Con lo scoppio del conflitto russo-ucraino, il tema delle sanzioni economiche è balzato agli onori della cronaca. Mentre Mosca viene colpita dall’estromissione dal sistema di pagamento SWIFT, Pechino assiste da spettatrice interessata a un evento che potrebbe avvicinare la Russia all’area di circolazione internazionale del renminbi, accelerando un processo dal forte impatto geopolitico.
La “de-dollarizzazione” per Pechino e Mosca
Tra gli obiettivi non troppo celati di Pechino vi è certamente quello di creare un’area di circolazione internazionale del renminbi parallela a quella del dollaro, trasformando la propria valuta in una potente leva di influenza sui vari partner economici. Ciò implicherebbe, d’altro canto, una riduzione della dipendenza (cinese) dal dollaro americano, ad oggi la moneta di gran lunga più utilizzata per eseguire transazioni e pagamenti a livello globale.
Tale prospettiva risulta particolarmente accattivante per altri paesi quali Iran e Russia che, aderendo progressivamente al sistema di pagamenti basato sullo yuan anziché sul dollaro, ridimensionerebbero teoricamente la capacità statunitense di imporre sanzioni economiche nei loro confronti – come quelle applicate a inizio mese contro il Cremlino.
Pechino e Mosca cooperano ormai dal 2014, ovvero da dopo l’annessione della Crimea, alla riduzione della propria dipendenza dalla valuta americana, di cui hanno drasticamente diminuito l’uso nel commercio bilaterale nel corso degli anni. Se nel 2015 circa il 90% delle transazioni tra i due paesi era condotto in dollari, la percentuale a fine 2019 era già scesa a poco più del 50%.
Sempre nel 2014 i due attori firmavano un contratto triennale di currency swap dal valore di 150 miliardi di yuan, che ha permesso a ciascuno di avere accesso alla valuta dell’altro senza doverla acquistare sul mercato valutario, e quindi a costo inferiore. Ciò ha portato, cinque anni dopo, a un accordo per sviluppare un sistema di pagamenti alternativo allo SWIFT. La Banca Centrale Russa ha rivelato, nel 2019, di aver ridotto la quota del dollaro americano nelle proprie riserve di valuta estera di oltre il 50% (circa 101 miliardi), a favore di altre valute – tra cui lo yuan, la cui quota è intanto passata dal 5 al 15% sul totale.
Una prospettiva ancora lontana
La Belt and Road Initiative (BRI) è uno dei principali strumenti di internazionalizzazione del renminbi, che avviene principalmente attraverso la firma di accordi di currency swap a livello bilaterale con i partner commerciali cinesi. Tuttavia, nonostante gli sforzi di Pechino a espandere la circolazione dello yuan a livello internazionale, o quantomeno regionale, la prospettiva di una sostanziale sostituzione della valuta americana con quella domestica appare piuttosto lontana.
Nel 2019 una quantità di yuan equivalente a 285 miliardi di dollari al giorno è stata scambiata sul mercato valutario. Una cifra che appare elevata, ma è quasi irrilevante se confrontata alla compravendita del dollaro, che ammontava a oltre 5,8 bilioni (5800 miliardi). C’è di più. L’aumento dell’impiego dello yuan negli scambi commerciali globali è stato impressionante: da circa lo 0% al 4.3% tra l’inizio del secolo e oggi. Ma il dollaro viene ancora utilizzato nell’88% delle transazioni, nonostante la Cina commerci più degli USA a livello globale.
Come è chiaro che la Cina abbia compiuto passi importanti verso l’internazionalizzazione dello yuan, è altrettanto evidente che “scalzare” il dollaro sia ancora un miraggio, specialmente in Occidente. Il sistema finanziario cinese non appare abbastanza sviluppato per supportare un’espansione su scala globale dell’area di circolazione della “moneta del popolo”. Quello che appare più probabile, è che a livello regionale i partner asiatici ed eurasiatici di Pechino – tra cui la Russia – riducano la propria dipendenza dal dollaro, aderendo a un sistema di pagamenti alternativo a matrice cinese. Il potere della leva geoeconomica fornita a Washington dal sistema SWIFT verrebbe a questo punto smussato.