In Turchia il clientelismo è ormai una pratica intrinseca al sistema politico del Paese, e l’AKP sembra esserne il maggior beneficiario: l’ampio patronage di Erdoğan ha ormai fortissimi legami con la società civile, dal mondo dell’imprenditoria fino alle fondazioni benefiche.
Sono trascorsi quasi vent’anni dal primo trionfo elettorale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) in Turchia. Era il 2002, e un Paese duramente colpito dalle catastrofiche crisi economiche del 1994, 2000 e 2001, si dimostrava finalmente pronto a intraprendere un nuovo percorso di crescita e progresso sotto la guida del neofondato partito di Recep Tayyip Erdoğan.
Da allora la leadership non è più cambiata, pur mutando la propria traiettoria politica tanto a livello domestico quanto sul piano internazionale. Il dibattito sulle origini del successo elettorale riscosso dall’AKP negli ultimi due decenni è quantomai spinoso. Se da un lato va riconosciuta l’abilità del partito dominante di intercettare i bisogni della popolazione residente nelle periferie dell’Anatolia, nonché di sfruttare a proprio vantaggio una narrativa populista, islamista e di matrice neo-ottomana, dall’altro non si può certo affermare che le elezioni, specie negli ultimi anni, si siano svolte in un contesto pienamente democratico. Il think-tank Freedom House è piuttosto chiaro nell’evidenziare il netto peggioramento del Paese, a partire dal 2016 (ossia dal tentato golpe ai danni di Erdoğan) fino ad oggi, in termini di diritti politici e libertà civili.
“Comprare” i voti: si può
Un fattore da non trascurare, poiché alla base di una parte considerevole del supporto popolare riscosso dall’AKP, sono le pratiche clientelari attuate da quest’ultimo. È soprattutto nelle zone periferiche di grandi metropoli come Istanbul e Ankara che il fenomeno della “compravendita” di voti tra elettori e politici si verifica più di frequente. Anche se è prassi comune tra tutti i partiti provare a ottenere consenso elettorale in cambio dell’elargizione di benefici materiali, è logicamente il Partito della Giustizia e dello Sviluppo quello che riscuote maggior successo, grazie alla superiore capacità di mobilitare le risorse pubbliche e al più elevato grado di controllo sulle amministrazioni locali.
Le forme di assistenza sociale più comuni consistono tuttora nella fornitura, spesso tramite organizzazioni benefiche legate all’AKP e radicate sul territorio, di carbone per il riscaldamento e derrate alimentari. Le testimonianze raccolte dagli abitanti di Pinar (un quartiere a nord di Istanbul) nel 2019 aiutano a ricostruire una scena altrimenti difficile da figurarsi: quella di innumerevoli sacche di antracite, depositate dai volontari sull’uscio delle abitazioni del distretto, e marchiate con il logo dell’AKP, come a rivendicare: “per nostra gentile concessione”.
L’importanza delle reti sociali
Un altro vantaggio di cui gode l’AKP rispetto alla maggior parte degli altri partiti è l’esistenza di reti sociali estese e radicate sul territorio, specie nei contesti delle periferie urbane, stabilite negli anni Novanta dal Partito della Virtù (FP) – di stampo islamista e conservatore –, precursore del moderno Partito della Giustizia e dello Sviluppo.
Quest’ultimo, grazie ai network ereditati dal FP, riesce infatti ad avere un contatto più diretto e capillare con la popolazione, nonché a intercettare meglio i bisogni reali della stessa. I network sono composti da attivisti e “mediatori” (nel gergo «brokers»), volontari e non, che agiscono a livello locale e sfruttano le proprie reti di contatti per creare rapporti clientelari, specialmente con i ceti meno abbienti – in genere più sensibili alla prospettiva di ottenere benefici economici in cambio del proprio voto.
Il patronage di Erdoğan: tra fondazioni e colossi dell’edilizia
Non è di soli attivisti e volontari che la cerchia clientelare di Erdogan si compone. Anzi. Se i primi contatti con l’elettorato avvengono a livello locale, va sottolineato come i “servizi” veri e propri offerti dall’AKP alla popolazione siano recapitati tramite una serie di organizzazioni e istituzioni pubbliche e private in stretti rapporti con il partito.
Il primo caso è quello delle fondazioni, che costituiscono per l’AKP un vero e proprio strumento di proiezione di soft power all’interno della società turca. Si tratta perlopiù di organizzazioni culturali che offrono borse di studio agli studenti, organizzano eventi sportivi o tengono corsi educativi e di formazione di varia natura. Alcune di queste sono strettamente controllate dal governo, anche tramite legami familiari diretti con il capo di Stato, Recep Tayyip Erdoğan. Due esempi lampanti sono forniti da alcune associazioni di spicco come Türgev e la fondazione Okçular (Okçular Vakfi), tra i cui vertici figurano rispettivamente Esra Albayrak e Bilal Erdoğan, figli dell’attuale presidente.
Il secondo caso è quello dei cinque celebri colossi dell’edilizia Kolin, Kalyon, Makyol, Limak e Cengiz, cui il governo da anni appalta svariate opere pubbliche senza possibilità per altre compagnie di concorrere. L’edilizia sociale è sempre stata uno dei cavalli di battaglia dell’AKP in ottica elettorale: dal 2002 al 2017 la percentuale sul Pil del settore delle costruzioni è passata dal 4,5 al 8,6%, mentre le unità abitative realizzate dallo Stato tramite la TOKI (Mass Housing Agency) tra 2003 e 2018 sono salite a oltre 600mila, a fronte delle 40mila del periodo 1984-2002.
Per non gravare interamente sulle finanze pubbliche, i costi e le responsabilità sono trasferiti a queste cinque aziende, in cambio di agevolazioni fiscali, accesso facilitato ad altre gare d’appalto e diritti sulle rendite delle infrastrutture in Turchia e all’estero (ponti, autostrade, porti etc.).
Un problema di “cultura politica”?
Pratiche clientelari e corruzione non sono elementi tipici esclusivamente del panorama politico turco, anche se in questo caso colpiscono l’estrema vicinanza dello Stato a certe istituzioni, nonché la totale mancanza di trasparenza nei bilanci di queste ultime. Da sottolineare è anche l’elevata percentuale di individui cui vengono offerti benefici materiali in cambio del proprio voto, stimata, in uno studio condotto dal noto accademico Ali Çarkoğlu, intorno al 35%.
Sicuramente la condizione di povertà o pseudo-povertà che interessa ampie fasce di popolazione, specie nella vasta area dell’Anatolia centrale, rende più accattivante l’idea di ottenere assistenza sociale praticamente gratis. Tuttavia, la causa più profonda del successo delle pratiche clientelari dell’AKP potrebbe risiedere in una fondamentale mancanza di cultura politica e democratica. La disaffezione nei confronti del voto, l’indisponibilità a investire tempo e risorse nell’informazione, e in generale il basso livello d’istruzione, possono portare a una situazione in cui i partiti vengono giudicati più in base alla capacità di elargire favori economici che ai loro principi e al loro programma politico.
In tale contesto, si sta assistendo quindi a un completo ribaltamento del concetto di “political accountability”. Non è più l’elettore a punire, non votandolo, un certo rappresentante che non promuove politiche gradite; è il politico, piuttosto, a punire l’elettore che non lo vota, con la revoca dei tanto essenziali servizi e benefici materiali. E la deriva antidemocratica si fa sempre più evidente.