cina contro taiwan

Cina contro Taiwan: una guerra economica

Il grande dragone contro l’orso in uno scontro che può cambiare inevitabilmente l’assetto economico globale

Mentre in Europa si continua a discutere -nel dibattito politico e popolare- riguardo la guerra in Israele e l’attacco russo ai danni dell’Ucraina, nella parte orientale del globo, storicamente visti come paesi non allineati o stati altamente influenzati dalle grandi potenze dell’epoca quindi altamente polarizzati, si sta consumando una battaglia fatta a colpi di missili e intimidazioni. Dalla divisione delle “2 Cine” nel 1950, la People’s Republic of China (PRC), ovvero la Repubblica Popolare cinese e l’altra Cina, quella formalmente riconosciuta da 13 stati, ovvero la Republic of China (ROC), la Repubblica di Cina, conosciuta come stato di Taiwan, dove il governo democraticamente eletto, dal 1949 amministra l’isola di Formosa.

Nella geopolitica mondiale, l’indipendenza dello stato di Taiwan è fondamentale nello schema del libero scambio occidentale e soprattutto nel mercato tech statunitense: clienti come Apple, Qualcomm, AMD e Nvidia-. I ricavi di Nvidia negli ultimi 12 mesi sono stati di 22,1 miliardi di dollari, con un aumento del 265% rispetto all’anno precedente. Il giro d’affari dell’intero anno fiscale è stato di 60,9 miliardi di dollari, con un enorme rialzo del 126% sul 2022-23. Uno dei più grandi clienti di Taiwan (tutti i maggiori partners di TSMC, la fabbrica di semiconduttori più grande al mondo. La quota di mercato di TSMC riguardo i semiconduttori è del 53% e il concorrente più vicino, Samsung, detiene solo il 16%) il secondo produttore del mondo, la United Microelectronics Corporation (UMC), dista solamente quindici minuti a piedi dalla sede di TSMC, dato che sono entrambi situati nel polo tecnologico dell’Hsinchu Science Park.

Il 21 marzo 2023, un totale di 32 aerei e 5 navi da guerra dell’Esercito popolare di liberazione cinese sono entrati in prossimità di acque taiwanesi. In particolare, 20 jet hanno attraversato la linea mediana dello Stretto di Taiwan e sono entrati nella zona di difesa aerea di sudovest, sudest e orientale dell’isola. Una mobilitazione sempre crescente negli ultimi anni, che desta la preoccupazione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, per una possibile presa dell’isola da parte dei vicini cinesi e malauguratamente una guerra ibrida nel sud-est asiatico, che farebbe crollare, secondo varie analisi sulla produzione di semiconduttori taiwanesi, l’intera economia di mercato globale.

LA POSSIBILE ESCALATION REGIONALE E CROLLO GLOBALE

Nel discorso di fine anno, il presidente cinese Xi Jinping ha preannunciato le varie tappe da percorrere riguardo la politica interna: dalla crescita del PIL alla implementazione del lavoro under 30 in Cina. Ma, nel fulcro del suo discorso, come riporta l’agenzia cinese Xinhua, il presidente cinese si appellava alla Nazione parlando della riunificazione di Taiwan: “tutti i cinesi su entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan, ad essere legati da un obiettivo comune e condividere la gloria del rinnovamento della nazione cinese”. Un discorso che rappresenta il culmine della formula geopolitica cinese nei confronti di Taiwan, una formula fondata sulla retorica nazionalista e suprematista culminato, in una frase che può racchiudere l’intera operazione politica cinese: “la riunificazione con Taiwan è una inevitabilità storica”. Un obiettivo- la ripresa, o meglio la riunificazione con Taiwan- che l’amministrazione cinese si è preposta di conseguire entro il 2049 il centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese oppure, anche se meno probabile, entro il 2032, ovvero presumibilmente l’ultimo mandato presidenziale di Xi Jinping. Un obiettivo che lo stato cinese insegue dagli anni ‘70 e rafforzando la retorica di “una e una sola Cina”, mantenendo ai fini propagandistici l’isola di Formosa come area de facto cinese, un metodo non isolato in quanto usato da Putin con la Crimea. Sintomi quindi, di una guerra ibrida, fondata anche sulla lotta culturale intrapresa da Taiwan, sull’abbandono delle tradizioni culturali cinesi “assimilando” quelle giapponesi, in quanto-i giapponesi- sono stati il maggior partner a partire dal 1950, portando cultura, usanza e innovazioni tecnologiche. Durante l’ultimo anno, attorno allo stretto di Taiwan, un lembo di terra che dista solamente 180 chilometri dalle coste cinesi, si sono moltiplicate le presenze dell’aeronautica cinese, insieme ad un quantitativo di 11 missili Dongfeng lanciati solamente nel 2022, presenti in acque taiwanesi accompagnati da uno stormo di jet militari che hanno superato la linea mediana al confine verso Taiwan. Un atto, quello cinese, compiuto contemporaneamente alla visita dello speaker della camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi. Il governo giapponese è stato il primo a difendere Taiwan e attaccare direttamente Pechino “Le azioni della Cina questa volta hanno un grave impatto sulla pace e sulla stabilità regionale”, anche l’amministrazione statunitense dove il portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato: “la Cina è irresponsabile e ha avuto una reazione eccessiva alla visita della Pelosi”.

Una presenza, quella cinese, che è sempre più marcata e aggressiva, anche in campo economico: Taiwan formalmente è riconosciuto da soli 13 stati come Honduras, Eswatini Haiti e Guatemala, incluso lo stato pontificio ma tra questi stati dunque non sono presenti gli Stati Uniti, per via della liberalizzazione intrapresa negli anni 70’ da Deng Xiao Ping, che ha vietato agli USA gli scambi con l’ isola bella, stati dell’Unione Europea o qualunque forma di democrazia liberale o simil liberale mondiale. Il perché è scontato e rientra nella sfera della politica estera cinese: ogni stato che riconoscerà de facto lo stato di Taiwan, non potrà intraprendere relazioni economiche con la Cina. Una mossa che ha aggravato lo status di Taiwan come attore orientale essendo riconosciuta da pochi stati, ma ad oggi ci sono 58 stati (incluso il Somaliland) che intrattengono rapporti ufficiosi con Taiwan, come gli Stati Uniti. Un riconoscimento “parziale”, quello degli USA, dettato dalla politica anti-Taiwan cinese. Ma pur con tutti i vincoli, gli Stati Uniti intrattengono grandi rapporti commerciali-10% di scambi, rispetto al 26% di scambi totali con la Cina- con Taiwan. Taiwan ha inoltre due porti tra i più grandi del mondo, Kao-hsiung e Taipei. Gli operatori taiwanesi di navi, Evergreen, Yang Ming Marine e Wan Hai, controllano oltre il 10% della capacità globale di container, per far fronte ad una possibile presa o attacco dei porti commerciali da parte della Cina, che minerebbero l’ economia di Taiwan- secondo Bloomberg business e FMI, una “Taiwan Blockade”, “blocco di Taiwan” ovvero uno stop al transito delle merci Taiwanesi, potrebbe portare una riduzione del 5% del PIL globale, quasi quanto quantificato dalla crisi finanziaria del 2008. A fine 2021, TSMC ha annunciato la costruzione di un nuovo impianto nella città di Phoenix, Arizona, (delocalizzando le varie giga-factory sul terreno statunitense) che costerà 12 miliardi di dollari e non entrerà in produzione fino al 2024, complessivamente, TSMC intende investire 100 miliardi di dollari in tre anni per espandere la propria capacità anche al di fuori del territorio taiwanese.

La questione del rimbalzo economico non si avrebbe solamente negli Stati Uniti o nel continente asiatico, ma anche in Europa:  il mercato tecnologico di Taiwan include i principali produttori mondiali di componenti per auto e veicoli come Cina, Stati Uniti, Giappone (2,6%) o Germania (4,5%), ma anche economie per le quali la produzione automobilistica rappresenta una quota importante del PIL, come nel caso di Slovacchia (5%), Repubblica Ceca (4,9%) e Ungheria (4,6%) .Durante la carenza di semiconduttori del 2021, la produzione media europea di autovetture è diminuita di circa il 13%, con la produzione tedesca che è crollata di quasi il 20% e la produzione italiana di oltre il 25%. Sebbene questa carenza sia stata grave, l’impatto di un blocco commerciale di Taiwan potrebbe costringere le aziende dell’isola a rinunciare ad un quantitativo di 1.6 trilioni di dollari. Oltre ad una caduta del mercato taiwanese, Pechino potrebbe vedere cadere grandi economie a lei legate dal filo dell’economia di scambio.

Dato il ruolo cruciale della Cina nelle catene del valore regionali, le interruzioni commerciali derivanti da un conflitto avrebbero anche un impatto diretto sui partner commerciali della Cina nell’Asia-Pacifico. Ad esempio, oltre il 14% del valore delle esportazioni del Vietnam riflette le importazioni di beni intermedi dalla Cina, il numero è altrettanto alto per la Cambogia (13%), Hong Kong (9%) e il Messico (7%). I ritardi nelle spedizioni di beni intermedi chiave dalla Cina potrebbero causare rapidamente rallentamenti della produzione e perdite di entrate. Oltre ai rapporti commerciali nell’area sino-asiatica una caduta della supply chain cinese avrebbe ripercussioni anche in altre zone del mondo, tra i grandissimi campi dell’esportazione cinese, la Cina registra una quantità considerevole di equipaggiamenti nell’ambito minerario nelle regioni minerario-dipendenti: il Tagikistan importa il 68% di componenti per l’estrazione mineraria dalla Cina, il Sudan del sud 66% e la Mongolia 51%. Altrettanto importanti le esportazioni cinesi di equipaggiamento per l’agricoltura riguardante aree in via di sviluppo: Niger (80%), Burkina Faso (79%) e Togo (76%) ove la Cina esporta una quantità enorme di macchinari per l’agricoltura. La caduta della Cina è collegata ad un crollo dell’ economia non solo asiatico, ma anche dunque nei paesi della fascia del Sahel e interno-asiatici, una crisi che potrebbe gravare non solo sull’ economia degli stati dipendenti da essa, ma anche direttamente, su un crollo proporzionale degli import dalla Cina e dunque un crollo della produzione di beni interni alla nazione, la popolazione dei suddetti paesi potrebbe risentirne in maniera incommensurabile, tenuto conto che i paesi dipendenti dalla Cina, essendo stati poveri e socialmente disgiunti, crollerebbero in crisi umanitarie regionali catastrofiche.

LE IMPLICAZIONI GEOPOLITICHE E GLI ALLEATI DI TAIWAN

 Nella politica cinese per salvaguardare gli interessi nello stretto ed escludere gli effetti della Taiwan Blockade, la marina cinese ha iniziato a costruire un nuovo corso del fiume Mekong, lungo 180 chilometri, per collegare Phnom Penh ad un porto che sfocia direttamente nel golfo di Thailandia, collegando potenzialmente Cambogia, Vietnam e Laos. Tutto questo progettato parallelamente alla costruzione, appena a fianco dell’ imbocco sul Mekong la base della marina militare cinese di Ream per far sì che la Cina si possa proiettare direttamente sull’ oceano indiano e bypassando lo stretto di Malacca, che separa l’isola indonesiana di Sumatra dalla costa occidentale della penisola malese lungo 800 km, attualmente controllato dagli Stati Uniti, quindi battendo il nemico Yankee aggirandolo, deviando la supply chain secondo il volere cinese e arginare il problema. Proprio riguardo il contesto regionale, il Giappone inizia a blindare l’alleanza con Taipei. Ad aprile 2021, il premier giapponese Suga Yoshihide, insieme all’ amministrazione statunitense hanno annununciato quanto sia cruciale un pacifico svolgimento delle relazioni diplomatiche Pechino-Taipei, ribadendolo al G7, immettendo nel discorso l’importanza dello stretto di Taiwan, e anche di far entrare lo stato di Taiwan nell’ Organizzazione mondiale della sanità, così da far innalzare la figura esile di Formosa. Recentemente, i ministri giapponesi Kishi Nobuo e Aso Taro, rispettivamente ministro della difesa e viceministro delle finanze, nonché vicepremier, hanno annunciato la difesa di Taipei se la Cina dovesse intervenire militarmente direttamente in territorio taiwanese. I rapporti Giappone-Taiwan sono da sempre stati sempre coesi e intrecciati tra loro, tanto da essere soggetti (i taiwanesi) a cattura da parte dei giapponesi nel 1895. Il Giappone ha influito nella creazione della cultura taiwanese: un grande apprezzamento verso i bar-karaoke, la cultura manga, il basket. l’influenza che ebbe il Giappone fu tale che in un sondaggio di Central News Agency del 2019, il 60% dei taiwanesi intervistati riteneva la terra del Sol Levante il miglior paese del mondo e per il National Chengchi University, solamente il 2,7% della popolazione si “sente” appartenente all’ etnia cinese.

Passando oltre le implicazioni storiche-culturali, Tokyo ha posto gli occhi su Taiwan per vari motivi che attraversano la sicurezza stessa del Giappone, e non di meno, intaccherebbe pesantemente l’economia e l’industria nipponica. La logistica, le vie di comunicazione sono la chiave del commercio giapponese, la maggior parte dell’export passa per lo stretto di Taiwan, il Mar Cinese Meridionale ed Orientale. Se la Cina attaccasse l’isola e dunque espandesse-come sta facendo attualmente- l’area del mare appartenente allo stato Cinese, bloccherebbe la catena di approvvigionamento giapponese, indurrebbe Tokyo e le altri grandi economie orientali a piegarsi ai voleri del grande stato cinese riunificato, piegandosi al volere non più della nazione stessa ma della Cina. In ambito economico, visto che TSMC fornisce al Giappone la gran parte dei microprocessori per produrre i propri prodotti: domotica, aviazione, hardware i prodotti di picco dell’economia nipponica verrebbero meno in caso di blocco di Taiwan, essendo il Giappone, anche socialmente, dipendente dalle forme moderne di tecnologia, il quale intaccherebbe a cascata il mantello sociale mettendolo in crisi. Una alleanza con gli Stati Uniti è stata dunque quasi naturale, ampliando l’armamento bellico giapponese-attirando un sacco di critiche e perplessità a riguardo, dal momento che che secondo l’articolo 9 della costituzione giapponese vieti categoricamente il riarmo a fini bellici-con armamenti a lungo raggio americani, sviluppando insieme a Mitsubishi nuovi aerei da combattimento derivati dall’ F-35 americano, mettendosi in proprio.

Un altro paese è legato agli interessi non di Taiwan, almeno direttamente, come il Giappone (ma a quelli della Cina e dell’occidente), è il paese dei canguri, l’Australia. Il paese membro dell’Aukus (Australia, United Kingdom, United States), è stato il primo paese “anti cinese”. Bandì per primo il 5G cinese e Huawei, iniziò la prima inchiesta rispetto alla nascita e alla gestione del Coronavirus in Cina e si è battuta fortemente contro il governo cinese e quello di Hong Kong riguardo la situazione della libertà di stampa, i diritti civili calpestati degli Uiguri, universitari e giornalisti hongkonghesi. Una scelta di inimicarsi il colosso cinese e di stringere rapporti ancora più complicati con gli Stati Uniti dettata da esigenze tattiche: l’Australia è una dei più grandi commercianti di uranio al mondo, ed ha a disposizione il più grande bacino di uranio del mondo, altamente commerciato sia con la Cina sia con gli USA. La popolazione australiana conta poco più di 25 milioni di persone tutte ammassate sulle coste di nord-ovest, dunque per l’Australia è cruciale dipendere-rispetto al Giappone-da una grande talassocrazia come gli Stati Uniti. In ambito militare l’Australia contribuisce in modo ferreo per contenere l’ avanzata cinese: dopo l’ installazione da parte di Pechino di missili balistici nelle isole(artificiali) adiacenti Paracell e Spartly, che hanno una gittata tale da colpire l’ Australia, grazie alla cooperazione con Giappone, India(amico/nemico della Cina) e gli immancabili Stati Uniti, hanno delimitato una zona militarizzata, un triangolo che tocca Canberra, Tonga, e Papua Nuova Guinea, detta Quad. Secondo il governo di Pechino la zona Quad, istituita solamente in senso anticinese, per delimitare il traffico marittimo cinese-dunque l’espansione- nell’ area a forte influenza americana. La Cina ha contestato negativamente la svolta che ha avuto il governo di Canberra, tanto da suscitare l’ira dei funzionari del governo cinese: “La Cina è arrabbiata. Se fai della Cina tuo nemico, la Cina sarà tuo nemico”, esordì così un rappresentante del partito al Sidney Morning Herald.

Una tensione costruita tra luci ed ombre. Identità e difesa le parole d’ ordine: difesa del mercato libero occidentale e identità cinese sfumata grazie alle pretese nazionaliste. Ogni anno che passa le tensioni si inaspriscono, creando nuove opportunità di scontro eliminando quella parola che tanto sta sulla bocca dei grandi burocrati: Pace.

FRANCESCO FERRAZZO

Bibliografia

China and Taiwan: A really simple guide (bbc.com)

China-Taiwan conflict: What you need to know | CNN

The Global Economic Disruptions from a Taiwan Conflict – Rhodium Group (rhg.com)

Why Beijing Is Reluctant to Use Economic Leverage on Taiwan (foreignpolicy.com)

Relying on old enemies: The challenge of Taiwan’s economic ties to China – Atlantic Council

Sanctioning China in a Taiwan crisis: Scenarios and risks – (atlanticcouncil.org)

Taiwan’s China dependency is a double-edged sword (eastasiaforum.org)

China’s Options for Punishing Taiwan Economically are Limited – The New York Times (nytimes.com)

Taiwan, l’anti-Cina – Limes (limesonline.com)

Chip War – Garzanti

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