Dal 15 al 17 marzo ci saranno le elezioni presidenziali in Russia e il 16 febbraio, un mese prima delle elezioni presidenziali, è morto Aleksei Navalny, il più importante oppositore di Putin. Ho avuto il piacere di fare una chiacchierata con Orietta Moscatelli sulla condizione attuale dell’opposizione nel paese. Attualmente caporedattrice esteri dell’agenzia Askanews e analista di Limes, Moscatelli è stata corrispondente da Mosca e dalla Cecenia negli anni Novanta. Da allora si occupa di Russia e dell’area post-sovietica. Il suo ultimo libro, utilissimo per chi voglia comprendere la psicologia di questo paese, ormai incarnata nella figura di Vladimir Putin, è del 2022 e si intitola P. Putin e il putinismo in guerra.
Navalny era già sopravvissuto, nel 2020, a un tentativo di avvelenamento attribuito ai servizi segreti russi. È stato curato a Berlino, ma nel gennaio del, 2021 ha deciso comunque di tornare a Mosca, dov’è stato subito arrestato. Nel momento della sua morte si trovava ormai al terzo anno di carcere ed era da poco stato spostato in una colonia penale a Charp, in Siberia. Perché Navalny era considerato come il principale oppositore di Putin presente in Russia?
Navalny era un politico estremamente abile e molto coraggioso, lo definirei tendente all’amore per la sfida. Sulla scena russa è stato attivo circa 15 anni, durante i quali si è posto in crescente scontro con il sistema di potere del quale ha preso da subito di mira l’aspetto più odiato dai russi, atavico da secoli: la corruzione. Nel 2012 ha poi fatto un salto di qualità diventando il frontman, nonché la regia, della serie di proteste che hanno accompagnato il traumatico ritorno al potere di Putin il cui reinsediamento al Cremlino, per il terzo mandato dopo la pausa della presidenza Medvedev, è avvenuto in una Mosca blindata. Questo ha posto in essere un elemento di umiliazione che è stato molto più che sufficiente per segnare una rottura, ma soprattutto una sfida a livello personale. Tutti gli altri oppositori politici di Putin tranne Navalny, inoltre, hanno deciso di trasferirsi all’estero, rinunciando quindi a essere considerati una vera alternativa politica.
Putin aveva paura di Navalny?
La domanda, lecita, viene spesso fatta ma posta in modo errato. Putin aveva personalmente paura di Navalny? A livello di leadership, no. La vera funzione dell’azione di Navalny era il fatto di essere diventato, in modo crescente, un punto di sfogo per una carsica, contenuta ma presente richiesta di cambiamento. Nell’ottica di un sistema di potere che si è del tutto militarizzato, la richiesta di cambiamento è un virus pericolosissimo. Dopo la stagione delle proteste, nel 2013, Navalny era anche stato ammesso alla prova delle urne come sindaco di Mosca e sappiamo che in Russia, se non vogliono farti candidare, non te lo fanno fare. Mosca tra l’altro era un feudo di Navalny in quanto lui proveniva dalla cosiddetta classe creativa dei giovani moscoviti aperti al mondo, perlomeno finché era praticabile. Si trattava di figure nuove, aperte al mondo e alla tecnologia, sostanzialmente diverse rispetto alla vecchia Russia che continuava a informarsi con le tv. L’allontanamento forzato di Navalny dalla politica ufficiale è avvenuto a seguito dell’ottenimento del 27% circa dei voti, che era molto più di quel che ci si aspettava. Da cui in avanti non è c’è più stata ragione, per Putin, di temere davvero Navalny in termini di numeri. C’è un’equipollenza tra Putin e lo Stato.
Navalny era davvero popolare in Russia?
Tra i giovani molto, innanzitutto perché permetteva loro di essere tali chiedendo il cambiamento. Lo era come detto anche tra i creativi di Mosca, che però subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina sono fuggiti in massa. Era molto popolare anche presso la mediamente intellettuale che però, se all’inizio del secolo e fino alla guerra rappresentava la porzione di popolazione che viaggiava e coltivava interessi anche fuori dalla Russia, oggi si adegua sopravvivendo grazie alla speranza che tutto questo finisca molto presto. Al di fuori di questo quadro, nella provincia russa che è un concetto più sociale che geografico, tra i fruitori dei media ufficiali e sopra i 55 anni, Navalny non è mai stato popolare. L’esclusione dalla vita politica ufficiale è passata attraverso ed è proceduta parallela all’identificazione dell’opposizione come sostenitrice degli interessi occidentali, che sono sostanzialmente in contrapposizione a quelli russi. La questione della popolarità è un po’ deviante ma, se vogliamo darle una consistenza, quando Navalny divenne famoso nel 2012-2013 si parlava di un 2-4%, difficilmente misurabile ma in ogni caso poco. Due anni fa il Levada Center, un istituto demoscopico russo oggi in difficoltà, valutava presso la popolazione russa il consenso per Navalny verso il 19%, già molto rilevante.
C’è stato un argomento di forte dibattito, in Occidente, relativo alle posizioni nazionaliste di Navalny. Nel 2014, per esempio, l’annessione della Crimea ha provocato un’ulteriore spinta patriottica a cui non si è opposto praticamente nessuno lui compreso, che ha oscillato tra varie posizioni, chiedendo verifiche internazionali, poi un referendum, ma non prendendo mai una posizione di contrasto. Perché lui si poteva permettere una posizione del genere in quel momento, pur rimanendo un oppositore?
Mettiamolo in chiaro, in Russia oggi se non hai una componente nazionalista nel tuo programma non vieni assolutamente preso in considerazione. Navalny ha sempre battuto sul tasto del nazionalismo, anche il suo ritorno in patria dopo la permanenza in Germania era motivato da questa spinta. In Russia c’è un patriottismo immanente e qualsiasi politico non patriottico non avrebbe, semplicemente, diritto di cittadinanza.
Il principale mezzo di Navalny era internet e ha scelto di lasciare tutto a disposizione online, anche le testimonianze delle idee che nel corso del tempo ha cambiato. Perché?
La presenza online e il conseguente confronto con l’esterno è sempre stata la vera arma di Navalny, lasciare tutto a disposizione, poi, era un modo per lasciar traccia della sua attività politica. Nel 2010 ho avuto un appuntamento con lui quando era soltanto un avvocato anticorruzione, con posizioni già dirompenti. All’epoca c’era una Russia con un sistema politico se non pluralista, ancora con la possibilità di avere molte voci. Ricordo che pensai che quelle erano le prime denunce di corruzione ai vertici, questione che di per sé non stupisce nessuno, quello che stupiva era il fatto che venissero denunciate. Questa è stata la sua cifra fino al video del palazzo faraonico sul Mar Nero. L’inchiesta è stata fatta con un appoggio russo di altissimo livello di cui si sa poco, ma anche con un evidente aiuto esterno e farsi sponda dell’Occidente, in Russia, non viene visto di buon occhio. Entrambe le cose sono state usate contro di lui, come ora verranno usate contro Yulia Navalnaya se vorrà proseguire l’opera del marito.
Ci sono attualmente altre figure carismatiche?
Kara-Murza, che è in carcere, è un esempio. Attualmente sono quasi tutti in carcere o all’estero, ma qualcuno tornerà ad emergere. Anche il profilo di Yulia ha un certo peso, è una donna in carriera spesso ritenuta troppo ingombrante, si aveva sovente l’impressione che Navalny avesse bisogno di questa sua controparte. Certamente oggi Navalnaya può essere un’erede del marito soltanto agli occhi occidentali, col rischio concreto di diventare la first vedova dell’opposizione. Il punto principale è costante: la radioattività dell’appoggio occidentale.
C’è un famoso documentario, che vinse l’Oscar nel 2023, nel quale Navalny affermava che Putin non avrà mai il coraggio di ucciderlo. Ci credeva veramente?
Quand’è tornato a Mosca nel 2021 aveva già manifestato il rifiuto al compromesso di rimanere all’estero come un secondo Khodorkovsky, che per i russi conta tendenzialmente zero. L’esilio all’estero avrebbe significato irrilevanza politica e rifiutando questa via Navalny aveva già accettato l’eventualità della morte. Cambia poco scoprire qual è stata la vera causa, quel che è stato fatto è un omicidio politico a tappe. Averlo mandato al circolo polare artico era già la sua dichiarazione di morte. La morte fisica, anzi, è arrivata in un momento scomodo ed è un fattore di disturbo non da poco.
A Putin oggi importa l’opinione dell’Occidente?
Lo scontro con quello che il Cremlino chiama Occidente globale (USA e tutti gli alleati europei e Nato) è uno scontro totale. Nella propaganda russa tutto quel che è Occidente è ostile, destinato al fallimento, quintessenza del decadimento e quant’altro. Siamo in una fase di contrapposizione totale.
Putin è figlio della fine dell’Unione Sovietica, che ha vissuto come un grande trauma. La richiesta di un riconoscimento è da sempre un riflesso profondissimo della Russia, dai tempi degli zar e tornata in forza dagli anni ‘90. Putin ha imboccato la strada dello scontro solo quando il suo posto a tavola nella NATO non è stato trovato. Anche il ragionamento che ha portato all’invio così raffazzonato dei carrarmati in Ucraina nelle prime settimane era probabilmente basato sulla convinzione che gli Stati Uniti avrebbero chiuso un occhio su quello che si prefigurava come un tentativo di colpo di stato e non come una guerra a tutto campo. Il vero problema degli Stati Uniti era, di fatto, che la Russia finisse stritolata nell’abbraccio con la Cina come fornitore di materie prime e idrocarburi.
Gli USA invece hanno scelto una strategia più raffinata ma rischiosa, scommettere sul fallimento della Russia su due fronti. Innanzitutto una Russia in guerra non sarebbe più potuta essere partner commerciale dell’Europa: il Nordstream è saltato in aria e non c’è più il vincolo energetico con la Germania. In secondo luogo, una Russia indebolita sarà un partner meno utile e forse imbarazzante per i cinesi. In un conflitto di cui non si riesce a prevedere la fine, la Russia si è messa a fare quello che sa fare meglio: restare nella prospettiva di una guerra di sfinimento.
Le proteste che c’erano all’inizio della guerra, ricordiamo in particolare i picchetti solitari, oggi ci sono ancora?
Quella è stata una reazione iniziale di dimensioni contenute ma significative, che è stata messa a tacere con delle retate e tutta una serie di trattamenti a livello sociale che hanno portato a un allineamento della maggioranza rispetto alla linea richiesta, ovvero al riunirsi attorno alla bandiera della nazione in guerra. La macchina repressiva, che è stata affinata dal 2020 a oggi, è diventata soprattutto una macchina preventiva: l’obiettivo è che non si arrivi proprio alle proteste. Un esempio possono essere le convocazioni al centro di arruolamento militare ricevute da almeno sei persone che a San Pietroburgo stavano deponendo fiori in memoria di Navalny. Ufficialmente sono state convocazioni finalizzate ad aggiornare i dati, ma è chiaro che si parli di un avvertimento: attenzione, che ti mandiamo al fronte.
Ci sono invece e forse ora sono molto più temute, delle proteste piccole e difficilmente disperdibili, messe in atto dalle mogli dei soldati. Non sono tante ma rappresentano una voce autorizzata a parlare: non contestano apertamente la guerra ma chiedono che i mariti vengano rimandati a casa dopo un periodo al fronte. Chiedere il ritorno dei mariti è un fattore di potenziale erosione del consenso molto più pericoloso di altri perché non lo si può totalmente condannare.
Si può quindi dire che ci sia una politicizzazione femminile in Russia?
Tendenzialmente no. La società russa era molto conservatrice anche senza la regia spinta di Putin. Il tema della famiglia è molto sentito e chiedere che il figlio o il marito torni dal fronte è una richiesta che trova semplicemente simpatia e solidarietà. Non c’è però grande futuro per un altro genere di manifestazioni femminili. Le donne sono certamente una componente di potenziale bacino di protesta, ma per Putin continuano a votare in moltissime. Putin è visto come leader e padre della patria, tanto che non si è mai risposato pur essendosi ricostruito una nuova vita privata dopo il matrimonio. La statura morale della famiglia rimane una componente irrinunciabile e la figura della donna non si smuove quindi dal suo ruolo tradizionale.
Chi saranno i candidati finali alle elezioni?
Dopo un’iniziale pletora di aspiranti candidati ce n’era uno solo di interessante, poi bocciato, che è stato l’unico momento di vero movimento di una campagna elettorale completamente inghiottita dalla mancanza di alternative a Putin: Boris Nadezhdin. Con posizioni espressamente anti guerra e spesso anche anti Cremlino, Nadezhdin era dapprima stato considerato utile alla macchina governativa e quindi inserito nei potenziali candidati, a seguito però delle lunghissime code che ci sono state in sostegno alla sua candidatura, probabilmente, si è cambiato idea.
A parte Putin, sul bollettino elettorale ci saranno altri tre candidati. Leonid Slutsky, 56enne orfano dello storico leader nazionalista Zhirinovsky morto nel 2022, è il candidato del Partito Liberal Democratico, che di liberale e democratico ha molto poco. Il Partito Comunista, l’opposizione ormai ampiamente addomesticata ed entrata nelle logiche del potere, presenta Nicolaj Charitonov, un comunista 75enne di nuova data che siede tra l’altro in parlamento. Il partito Nuova Gente candida l’unico giovane, Vladislav Davankov. In politica dal 2020 e prima uomo d’affari, Davankov rappresenta la cosa più vicina al cosiddetto campo liberal, lontano dall’essere assimilabile al nostro concetto di progressismo e legato a una visione strettamente economica. In sostanza sarà una celebrazione dell’assetto politico russo così come l’abbiamo oggi: Putin, che si presenta da indipendente e che non ha mai fatto dibattiti politici, più altri tre candidati che fanno parte della cosiddetta opposizione sistemica, quella che siede in parlamento. La relativa novità di questa elezione, che porterà ovviamente alla vittoria di Putin, starà nel rinnovo del mandato per fare la guerra.
Per concludere, un Putin ormai anziano e coinvolto in una guerra senza fine può ancora contare sull’appoggio dei suoi oligarchi? Quali sono oggi i motivi di scontro all’interno dei gruppi di potere russi?
Il gruppo dei siloviki al potere è piuttosto solidale, tra loro non esiste alcun dissenso rispetto a Putin un po’ perché la pensano come lui, un po’ anche perché se salta Putin salta tutto. Gli oligarchi si sono sostanzialmente adeguati alla nuova situazione e hanno accettato di buon grado di spartirsi le proprietà straniere che dopo l’inizio della guerra sono diventate nuovo terreno di conquista per gli imprenditori locali. Proprio sulla scia della guerra e delle sue conseguenze economiche, anzi, sono comparse nuove figure imprenditoriali. Non è che non ci siano delle lotte per la successione, ma queste sono iniziate prima della guerra e non si sono modificate di molto. Sappiamo inoltre tutti, compreso lui, che Putin non sarà spendibile anche per il dopo guerra.
Il vero aspetto che crea frizioni e dissenso all’interno del gruppo di potere è lo scivolamento progressivo, inarrestabile e inevitabile della Russia come junior partner della Cina. È su questo argomento che si vedono le più grosse preoccupazioni, nonché le uniche contestazioni da parte degli oligarchi. Sul dopo Putin, in ogni caso, non possiamo fare alcuna previsione senza sapere l’esito della guerra in Ucraina.