L’amicizia «senza limiti» tra Cina e Russia a (quasi) un anno dalla «crisi ucraina»
Contrariamente a una certa vulgata, la Cina e la Russia non sono alleate. Come argomentato da David Rennie, “Beijing bureau chief” per The Economist, una condizione di alleanza dovrebbe infatti implicare il possibile intervento militare di un alleato al fianco dell’altro – vedasi il pur complesso e famigerato Articolo 5 della NATO – e «China doesn’t want to be committed to having to come to someone’s aid if they do something rush». Del resto, lo scorso luglio l’allora ambasciatore cinese negli Stati Uniti – attualmente Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare – Qin Gang aveva tenuto a ribadire come «China-Russia relationship is not an alliance, is not for confrontation, is not targeting any third party», suggerendo agli interlocutori occidentali di rileggere con attenzione e nella sua interezza la dichiarazione congiunta sino-russa rilasciata poche settimane prima dell’invasione russa dell’Ucraina, dalla quale deriva l’espressione «senza limiti» riferita all’intesa tra orso e dragone. Risulta particolarmente interessante, allora, soffermarsi brevemente su alcuni sviluppi che hanno segnato il binomio in questione da un anno a questa parte.
Dalle olimpiadi alla guerra
Partiamo dall’inizio. Considerata la presenza di Putin al fianco di Xi in occasione della cerimonia di apertura dei Giochi olimpici invernali di Pechino – il 4 febbraio 2022, venti giorni prima dell’invasione – è lecito domandarsi se il presidente cinese fosse stato più o meno esplicitamente informato sull’imminente “operazione militare speciale” dall’omologo russo. Qualora ciò fosse accaduto, non si comprenderebbe, forse, perché i cittadini cinesi presenti in Ucraina siano stati invitati a lasciare il paese solo a seguito dell’inizio del conflitto: per converso, stando a un articolo del Guardian nazioni come il Regno Unito o il Canada avvisarono i propri cittadini «almost two weeks before Russia acted». I successivi interventi dell’ambasciata cinese sembrarono poi tradire una certa sorpresa, con la trasmissione di indicazioni contraddittorie: se in un primo momento, per esempio, si era suggerito ai connazionali di esibire la bandiera della Repubblica Popolare sui propri veicoli, già il giorno successivo si ebbe un dietro-front con la raccomandazione di non mostrare simboli identificativi.
Sui social cinesi
Negli stessi momenti, sui social cinesi – in particolare su Douyin, la versione originale cinese di TikTok – impazzavano contenuti aventi come comun denominatore l’esaltazione della figura di Putin, definito dagli utenti (come riportato da un articolo di Foreign Policy Magazine) “handsome daddy”, “older brother” o, ancora, “Prince Charming or male god” (!!). Simili dimostrazioni di ammirazione si accompagnavano spesso a immagini – più o meno reali – assai familiari anche in Italia quali il Putin cavalcante un orso a torso nudo o impegnato a suonare il pianoforte o portare fiori. Il medesimo articolo sottolinea inoltre come «China has also long had a history of admiration for Russian dictators»: ciò risalirebbe ai tempi di Stalin, che fu in effetti il più importante sostenitore esterno del Partito Comunista Cinese, tanto che Mao etichettò come “revisionismo” il processo di destalinizzazione promosso da Chruščëv.
Sebbene, dunque, una parte consistente del pubblico cinese pare subire gli effetti della propaganda russa – con la probabile complicità del governo della Repubblica Popolare, in un «attempt to trigger anti-Western sentiments» – una parte non trascurabile ha rivolto la propria attenzione ai messaggi di Jixian Wang, residente a Odessa e dunque testimone diretto dell’aggressione russa, che si è impegnato a raccontare sui social cinesi quanto stava realmente accadendo, divenendo presto oggetto di censura.
Le ombre
Quando, tuttavia, a fine settembre il governo russo procedette con l’annessione unilaterale degli oblast di Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, il Portavoce del Ministro degli Esteri cinese Wang Wenbin ribadì come «we believe that all countries deserve respect for their sovereignty and territorial integrity, that the purposes and principles of the UN Charter should be observed, that the legitimate security concerns of any country should be taken seriously». Come notato dal già ricordato Rennie, complici le offese alla propria sovranità territoriale occorse per mano straniera durante il “secolo dell’umiliazione”, la Cina rimane tutt’oggi assai sensibile al tema dell’imperialismo e della connaturata espansione territoriale a scapito di stati sovrani. Il tema dei referendum a favore della Russia emerse peraltro a breve distanza dall’incontro di Samarcanda tra Putin e Xi: non è chiaro se, in quella sede, il leader cinese abbia voluto lanciare più o meno forti messaggi allo “Zar” sulla condotta della guerra, ma è indicativo il fatto che numerosi osservatori abbiano colto in tale occasione un atteggiamento quanto meno remissivo del presidente russo; per citare un solo esempio, così Al Jazeera ha intitolato il pezzo relativo al meeting: «‘Hat in hand’: Putin meets Xi for first time since Ukraine war».
Un’ulteriore ragione per la quale la leadership cinese non dovrebbe essere particolarmente ben disposta nei confronti dell’aggressione russa è che essa è andata a intaccare in maniera significativa l’impianto della Belt and Road Initiative – nota in Italia come “Nuova via della seta” – guastando «China’s plans to expand trade and fortify transportation ties with Central and Eastern Europe» e rendendo necessaria l’individuazione di percorsi alternativi.
Se ad oggi – per quanto è possibile cogliere – la Cina di Xi ha dovuto incassare diversi colpi, pare che la vicinanza alla Russia, necessaria in chiave anti-statunitense, abbia finora prevalso: è lecito domandarsi, senza cedere a comprensibili ma forse futili illusioni, quale piega prenderà questa ambigua “amicizia” nel prossimo futuro.