L’Afghanistan a più di un anno dalla presa del potere talebano. Diritti civili, sfide interne e le preoccupazioni della comunità internazionale.
Per la media dei cittadini occidentali le sorti e i riflettori sull’Afghanistan si sono spenti il 30 Agosto 2021, data in cui le forze internazionali hanno abbandonato Kabul, lasciando de facto il governo del paese nelle mani degli studenti coranici. E’ impressa nell’immaginario collettivo l’immagine degli afghani disperati aggrappati ai veicoli militari, quando hanno scelto la morte certa pur di non rinnegare sé stessi. Immagine atroce e ben rappresentativa della profonda caduta del paese successiva a quel giorno. Precedentemente, gli accordi di Doha nel 2020 hanno spianato la strada per la riconquista del paese cominciata ben prima di fine agosto e culminata con la data del 6 settembre, quando i talebani hanno acquisito la provincia del Panjshir e dichiarato il totale controllo. Abolita la Costituzione e il parlamento come primo atto, i talebani hanno poi sciolto organi indipendenti come la Commissione indipendente per i diritti umani e i ministeri per gli affari femminili e della pace. Tutto questo, non prima di aver dichiarato l’Emirato islamico dell’Afghanistan, dove il leader supremo gode dell’autorità assoluta su tutte le questioni e dopo aver istituito un governo interamente maschile e a prevalenza pashtun.
Dopo un anno di gestione talebana, l’economia ha subito un crollo di oltre il 30% e una buona parte delle entrate fiscali, prima fonte degli introiti statali, viene assegnata per scopi militari e di sicurezza. Solo una minima parte, invece, viene ormai destinata al welfare, venendo meno all’obbligo di coprire le spese per la ricostruzione del tessuto sociale e delle necessità della popolazione. La già debole economia afghana è, poi, crollata del tutto quando la comunità internazionale ha tagliato l’accesso alle riserve di valuta estera del Paese. La sua economia, ancora oggi, si sostenta principalmente con la coltivazione dei papaveri da oppio che genera frequentemente scontri con l’Isis e le ricche miniere di smeraldi nel Panjshir. Il resto dell’economia ufficiale riguarda i giacimenti di carbone, il gas naturale e la pastorizia. Il blocco dei finanziamenti e sostentamenti internazionali ha sostanzialmente conseguito il collasso del sistema sanitario ed aggravato l’insicurezza alimentare. Rispetto al 2021, il fabbisogno è aumentato del 21%, si stima che un milione di bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione grave come più di seicentomila donne in gravidanza e in allattamento. Secondo l’Organizzazione delle nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura, quasi 20 milioni di persone soffrono un’acuta insicurezza alimentare. Al sistema sanitario mancano attrezzature e personale, in particolare quello femminile. Le donne, vedremo più avanti, sono sostanzialmente immobilizzate nelle cure domestiche e si contano numerose denunce da parte di operatrici umanitarie minacciate dalle autorità locali. Quel poco di aiuti umanitari che entrano nel paese spesso non raggiungono la destinazione, anzi vengono sequestrati dai talebani per altri fini e la corruzione non risparmia neanche questo settore. Secondo il rapporto dell’Onu sull’Afghanistan, dall’ottobre del 2022 ad oggi, non vi sono valide testimonianze sul trattamento dei pazienti sanitari più gravi, come i tossicodipendenti. Il personale sanitario scarseggia e le cure dei pazienti non possono essere controllate e, per quanto l’Emirato si sia impegnato su più fronti sociali, le poche testimonianze raccontano di pazienti chiusi per periodi di pochi mesi nei centri specializzati e rimandati a casa, o per strada, senza aver ricevuto alcuna cura di natura medica.
Tornati al potere, gli studenti coranici hanno sin da subito imposto le loro condizioni alla società e compiuto attacchi nei confronti delle minoranze etniche o semplici manifestanti. Non potevano essere risparmiati i collaborazionisti, o presunti tali, delle forze di occupazione e dell’ex governo afghano. Nel solo periodo tra agosto 2021 e giugno 2022, l’Unama ha documentato cento uccisioni di membri delle forze di difesa e sicurezza e del personale governativo della ex Repubblica. Nelle province di Nangarhr e Kunar sono stati rinvenuti decine di corpi abbandonati nei canali e le stime delle vendette talebane sono presumibilmente più alte. Nonostante l’amnistia proclamata dai talebani, gli ex membri, i funzionari e i loro famigliari sono vittime di uccisioni extragiudiziali e sparizioni. Si sospetta che alcuni attentati contro le attuali forze di polizia talebana siano in realtà stati orchestrati dai talebani stessi per colpire i presunti simpatizzanti della sua controparte militare Isis-K.
Sul fronte del dissenso politico, invece, se da un lato i talebani hanno incoraggiato le manifestazioni popolari contro il blocco degli aiuti internazionali ed altre legate alla politica sull’Hijab, dall’altro colpiscono le sempre più sporadiche manifestazioni, spesso gestite dalle donne, sull’assistenza umanitaria, diritti delle donne e l’istruzione femminile. Nel mese di settembre, nelle città di Herat, Mazar e Kabul, i talebani hanno represso duramente le rivolte popolari torturando e chiudendo in isolamento decine di manifestanti e giornalisti che tentavano di documentare gli abusi. Le rivolte sono gestite aumentando la paura di rappresaglia catturando nelle proprie case i manifestanti e colpendo duramente i cortei con gas lacrimogeni e proiettili veri. Le minoranze etniche subiscono torture e attacchi ai loro luoghi di culto e in continuazione con le pratiche repressive degli anni ’90 gli studenti coranici arrestano, torturano ed emarginano rappresentanti sikh, indù, cristiani ed ebrei. Solo ai più fortunati fra loro viene concesso l’esilio.
E’ solo del 21 Dicembre scorso, la notizia di vietare l’accesso alle donne nelle università, una decisione che segue quella di marzo, quando si è deciso di non riaprire le scuole superiori femminili, già ridotte all’osso fino a quel momento limitando l’accesso delle ragazze ai corsi tenuti o frequentati dagli uomini e rendendone praticamente impossibile la frequentazione, circa 800 mila giovani donne non possono accedere all’istruzione secondaria. Col pretesto di uniformare prima i luoghi di studio e le uniformi alla legge islamica, i talebani hanno reso subito impossibile l’accesso all’istruzione contravvenendo alle promesse fatte nel solo 2021 alla comunità internazionale. I pochi dati ufficiali del primo anno sui suicidi femminili è allarmante. Le donne non godono di alcun diritto e sono continuamente soggette a vessazioni familiari, torture ed uccisioni. Smantellando la Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan e i tribunali speciali istituiti dal precedente governo, oltre che l’intero sistema giudiziario e le forme di sostegno, le vittime di violenza non possono non solo chiedere giustizia ma neanche aiuto, delegando del tutto ai maschi della famiglia le sorti delle loro vite e dei loro corpi.
Alle donne, inoltre, è reso di fatto impossibile condurre una vita indipendente. E’ stimato che in un anno la forza lavoro femminile si sia ridotta del 61%. Sono state escluse dal sistema giudiziario con l’allontanamento di 265 giudici donna e le dipendenti pubbliche che sono riuscite a mantenere il proprio posto di lavoro hanno subito abusi e sono state invitate a rimanere a casa, conformandosi all’abbigliamento preteso dall’Emirato islamico. Per convincerle del tutto, poi, sono state anche private degli stipendi. Le attuali politiche femminili hanno, così, generato in un anno una perdita del Pil pari al 3-5% con una perdita di bilancio statale stimata fra i 600 mila e 1 miliardo di dollari. Le politiche repressive hanno un impatto devastante, anche, sui nuclei familiari con capifamiglia femminili. L’impossibilità al loro sostentamento costringe le famiglie a spingere le proprie figlie minorenni ai matrimoni forzati, spesso richiesti dai talebani stessi in cambio della sicurezza. Le associazioni umanitarie ne hanno infatti registrato un significativo aumento. Nel 2021 il governo de facto ha varato una legge che vieta tali pratiche, ma la norma rimane ancora oggi vaga su fissare un’età minima consentita dai 15 anni, questo ne consente la continuazione della pratica, purché delle pretendenti ne vengano dimostrate dal suo tutore la competenza e la pubertà. Metà delle famiglie afghane non riescono a sostenere i propri figli. Quasi 10 milioni di minori soffrono di carenza alimentare e le loro famiglie sono costrette a ricorrere alla vendita dei minori e a tagliare le spese sanitarie e per l’istruzione. La schiavitù sessuale continua nonostante sia stata vietata per legge.
In tutto il paese è di nuovo caccia al diverso. Relazioni omosessuali ed arte sono letteralmente messe al bando. Agghiacciante un manuale del 2022 del Ministero per la promozione delle virtù e della prevenzione del vizio nel quale viene ribadito il già reintrodotto reato di omosessualità e chiede ai leader religiosi di indicare al ministero i casi sospetti per essere giudicati e puniti. Sin dal loro insediamento i talebani hanno danneggiato opere artistiche e il patrimonio culturale alimentando le tensioni etniche. Siti e manufatti storici graditi ai coranici sono stati restaurati e conservati, altri non hanno ricevuto la stessa fortuna come il castello di Gholgola, Lashkari Bazar e Zargar Tepe. Gli artisti sono stati pubblicamente umiliati e frustati, altri hanno subito abusi, alcuni sono stati costretti a lasciare il paese. Una furia che non ha risparmiato i murales e gli strumenti musicali dell’Istituto nazionale di musica dell’Afghanistan.
Anche in merito al trattamento dei detenuti i talebani si sono impegnati adottando un anno fa un codice di condotta che vieta la tortura. Tuttavia, ad oggi le violenze e le torture sono in significativo aumento. Il ministero de facto dell’interno e dell’intelligence attua arresti arbitrari e custodie cautelari prolungate. I detenuti sono isolati dalle famiglie e non possono essere assistiti dai legali. Molti di essi, in particolare i difensori dei diritti umani, i giornalisti e i funzionari che hanno collaborato con la Repubblica subiscono torture sistematiche. Le testimonianze raccontano di uomini prelevati nel cuore della notte dalle loro abitazioni, condotti legati e bendati in destinazioni segrete e torturati con i fili elettrici senza prove di colpevolezza. Le carceri sono piene e in pessime condizioni. Ai detenuti non vengono garantite acqua, cure mediche e servizi igienici adeguati, come nella prigione di Sarposa nella provincia di Kandahar. Il seppur debole e corrotto sistema giudiziario messo su dalla Repubblica è stato smantellato. I talebani hanno nominato propri uomini nel Ministero della giustizia e promosso l’elezione di giuristi di formazione religiosa alla Corte suprema e alla Procura della giustizia. Gli avvocati sono ammessi di rado ed è stata sciolta l’Associazione forense indipendente Afghana, abolendo la sua autorità per certificare avvocati e patrocinare le cause. Per tutti i reati, spesso, non viene convocato il Pubblico ministero e la maggior parte dei giudici non ricevono più la paga statale, nonostante i talebani abbiano garantito il contrario agli ispettori dell’Onu. Dall’agosto del 2021 oltre 21 pubblici ministeri sono stati uccisi e per nessuno di questi omicidi eccellenti sono state fatte delle indagini per trovare i responsabili e giudicarli.
Sul piano della sicurezza nazionale e militare, ad oggi, l’Emirato è impegnato su diversi fronti, primo fra tutti quello con la sezione regionale dell’Isis: l’Isis-K (IS-KP). Si tratta di un conflitto bilanciato, nonostante i numerosi successi dell’Isis-K a difesa delle proprie roccaforti e nella conquista delle province salafite orientali. Nel lungo periodo, però, lo stato islamico sarà una minaccia sempre maggiore. Ad oggi però non dispone di sufficienti risorse per un attacco su vasta scala ai talebani e il governo de facto non è in grado altrettanto di governare tutto il territorio e di pacificare il paese. Si teme un prolungamento del conflitto, simile allo scenario iracheno. Secondo l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari, oltre 27 mila persone sono state sfollate a causa dei combattimenti. Lo stato islamico impartisce attacchi ai civili, come nell’aprile 2022 quando nella provincia di Balkhekunduz ha colpito ed ucciso oltre 100 persone. Complessivamente i talebani sono riusciti a ridurre il numero di episodi di violenza, ma gli attacchi e gli scontri con l’Isis restano numerosi per quanto sia difficile reperire informazioni sul campo e filtrare la propaganda di entrambe le fazioni. Non di rado, uno stesso attacco terroristico viene proclamato da entrambi o vengono ingigantiti con video fuorvianti per attirare le simpatie internazionali e per rinvigorire la propaganda. Come già riferito, i talebani stessi conducono violenze accusando l’Isis-K (Stato islamico-provincia del Khorasan) per consolidare il proprio potere. Anche il conflitto con i ribelli del Fronte di resistenza nazionale (NRF) impegna in egual modo i talebani, ma è nello scontro con l’Isis che la comunità internazionale ripone le maggiori preoccupazioni a causa delle implicazioni globali della lotta al terrorismo.
L’area nella quale si consumano le maggiori violenze è quella della provincia di Narganhar, dove i talebani conducono campagne repressive condannando a morte decine di persone per essere sospetti fiancheggiatori dell’Isis. La perdita di credibilità e le violenze indeboliscono l’immagine dell’Emirato, dando l’opportunità all’Isis-K di reclutare ex funzionari della Repubblica in fuga e combattenti estremisti delusi dal seppur infiacchito dialogo con le società occidentali. Gli accordi di Doha hanno dato l’occasione alla macchina propagandistica dello stato islamico di accusarli di essere diventati “amici degli infedeli”. I fronti di sicurezza sono aggravati da una significativa riduzione delle unità militari talebane, già provate dalle fasi finali del conflitto con la Repubblica e costrette ad essere dislocate nelle aree di maggiore interesse strategico, come ai confini con il Pakistan e in Tagikistan per limitare (riuscendo in parte) gli attacchi del TTP, Is-Kp e NRF. Altre unità hanno dato man forte ai combattimenti a Nangarhar e Panjshir. In questi luoghi gli studenti coranici hanno fatto ricorso nel primo periodo del conflitto a strumenti violenti di gestione della sicurezza. La tattica violenta ha, però, sortito pochi effetti e, per questo, hanno cercato di abbassare il generale livello di insicurezza, chiedendo ai propri funzionari di limitare gli interrogatori ai civili, sequestrando armi casa per casa e rilanciando l’amnistia per chiunque abbandoni i ribelli. Inoltre, si impegnano ad arruolare gli studiosi religiosi per convincere i fedeli a non opporsi all’avanzata talebana.
Dal loro insediamento è aumentata la criminalità urbana e, ad oggi, hanno subito attacchi terroristici a Jalabad e a Kabul, mostrando la propria vulnerabilità e l’impossibilità nel gestire la sicurezza anche nelle città. Se nelle aree rurali hanno dimostrato maggiori capacità, nelle città soffrono gli attacchi dell’Is-KP e sulle montagne dell’Hindukush nel nord gli attacchi dell’NRF. Con violenti attacchi come quello all’ospedale di Kabul nel novembre 2021 e la guerriglia armata nelle province orientali, l’Isis-K cerca di minare la fiducia della popolazione per il nuovo governo. Nella provincia di Narganhar le campagne di repressione, condannando a morte i civili accusati di sostenere l’Isis, non hanno consentito ai talebani di acquisirne il controllo, nonostante, oltre la violenza, abbiano anche provato a rilasciare i combattenti con l’amnistia, coinvolgendo gli anziani del villaggio come garanti dei detenuti.
Le difficoltà in cui si trovano i talebani preoccupano non poco i paesi circostanti e le grandi potenze sulla reale capacità nel gestire la sicurezza transfrontaliera. La Russia e l’Iran temono un rinforzamento dell’IS- KP e la Cina guarda con preoccupazione ai combattenti Uiguri. Il Pakistan non si è risparmiato bombardando territori afghani che ospitano i membri del TTP storicamente vicini ai talebani. Nonostante la mediazione del governo de facto le ostilità non sono cessate. Gli oppositori del regime cercano d’internazionalizzare il conflitto effettuando attacchi in Uzbekistan e Tagikistan, mentre l’India si è impegnata in una cooperazione militare per evitare la diffusione di armi e combattenti dal Kashmir.
Nonostante le diffidenze, la comunità internazionale è costretta a convivere con gli studenti coranici. L’egemonia talebana è di lungo corso, hanno gestito il paese sin dagli anni ’90 ed è lunga la lista di nemici coi quali sono costretti a fare i conti. E’ dal loro ingresso negli equilibri afghani nel 1994 che le due anime di fede islamica salafita e deobandi alternano momenti di alleanza e guerra nel nome delle differenze religiose nella casa dell’Islam. I talebani, difatti, hanno goduto del supporto salafita durante l’occupazione Usa e sovietica. Negli anni ’90 molti salafiti cominciarono ad abitare le terre orientali dell’Afghanistan con il supporto dell’Arabia Saudita, fondando lo Stato Islamico Rivoluzionario dell’Afghanistan nelle province del Nuristan, Kunar e Badakhshah. Sostennero i deobandi, ma quando questi andarono al potere nel 1996 cominciarono a mettere in atto politiche repressive nei loro confronti. I talebani appartengono alla scuola giuridica Hanafita, largamente diffusa in oriente e di dottrina deobandi. Invece il Salafismo, oggi corposamente presente nelle file dell’Isis, nasce dalla scuola del teologo egiziano Sayyid Qutb. L’Isis si insidia in Afghanistan nel 2014 inviando propri membri nel gruppo dei talebani pachistani del TTP di fede salafita. I successi militari ottenuti in Siria e in Iraq nel 2014 hanno spinto i membri del TTP a legarsi ai destini dell’Isis fondando l’Isis-K nella provincia del Khorasan. In questa regione si sono assistiti agli scontri con i talebani sin dal 2018, peggiorati, poi, con il loro ritorno al potere. Nel 2022 il governo de facto ha dichiarato illegale questo gruppo ed ha intrapreso numerose campagne repressive con esecuzioni ed arresti arbitrari. Nonostante i numerosi attacchi repentini che hanno seriamente messo in difficoltà l’Emirato, seppur con minore intensità d’impatto, ad oggi i talebani sono riusciti ad abbassare il livello di violenze nella regione. Ma, nonostante questo, persistono gli attacchi contro civili spesso di fede sciita, destando gravi preoccupazioni e causando centinaia di morti.
Altro fronte caldo è quello con la popolazione hazara. Contemporaneamente vittime di violenze talebane e dell’Isis-K, gli hazara sono storicamente perseguitati ed appartengono alla fede sciita. Nel 2021 e nel 2022 l’Isis-K ha compiuto attacchi alle loro moschee, come alla scuola di Sayed Shuhada che ha ucciso nel maggio del 2021 ottantacinque studentesse fra gli undici e i diciassette anni. I talebani hanno alzato il clima di odio on line e nominato propri funzionari pashtun nei loro territori al centro del paese nella regione Hazaristan. Inoltre, hanno imposto tasse contrarie ai loro principi religiosi, eseguito sfratti forzati e ulteriori molteplici discriminazioni sui diritti economici e culturali. Molti sono stati torturati e giustiziati arbitrariamente. Le violenze verso questa popolazione, una volta florida e ricca, da parte dell’Isis-K e dai talebani sono sistemiche ed organizzate politicamente, prefigurandone un crimine internazionale contro l’umanità. L’odio verso gli hazara è secolare, ma è particolarmente peggiorato con l’arrivo dei Pashstun. Ricordiamo la distruzione delle statue millenarie dei Buddha, patrimonio Unesco, nel 2001 a Bamiyan ad opera dei talebani. Furono loro a costringere gli hazara a perforare le statue per poi farle saltare in aria. Dopo l’esplosione, poi, giustiziarono 20 di loro e vietarono la sepoltura dei corpi per tre giorni. Gli hazara mantengono ancora oggi una cultura diversa verso le donne. La loro interpretazione religiosa del Corano consente loro di portare solo il velo, di poter studiare ed essere protagoniste nella società. Oggi sono stimati al di sotto del 22% della popolazione, ma sino al Regno pashstun di Rahman cominciato nel 1880 rappresentavano oltre il 60%. I pashstun di fede sunnita li spodestarono dalle loro posizioni di potere e li privarono del bestiame, costringendoli ad emigrare nelle terre meno ospitali di Bamiyan. Fino agli anni ’70 gli insegnanti pashtun predicavano e promettevano l’accesso al paradiso con l’uccisione degli hazara e le violenze sono continuate con la “pashstunizzazione” talebana.
Nelle province del nord del Panshir, Banghlan, Parwan e Kapisa, invece, i talebani devono contenere e fronteggiare l’NRF (National resistance front) guidato dal Tagikistan da Ahmad Massoud, figlio del comandante mujaheddin Ahmad Shah. Le loro tecniche militari sono simili all’Isis-K: compiere attacchi veloci alle unità talebane, per poi nascondersi nelle montagne. Di rado uccidono direttamente funzionari e, in alcune circostanze, usano esplosivi rudimentali. In risposta, i talebani applicano il solito metodo repressivo, imponendo limiti agli spostamenti notturni, danneggiando i contadini nella gestione dell’irrigazione dei campi e del movimento di bestiame. Il National resistance front accoglie gruppi armati più piccoli del nord sotto la propria bandiera, accomunati dalla rivolta al governo de facto. Non dispongono di sufficienti forze militari per fronteggiare i rinforzi talebani che tendono, anzi, ad evitare. La leadership, poi, è fuori dal paese e questo non consente un coordinamento tattico efficace e per di più i vari capi spesso agiscono autonomamente. Cercano di attirare le simpatie internazionali con una retorica basata sulla difesa della libertà e dell’autodeterminazione e alimentando i timori sulla sicurezza internazionale, mentre al suo interno fanno leva sulla difesa dei Tagiki, lamentando la monopolizzazione della etnia pashtun e rivendicando maggiore autonomia da Kabul. Nel paese mantengono un legame politico con l’Alto consiglio della resistenza nazionale, un gruppo nato nel maggio del 2022 composto da leader di fazioni presenti dagli anni ’80 e che rivendicano la liberazione dai talebani. Si tratta perlopiù di ex membri della Repubblica nata dopo il 2001, ma non hanno mai rivendicato azioni armate. L’NRF e l’Alto consiglio hanno più volte espresso l’intento di unire le forze, ma sino ad oggi continuano ad agire separati.
A questi andrebbero ricordati altri gruppi più disparati, ex membri delle forze di sicurezza afghane, che hanno dichiarato guerra ai talebani da dieci anni. Tuttavia, la realtà sulle capacità offensive e sul reale dispiegamento sul territorio vengono ingigantite dalla propaganda. Non si sono mai fondati in unici gruppi coordinati e spesso si contendono le risorse locali. Più organizzati sono, invece, i combattenti dell’Afghanistan freedom front dell’ex capo di stato maggiore, il generale Yasinzia e il Movimento islamico nazionale e di liberazione dell’Afghanistan, composto dal personale delle ex forze di sicurezza di etnia pashstun. Insieme hanno rivendicato dozzine di attacchi nelle aree meridionali del paese dall’inizio del 2022.
Tuttavia i talebani ricevono supporto da altri gruppi armati, in particolare stranieri. Mostrano particolare affinità alla logica talebana, anche se sino ad oggi non hanno rivendicato azioni sul campo. Questi includono il già citato Taliban Pakistan (TTP), con migliaia di combattenti presenti in Afghanistan e in Pakistan, il Movimento islamico dell’Uzbekistan, storicamente fedeli, e i combattenti Uiguri. Seppure oggi sono considerati un fronte pro-taliban e li aiutino nel gestire situazioni di sicurezza nelle aree dove sono più popolari, un giorno potrebbero voltare le spalle e costituire una minaccia per la loro stabilità. Infatti, oggi godono in Afghanistan di una maggiore libertà e i talebani credono di poterne gestire le implicazioni di sicurezza, ma se un giorno fossero costretti a reprimerli aumenterebbe anche il rischio di defezioni tra le loro fila. Una qualunque forma di violenza nei loro confronti farebbe innescare cicli di proteste popolari in un paese sottosviluppato e nella costante minaccia militare.
Una unione di tutti i gruppi in lotta agli studenti coranici rimane molto improbabile a causa degli scontri fra le leadership e per la contesa delle risorse. Anche con uno scenario simile e con il supporto esterno difficilmente una guerra civile comporterebbe la caduta di Kabul. L’Afghanistan rimane, quindi, un porto sicuro per i diversi nuclei jihadisti fra cui Al-Qaeda e l’ospitalità di tutti questi movimenti armati mettono in allarme la stabilità regionale. Nonostante i talebani abbiano garantito il relativo controllo delle sacche di violenza e costretto tutti ad un ridimensionamento degli attacchi, i già numerosi attentati del TTP e i conseguenti bombardamenti pachistani sbugiardano gli studenti coranici sulle ricadute internazionali. Smuovere gli attuali equilibri interni non conviene a nessuno. Ad oggi non vi sono prove di finanziamenti esterni e guerre di procura: statunitensi, britannici ed europei hanno manifestato riluttanza a finanziare l’opposizione. L’innesco della minaccia sociale comporterebbe conseguenze devastanti e un aumento delle violenze spingerebbe i talebani ad allinearsi agli jihadisti transnazionali. A fronte di tutti questi rischi per ora le potenze mondiali hanno deciso di tenere bassa la tensione e le attenzioni su Kabul.