinvolto 65 navi e 250 aerei. I russi allo stesso tempo hanno simulato simulavano un’azione offensiva con test missilistici nel Mar di Barents, mai così vicini al confine marittimo norvegese.

Eppure Solo pochi anni fa il clima in quest’angolo del Nord Europa era tutt’altro che teso. Kirkenes, una piccola cittadina norvegese attaccata al confine russo e a quello finlandese era in rampa di lancio. Veniva soprannominata “Nuova Rotterdam”, in quanto terminale europeo della Nsr (Northern Sea Route) . Il suo sindaco Rune Rafaelsen era stato il protagonista nel 2010 del Trattato di Barents (firmato dall’allora premier norvegese e attuale leader della Nato Jens Stoltenberg e dall’allora premier russo e attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza Dmitrij Medvedev) che stabiliva accordi storici sui confini marittimi tra i due paesi, collaborazioni sulla pesca e cooperazione nello sfruttamento dei giacimenti nel Mar di Barents.

Oggi la situazione è capovolta e in Norvegia in molti guardano con diffidenza anche all’espansionismo cinese nell’area, che ha sostituito nel settore dell’estrazione gli ex partner occidentali dei russi. Kirkenes nel tempo si è trasformata in un bastione Nato sul fronte nemico. Qui sono stanziate navi-spia che per conto della Nato controllano ogni possibile mossa dei sommergibili russi che costituiscono la fortezza nucleare “Flotta del Nord” nella penisola di Kola sul Mar di Barents.

Di grande rilevanza è allo stesso tempo l’isola di Vardo. Anche lei si affaccia sul Mar di Barents e dista non più di 70 chilometri dalla penisola di Kola. Per l’occidente è fondamentale col fine di mantenere una postazione di controllo sulle eventuali manovre russe al confine. Qui è stato installato il sistema Globus 3, dopo la decisioni russa di dotarsi di sommergibili in grado di trasportare almeno una dozzina di missili balistici intercontinentali armati con testate multiple e missili ipersonici. Globus 3 è il più avanzato sistema di difesa missilistica del Pentagono e per i russi costituisce una vera e propria minaccia, in quanto danneggia una delle sue armi più affilate: la capacità di deterrenza nucleare. Il Mare di Barents sempre più militarizzato, è terreno di competizione tra Russia e Nato: vittime sacrificali, le popolazioni di confine. Le nazioni scandinave stanno sviluppando di conseguenza le proprie capacità difensive e grazie all’eccellente conoscenza dei “luoghi di battaglia” costituiscono la prima linea di forze per conto dell’Alleanza Atlantica.

La Finlandia ha grande disponibilità di caccia F-35 e F-18 e una forza operativa di circa 300mila soldati. La Svezia possiede la più grande flotta sottomarina d’Europa. Entrambe, oltre alla recente adesione alla Nato, da anni partecipano a manovre con l’Alleanza Atlantica e aumentano le spese in ambito militare. La Finlandia, dove è ancora fresca la memoria delle vittime e delle conseguenze economiche della Guerra d’inverno e della successiva Guerra di continuazione (quando i finlandesi affiancarono i nazisti nei primi mesi dell’invasione Urss), “potrebbe essere il primo paese a subire un’aggressione russa – dice l’ex consigliere economico di Putin, Illarionov – più ancora dell’odiata Estonia”. Sono stati registrati movimenti e violazioni dello spazio aereo finlandese nell’area della base nucleare russa di Alakurtti nel nord lappone e sommergibili “non identificati” nel Baltico finnico. Sin dai fatti di Crimea i governi finlandesi hanno dato il via ad una ingente politica di riarmo spendendo il 3% del Pil in difesa. Il parlamento nel 2020 ha bloccato gli acquisti di dacie da parte di cittadini russi nella Finlandia orientale, con il timore che possano essere usate come cavalli di troia in caso di escalation. La paranoia di un paese che si prepara alla guerra.

Nel nord della Svezia invece si trova la città di Kiruna con le sue miniere di ferro, le più grandi d’Europa, che valgono un miliardo di euro l’anno (sempre qui negli scorsi mesi è stato scoperto anche un giacimento contenente più di 1 milione di tonnellate di terre rare, il più grande di tutta Europa). A Boden nel nord-est svedese si stanno restaurando i vecchi rifugi antiatomici della Guerra fredda e la città è in pieno riarmo.

Per l’ammiraglio James Stavridis, già comandante supremo delle forze alleate in Europa, “il vero pericolo è il Mar di Barents. Lì la situazione è molto seria, la Russia potrebbe forzare la mano sulla questione delle Svalbard, un casus belli lassù è facile trovarlo”. Le isole Svalbard, arcipelago a sud-ovest della Terra di Francesco Giuseppe, furono assegnate alla Norvegia dalle potenze vincitrici dopo la Prima Guerra Mondiale per ricompensarla per la sua neutralità nel conflitto, importante in funzione anti-tedesca. Con un accordo firmato a Parigi nel 1920 da più di venti paesi (tra cui l’Italia) e dall’Urss nel 1935, le Svalbard venivano definite a sovranità del Regno di Norvegia, ma lo sfruttamento delle risorse veniva garantito ai paesi firmatari e veniva vietata ogni presenza con finalità belliche o difensive ad ogni stato firmatario, Norvegia compresa (articolo 9). L’Unione Sovietica sostanzialmente interpretò l’arcipelago come un’area smilitarizzata, dottrina ancora oggi non passata di moda. I paesi firmatari eccetto Oslo ritengono che queste limitazioni alla sovranità norvegese vadano estese al mare e ai fondali così come stabilito dalla legge internazionale. Oslo nel 1977 ha invece stabilito unilateralmente la sua zona economica intorno all’arcipelago, come se fosse il mare intorno alla madrepatria. Mosca non ha mai riconosciuto tale decisione, ma ormai il livello dello scontro tra i due cresce progressivamente, alla luce del confronto con la Nato sul mare di Barents e della corsa ai giacimenti. Secondo i norvegesi i russi stanno cercando un pretesto per prendersi le isole e le missioni scientifiche hanno in realtà la finalità di ricerca delle risorse petrolifere, visto che il trattato del 1920 non prevede alcun controllo sulle attività di ricerca. Dal canto loro i russi denunciano continue violazioni del trattato del 1920 da parte di Oslo. Le Svalbard sono al centro anche del cambiamento climatico: tra il 1970 e il 2020 la temperatura media è aumentata di 4 gradi Celsius e di 7 gradi nei mesi invernali. A luglio del 2020 è stata registrata la temperatura di 22 gradi, record nell’Artico europeo. L’arcipelago dove convivono la paura per la guerra e per il clima.

Secondo Arild Moe, politologo e criminologo del Fridtjof Nansen Institute in Norvegia, se la Russia uscisse dal trattato delle Svalbard, scatterebbe l’articolo V del patto euroatlantico. Da un momento all’altro tre potenze come Cina, Usa e Regno Unito potrebbero reclamare diritti e l’Artico in poco tempo vedrebbe un aumento del traffico militare. Un incidente potrebbe nascere dalla situazione sulla pesca dei merluzzi. Entro le 200 miglia dalle Svalbard la Norvegia applica le sue regole stringenti come nel resto del Mar di Barents, i russi contestano il loro comportamento dicendo che non ne hanno diritto per via dell’accordo di 123 anni fa.

Oslo è anche il primo fornitore di gas in Europa dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Prima della guerra la Norvegia rappresentava il 20% della fornitura di gas per l’Ue, mentre la Russia il 40%. Dopo le sanzioni occidentali contro la Russia, ha aumentato la produzione ed è diventato il primo paese fornitore dell’Unione, coprendo quasi il 25% della domanda complessiva, cifre destinate ad aumentare. Nei successivi otto mesi al 24 febbraio, ha realizzato profitti per 100 miliardi di euro, circa 18mila euro a norvegese se li dividiamo per i 5,4 milioni di abitanti. Il paese dei fiordi ha colto la palla al balzo anche sul petrolio vendendo barili, senza alcun calmiere, a 400 euro cada uno contro i 100 dell’anteguerra.

In Islanda è in corso una trasformazione epocale: un paese che ha sempre vissuto di pescato e allevamento, si appresta a diventare un nuovo centro della globalizzazione. Tutto passa per la costruzione del porto a Thorshofn (“il porto di Thor”) nel Finnafjord, nord-est islandese, una delle opere nevralgiche del Nuovo Artico. Finanziato da tedeschi, islandesi, ma anche cinesi e statunitensi per un totale di 15 miliardi di dollari, diventerà la rotta transpolare da e per il Nord Atlantico. Qui le condizioni sono ormai ideali per un porto di caratura mondiale: mare senza ghiaccio ormai tutto l’anno, profondità del fondale per evitare che le navi si incaglino e poco vento.

L’importanza di questo angolo di terra, al confine col Circolo Polare Artico, va al di là delle caratteristiche marittime. Da qui dovrebbero arrivare le navi cargo da Giappone, Cina, Corea, ma anche Norvegia e Scozia. Da qui passerà la rotta transpolare.

Per gli islandesi la Nsr (passaggio a nord-est) riduce sì di un terzo il tempo di navigazione tra Europa ed Oriente rispetto alla tradizionale rotta via Suez, ma rappresenta anche la punta di diamante del progetto russo nell’Artico. Il passaggio a nord-ovest (che dalla Baia di Baffin, attraversa le 36mila isole canadesi e giunge fino allo Stretto di Bering) più volte ricercato nella storia, è invece meno adatto alla navigazione commerciale per via dei tratti di mare molto stretti e le acque troppo basse. La rotta transpolare ha quindi un vantaggio considerevole: collega il Nord Pacifico, attraverso lo Stretto di Bering, poi il Polo Nord e quindi lo Stretto di Fram, al Nord Atlantico per un totale di 4.500 miglia nautiche tagliando fuori la Russia.

L’Islanda, che è sempre stata a metà tra America ed Europa, sta diventando nazione artica e non è più tranquilla. Il territorio è in continua modifica a seconda di esigenze commerciali o militari. Come a Gunnolfvik dove dal 2019 c’è una base-radar della Nato con militari stanziati. Alcuni islandesi si definiscono “Palestina del Nord” per via delle modifiche che vengono loro imposte per questioni d’interesse strategico e per cui diventeranno “ospiti sgraditi a casa nostra”.

Dopo la bancarotta del 2008, l’Islanda ha paradossalmente trovato nel cambiamento climatico un alleato. Le acque sempre più calde del Nord Atlantico hanno costretto gli sgombri a migrare verso nord e hanno dato uno slancio all’economia islandese dopo decenni di difficoltà, incrinando allo steso tempo i rapporti con quei paesi che invece sono stati penalizzati da queste migrazioni ittiche. Dinamiche che si ripetono in diversi contesti marittimi tra Nord Atlantico e Artico. L’Islanda ha preso la palla al balzo e in pochi anni si è rilanciata chiamando a sé un turismo senza precedenti sull’isola che ha reso l’Artico un brand. L’acqua fa il resto. In un mondo sempre più desertificato qui si trova l’Eden dell’acqua purissima e un luogo sempre più abitabile che attrae investitori miliardari e grandi potenze.

ALASKA, CANDA E GROENLANDIA: IL FRONTE OCCIDENTALE TRAGHETTATO DAGLI USA

L’Artico come meta di conquista. L’immensa area che il capitalismo più sfrenato ha reso accessibile, può paradossalmente rappresentare l’ancora di salvezza del capitalismo stesso e le grandi potenze non vogliono avere ruoli secondari, ma accaparrarsi il bottino, mentre il ghiaccio continua a sciogliersi. La United States Geological Survey stima il valore di petrolio e gas nell’intero Artico in 18 trilioni di dollari, l’equivalente dell’intera economia americana. Qui sono custoditi 90 miliardi di barili di petrolio, il 40% delle riserve mondiali di combustibile fossile, il 30% di tutte le risorse naturali, terre rare per 2 trilioni di dollari e 500 miliardi di dollari di pesce annui.

L’artico è il luogo dove la hybris, la tracotanza dell’uomo, si è mostrata con gli effetti più devastanti sulla Natura. L’epicentro degli effetti climatici è la Groenlandia, la Terra dell’uomo del Nord. Più di 2 milioni di chilometri quadrati per l’85% ricoperti da ghiaccio e una popolazione di 57mila abitanti. Ogni cambiamento ambientale che avviene a queste latitudini, ogni strato di ghiaccio che si scioglie, è come protagonista di un effetto farfalla che produce bombe d’acqua, siccità, desertificazioni e profughi nelle zone più sfortunate del Globo, come il Sahel. Nell’estremo Nord resiste il ghiaccio formatosi nell’ultima era glaciale e che invece si è sciolto 10mila anni fa in Canada, Scandinavia e New England. Dal 2011 si sono sciolte 375 miliardi di tonnellate di ghiaccio, contribuendo ad alzare il livello dei mari.

Come in altri luoghi dell’Artico, anche qui le grandi compagnie estrattive cercano di ritagliarsi una spazio di manovra. Lo fa per esempio l’australiana Gme (partecipata da una società cinese) con i carotaggi sull’altopiano di Kvanefjeld, una miniera di terre rare ed uranio. Un paio di anni fa il governo della Groenlandia a guida socialdemocratica ha scalzato la Gme dal progetto, ufficialmente per un motivo ambientale in seguito alle estrazioni di uranio, ma è più che vivo il sospetto che dietro ci fosse la volontà statunitense di non concedere spazi alla Cina nell’area. La Gme ha poi avviato un arbitrato facendo valere gli accordi pregressi.

Nell’opinione pubblica c’è una spaccatura sulla questione delle ingerenze esterne. Un parte dei groenlandesi accetta l’apertura a paesi stranieri (Cina in primis) in un’ottica di indipendenza dalla Danimarca e quindi di autonomia dagli interessi euro-americani. Le popolazioni indigene Inuit hanno memoria storica dei secoli di colonizzazione danese e negli ultimi anni si sta sviluppando una maggiore consapevolezza dei soprusi subiti, con scandali del passato che stanno interrogando anche l’opinione pubblica del Regno.Nel 1979 la Groenlandia ha negoziato con la Danimarca il diritto all’autogoverno e nel 2009 le ha riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e al controllo delle proprie risorse eccetto l’uranio, materia d’interesse strategico nazionale (nonostante Copenaghen sia dal 1985 un paese “antinucleare” e primo paese al mondo per la produzione di energia eolica). Per staccarsi dal Regno di Danimarca, rinunciando al fondo annuale di 600 milioni che versa Copenaghen, il prezzo da pagare è quello inevitabilmente di aprire alla concessione di miniere alle grandi compagnie internazionali. La United States Geological Survey sostiene che nel nord-est dell’isola siano presenti 32 miliardi di barili di petrolio. Come sorta di pegno per la vicinanza alla Germania nazista durante la guerra, la Danimarca stipulò un accordo con gli Stati Uniti, che rese più proficuo il legame tra il paese a stelle e strisce e l’isola in cambio di una partecipazione dei danesi nella Nato. La Groenlandia ha ancora oggi un valore fondamentale per gli Stati Uniti nell’ottica della competizione artica con la Russia. Nel luglio del 2019 l’allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump propose l’acquisto della Groenlandia, un po’ come nel 1867 era stato fatto con l’Alaska. Sembrava un’esibizione folcloristica tipica del personaggio, ma segnalava un più duro approccio statunitense nell’Artico, proseguito da Biden, in chiave anti cinese e anti russa.

La miniera di Tanbreez rientra in questo nuovo approccio più assertivo degli americani. I suoi diritti di estrazione appartengono a Greg Barnes, geologo australiano invitato proprio nel luglio 2019 alla Casa Bianca e che dichiarava di operare proprio in funzione anticinese: “Il 97% di ciò che sta lì sotto è ciò di cui l’America ha bisogno come il pane per non finire soffocata dai musi gialli”. Negli stessi mesi Trump dichiarava che la dipendenza dall’estero per i minerali era “un’emergenza nazionale”. La Cina è una potenza nel settore per via dei suoi giacimenti interni, degli accordi stipulati con paesi pieni di terre rare come Madagascar, Myanmar, Russia e di recente l’Afghanistan abbandonato dagli Usa. Nel 2018 Pechino ha annunciato l’investimento di 15 miliardi di euro in Groenlandia in cinque anni per costruire aeroporti e una base scientifica. Inoltre venivano ricevuti i ministri inuit a Pechino, per l’irritazione di Washington e Copenaghen. Le pressioni sui danesi sono aumentate anche da parte della Nato senza però riuscire ad impedire l’acquisizione di nuove concessioni cinesi. L’arrivo nell’area di personaggi come il magnate Greg Barnes ha cambiato tutto: la Cina non riesce più ad investire come prima in Groenlandia che è entrata nell’orbita statunitense.

L’amministrazione Biden non ha cambiato la traiettoria. Ha confermato l’ordine a Pentagono e Cia di garantire la catena d’approvvigionamento di materiali critici. Il segretario di Stato Antony Blinken ha condotto uno dei suoi primi viaggi all’estero proprio in Groenlandia con una delegazione di tecnici che hanno firmato accordi commerciali per 200 milioni di dollari. In queste manovre ai confini del mondo hanno avuto un ruolo anche due dei giganti del capitalismo liberal americano come Bill Gates, Michael Bloomberg e Jeff Bezos che, come sostenitori di una start up estrattiva, hanno acquisito i diritti di esplorazione e sfruttamento di un giacimento di terre rare nel nord-est dell’isola. Gli Inuit si sono rassegnati all’idea che gli interessi economici delle grandi potenze avranno la meglio sull’ambiente e sulle aspirazioni di indipendenza dell’isola. La Groenlandia è troppo importante da controllare. Per Dwayne Ryan Menezes, direttore del Polar Research and Policy Initiative, un think thank vicino alla Nato, “la superpotenza che mette oggi le radici incasserà vantaggi per molto tempo”. Menezes sostiene che tramite l’aiuto di società minerarie britanniche, australiane e canadesi, ci sia un piano per portare la Groenlandia nella sfera d’influenza statunitense. Del resto delle 41 società internazionali in possesso di licenze di esplorazione e sfruttamento, 30 sono britanniche, canadesi e australiane. Sono i Five Eyes (il patto anglosassone tra Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito e Nuova Zelanda), i quali tramite un accordo di condivisione di dati e obiettivi nella regione “si sono presi la Groenlandia e hanno messo fuori gioco i cinesi”, sostiene Menezes.

Secondo fonti del Dipartimento di Stato americano l’approccio statunitense nell’Artico è cambiato il 26 agosto 2020 quando a una dozzina di pescherecci a stelle e strisce i russi hanno intimato di allontanarsi dalla loro zona economica esclusiva nel Mar di Bering, dove gli imperi (tra l’isola americana Piccola Diomede e la russa Grande Diomede ci sono due chilometri e ventuno ore di fuso orario) si vedono dalla finestra. La Coast Guard sorpresa aveva acconsentito a lasciare l’area, visto il lancio russo di un missile Cruise verso le acque internazionali tra Canada e Groenlandia. Ma lo sgarbo non è stato dimenticato. Per i funzionari americani lo Stretto di Bering costituisce una delle maggiori preoccupazioni per l’amministrazione, insieme all’area delle Svalbard. “E` dove riteniamo più probabile un conflitto con la Russia” spiega un alto funzionario. L’area si è notevolmente surriscaldata negli ultimi anni con l’installazione di basi aeree e navali, mentre l’aumento del traffico commerciale (destinato ad aumentare grazie alla Nsr) accresce considerevolmente il rischio di incidenti nell’area. E se Russia e Cina non dimostrano un’amicizia senza limiti in certi angoli del Globo, nell’Artico cooperano sul piano commerciale e svolgono esercitazioni militari congiunte. La Russia, nonostante la storica diffidenza verso la Cina, ha bisogno di un partner nel Grande Nord vista la grande presenza di forze Nato nell’area e l’isolamento dopo i fatti di Ucraina.

L’Artico un tempo barriera naturale tra le due potenze, con lo scioglimento dei ghiacci è diventato territorio di conquista. I passaggi praticabili aumentano di anno in anno. Sempre più blu e sempre più caldo, cela sotto i fondali e nei ghiacci enormi risorse che nessuno vuole lasciarsi scappare. Gli Stati Uniti si rafforzano, soprattutto in Alaska e prestano attenzione al controllo degli accessi per contenere il rivale in crescita nella regione. “Dobbiamo essere pronti a combattere qui e a difendere qui” sostiene il generale David Krumm, comandante della base multi-forze in Alaska. Il governo federale ha investito un miliardo di dollari per finanziare il porto di Nome sulla costa occidentale dell’Alaska (baricentro strategico e militare della regione come Murmansk per i russi o Kirkenes in Norvegia). Qui verrà ospitata una base della Marina e ci sarà il comando artico della Guardia costiera che avrà in dotazione sei nuovi rompighiaccio, oltre ai due che già detiene (la Russia va verso le 50 unità in dotazione, anche se in prospettiva la loro importanza sarà ridimensionata dalla maggior navigabilità delle rotte). Nelle basi di Eielson e di Anchorage arrivano rinforzi aerei come gli F-22 Raptor di quinta generazione, nell’area è stato installato un sistema di difesa aerea ed è stato aggiornata la rete radar antimissile. Sono di stanza oltre 20mila soldati che vanno addestrati alle estreme condizioni climatiche della regione. Recentemente è stato anche annunciato un progetto di investimento di 5 miliardi di dollari per un impianto di gas naturale liquefatto (GNL) nel North Slope dell’Alaska da parte dell’azienda statunitense Qilak LNG. Sarà pronto nel giro di un decennio e fornirà gas in Asia, facendo concorrenza al progetto russo Yamal. Tutto questo non è altro che la conseguenza del piano deciso dall’amministrazione Biden nel 2021 chiamato “Regaining Arctic Dominance” e secondo il quale “non agire subito nell’Artico significa permettere che la pace e la prosperità del Paese siano messe in pericolo da Russia e Cina”. Va letta in questo senso la nomina lo scorso 13 febbraio del primo ambasciatore statunitense per la regione Artica Michael Sfraga da parte di Joe Biden. Sul fronte Alaska gli Stati Uniti sono da soli e in prima linea contro la Russia. Diversamente dalla situazione artica nel Mar di Barents, dove l’impero a stelle e strisce governa, ma delega agli alleati scandinavi il contenimento russo, consapevole di avere una coperta troppo corta per essere al fronte ovunque. C’è sempre la priorità cinese.

Nel 2022 la Nasa ha spiegato che in un anno si sono persi 100mila chilometri quadrati di ghiaccio, un’area pari a quella dell’Islanda. Il poco ghiaccio intorno al Polo che ancora notano gli astronauti dalla Stazione Spaziale Internazionale è sempre meno ghiaccio pluriennale (nel 1985 era il 45% della superficie artica, oggi è il 20%) e sempre più ghiaccio stagionale che si scioglie in estate. Nel 2021 è uscito lo studio di Nature Climate Change che sostiene che l’estate del 2035 sarà la prima completamente senza ghiaccio.

Nel 2017 si è celebrato l’anniversario dei 150 anni dalla cessione dell’Alaska dalla Russia agli Usa da parte dello Zar Alessandro II, costretto a far cassa dopo la Guerra di Crimea, per la cifra irrisoria di 7,2 milioni di dollari, gli attuali 125 milioni di dollari. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov aveva detto: “Questo anniversario serve a ricordare che cosa ci hanno fatto gli americani”. Putin aveva invece accusato Washington di usare l’Alaska come “minaccia militare permanente contro la Russia”. Per gli statunitensi l’acquisto dell’Alaska segna l’inizio dell’espansione nel Grande Nord e la nascita della nazione artica. L’approccio espansionistico è opera dell’allora Segretario di Stato William H. Seward, interprete della dottrina di John Adams secondo cui gli Usa sono destinati a svilupparsi sulla parte settentrionale del Globo. Seward sosteneva che comprare nuovi territori “costa molto meno che fare la guerra”. Furono dunque acquistate la Louisiana, la Florida e quindi l’Alaska. “Il nostro impero è destinato ad espandersi a nord, nell’unica regione rimasta ricca sulla terra”. Un anno più tardi, nel 1868 furono avviate perizie per l’acquisto di Islanda e Groenlandia, entrambe colonie danesi al tempo, ma le cifre richieste erano troppo alte per il paese devastato dalla Guerra Civile. Prima della proposta di Trump di prendersi la Groenlandia, ci aveva provato anche Truman nel 1946 intuendo la portata strategica dell’isola piena di risorse, ma anche in quel caso i danesi rifiutarono, concedendo però la possibilità di impiantare basi militari e installare testate atomiche nei bunker sotto la calotta.

Anche il Canada, come la Russia, è riuscito a fare delle sue terre più inospitali il proprio baricentro geostrategico. Nella Nato ha assunto il ruolo di protettore dell’Artico e si sta attrezzando in vista di una guerra bianca. Ha investito in spedizioni scientifiche, allestito nuove basi radar e ha intensificato le manovre congiunte con gli Stati Uniti, finanziando con 4 miliardi di euro nuove infrastrutture militari. Nell’agosto 2022 il premier canadese Justin Trudeau alla base artica di Resolute ha dichiarato che “la Nato deve trovarsi pronta a difendere la regione”. C’era anche il segretario Jens Stoltenberg il quale ha detto che l’Artico apre nuove rotte marittime, ma è anche “la rotta più veloce per i missili e i bombardieri russi per raggiungere il Nord America” condividendo le preoccupazioni di Washington riguardo alla convergenza tra Cina e Russia nella regione: “Con il Mare di Barents è il punto più critico nello scacchiere settentrionale del mondo”.

L’estate del 2012 è l’anno da cui gli scienziati fanno partire il disgelo e l’inizio di un “nuovo Artico”. Curiosamente è anche l’anno in cui i rapporti tra russi e statunitensi raggiungono il picco massimo nella regione e dal giorno dopo cominciano l’inevitabile discesa. La chiatta che rifornisce di benzina e gasolio la comunità di Nome (città che si affaccia sul Mar di Bering) in Alaska rimane bloccata dal mal tempo e l’amministrazione Obama per evitare una tragedia in pieno inverno chiede aiuto al Cremlino di Vladimir Putin. I russi inviano il tanker rompighiaccio Renda e insieme al rompighiaccio Usa Healy, riescono a portare a termine la missione. I russi non chiedono nulla in cambio: “Dono del Cremlino, buon anno amici americani”. Oggi nell’Artico il clima di cooperazione è definitivamente tramontato, il Consiglio Artico si è sciolto, sancendo la fine della collaborazione tra gli stati su tanti dossier fondamentali. Da una parte la Nato con gli Usa in testa, dall’altra Cina e Russia. La competizione nel Grande Nord è esistenziale per il Cremlino, non per gli Stati Uniti che non rischiano il primato ai confini del Globo, ma ne riconoscono l’importanza. La Cina guarda interessata. La militarizzazione dell’Artico non causa la competizione globale, ma ne è la diretta conseguenza.

Nel Grande Nord, dove rimbombano più forti gli spari in Ucraina e le tensioni dell’Indo Pacifico, il nuovo Mondo si surriscalda.

FONTI:

– “Guerra Bianca. Sul fronte artico del conflitto mondiale” – Marzio G. Mian. 2022 Neri Pozza Editore.

– “Alaska. Il non artico americano” – Limes 05/02/2019

– “Con una nuova dottrina navale, la Russia recinta il suo Artico” – Limes 03/08/2022

– “Ambasciator (americano) non porta Artico” – Limes 06/09/2022- “Mosca scommete sui nuovi terminal petroliferi nell’Artico” – Osservatorio Artico 06/02/2023

– “ Dubbi e sanzioni, la Northern Sea Route cambia rotta” – Osservatorio Artico 15/09/2022

– “ La Russia tenta esportazioni di greggio verso l’Asia attraverso la NSR” – Osservatorio Artico 09/12/2022

– “ Rotta artica ed energia al centro dell’agenda di Putin con la Cina di Xi” – Osservatorio Artico 21/04/2023

– “ L’Alaska investe 5 miliardi nel progetto anti-russo” – Osservatorio Artico 09/03/2023

– “La Russia apre la rotta di Nord Est per tutto l’anno” – Osservatorio Artico 29/05/2023

– “La Commissione ONU accoglie le rivendicazioni russe sul Mar Glaciale Artico” – Osservatorio Artico 06/04/2023

– “L’Alaska investe 5 miliardi nel progetto anti-russo” – Osservatorio Artico 09/03/2023

– “Gli Usa nominano il primo Ambasciatore per l’Artico – Osservatorio Artico 24/02/2023

IMMAGINI

– Copertina, soldati statunitensi nell’Artico – Defensenews.com

– “Le rotte artiche” – di Luca Mazzali nel libro “Guerra Bianca” di Marzio G. Mian. 2022 Neri Pozza Editore.

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