Pentagono e staff reinterpretano il presidente
“Gli Stati Uniti difenderanno Taiwan in caso di attacco, la Cina sta flirtando con il pericolo”, con queste parole il presidente statunitense Joe Biden ha risposto a specifica domanda dei giornalisti durante una conferenza stampa. Lo staff della Casa Bianca ha immediatamente precisato che “non c’è niente di nuovo”. Eppure, sembra che qualcosa di nuovo ci sia, Biden, che ha ormai superato il suo secondo anno di presidenza, non è nuovo ad uscite simili. Già con la crisi ucraina il suo voler seguire uno strano e bellicoso “gioco delle parti” ha creato più che qualche malumore all’interno dell’apparato statunitense.
Cos’è l’ambiguità strategica?
La novità non sta tanto nel fatto che il presidente della prima potenza al mondo dichiari di voler difendere un paese che, per quanto non riconosciuto da quarant’anni, è un suo alleato.
Ma piuttosto nel modo in cui si evolve, e forse si annulla, l’ambiguità strategica attorno a questo conflitto. Dal 1979, anno in cui gli USA hanno trasferito il loro riconoscimento ufficiale alla Cina comunista, non è mai stato chiarito come si muoverebbero le forze statunitensi nel caso di un’invasione cinese di Taiwan. Cristallizzare la situazione permette infatti di evitare fughe in avanti sia da parte cinese (con un’invasione) che da parte taiwanese (con una dichiarazione d’indipendenza).

Tutto questo rientra anche nella notizia trapelata dal pentagono a inizio ottobre, secondo la quale i marines starebbero addestrando l’esercito taiwanese in modo da garantire una risposta efficace in caso di invasione. Lo stesso governo dell’isola ha rimarcato, giustamente e felicemente, questa notizia. Si tratta di dinamiche da guerra fredda, in una delle zone più calde della competizione tra Cina e Stati Uniti, un’area dove, dopo lo scoppio della guerra ucraina, dovrebbero rivolgersi a maggior ragione le attenzioni internazionali.
La posizione cinese
Per quanto riguarda la Cina, dal punto di militare non esiste alcuna ambiguità, viene utilizzata la “tattica della zona grigia”: in pratica vengono portate avanti azioni militari (come le continue violazioni dello spazio aereo dell’isola) che vengono fermate prima di una guerra aperta.
In questo modo, le difese di Taiwan sono sicuramente messe costantemente sotto stress, ma allo stesso tempo vengono acquietate. In caso di attacco, infatti, i taiwanesi perderebbero minuti preziosi per capire se si tratta di un’emergenza di routine. Si tratta della stessa strategia utilizzata dalla Russia in Ucraina prima dell’invasione.

Dal punto di vista diplomatico Xi Jinping si è sempre detto favorevole ad una rapida conclusione del conflitto, “meglio se pacifica”: potremmo definirla “diplomazia con caratteristiche cinesi”.
Anche perché l’unica via pacifica all’unificazione (o riunificazione, dipende dai punti di vista) sarebbe una resa di Taiwan. A maggior ragione dopo che le continue ingerenze autoritarie cinesi ad Hong Kong allontanano l’ago della bilancia dall’ipotesi del “Un paese due sistemi”.
L’incertezza statunitense
Non esistono dati certi attorno alla possibile reazione degli Stati Uniti ad un’invasione di Taiwan. L’ambiguità strategica è nata per questo, e per quanto il presidente Biden abbia provato a dare una risposta lapidaria, non lo può sapere neanche lui.
Da questo punto di vista, non hanno una risposta neanche coloro che alla guerra dovrebbero partecipare, i sondaggi sul tema dicono che solo il 52% degli statunitensi sarebbe favorevole ad un intervento militare a Taiwan, una maggioranza troppo esile per essere presa seriamente in considerazione.
Lo stesso capo del Pentagono Lloyd Austin ha ridimensionato le parole del presidente Biden su Taiwan durante una conferenza stampa, egli ha dichiarato che il presidente intendeva sottolineare “il nostro impegno a fornire a Taiwan i mezzi per difendersi”. In pratica non si tratterebbe di un intervento militare più importante di quello attualmente posto in essere in Ucraina.