È stato un dicembre al cardiopalma per la Lira Turca, che nelle ultime quattro settimane ha decisamente viaggiato sulle montagne russe: uno a tredici il cambio con l’euro al 24 di novembre; uno a diciannove al 19 di dicembre; uno a dodici a Natale. Un saliscendi vertiginoso dettato dai discorsi e dalle repentine mosse di Erdogan, che dopo aver forzatamente tagliato i tassi d’interesse per mesi – nella speranza, vana, che ciò servisse ad attrarre più investimenti –, nella serata di lunedì 20 dicembre ha annunciato un nuovo piano per salvare la Turchia dalla crisi economica.
Il Presidente ha infatti promesso di garantire i possessori di Lira Turca per ogni perdita dovuta al deprezzamento della valuta: una parola secondo molti quasi impossibile da mantenere, poiché economicamente insostenibile. Le finanze pubbliche, già sotto pressione in seguito alla recente decisione di tagliare le tasse e aumentare il salario minimo, difficilmente potrebbero farsi carico di un altro fardello.
Consenso Cercasi?
È inevitabile pensare che questa svolta espansiva nella politica economica di Erdogan sia dovuta a una ricerca di consenso elettorale in vista delle prossime presidenziali del 2023. Fintanto che si tengono delle elezioni, anche il leader dell’AKP deve trovare modi per assicurarsi voti, nonostante la deriva illiberale degli ultimi anni e gli estesi legami clientelari consolidati nel tempo.
In effetti, già nel 2019 le elezioni municipali hanno mandato un forte segnale: l’opposizione all’AKP esiste e sta recuperando terreno. Due anni fa il Partito Popolare Repubblicano (CHP), di matrice kemalista e progressista, ha trionfato nelle cinque più grandi città metropolitane della Turchia (Istanbul, Ankara, Bursa, Izmir e Antalya), scalzando proprio l’AKP dopo anni di dominio incontrastato. C’è dell’altro. Stando ai sondaggi il consenso nei confronti dell’AKP in vista delle elezioni del 2023 è in calo, a beneficio del CHP, in netta ascesa soprattutto negli ultimi nove mesi – proprio mentre la crisi economica si inaspriva.
Il significato delle crisi economiche in Turchia
Storicamente, in Turchia le crisi economiche hanno avuto un impatto piuttosto duro sul panorama politico interno, innescando spinte populiste e favorendo colpi di stato a opera dell’esercito. La crisi del debito pubblico del 1958 portò al coup ai danni dell’allora Primo Ministro Menderes nel 1960 – nonché alla sua esecuzione pubblica l’anno successivo – da parte dei militari. Militari che a seguito di un’altra crisi (1978-79), con caratteristiche simili alla precedente, stabilirono un interregno tra il 1980 e il 1983, redigendo una nuova Costituzione per il Paese (la precedente fu adottata proprio nel 1960 in seguito al colpo di stato).
Nel 2001 per la prima volta una crisi economica non portò al golpe, ma ebbe comunque conseguenze politiche piuttosto considerevoli, dal momento che spianò la strada a un partito, l’AKP, fondato da pochi mesi, e che sarà in grado di restare il potere per i successivi vent’anni – e rendendosi comunque artefice di una deriva antidemocratica.
Sarà l’andamento dell’economia a determinare l’esito elettorale?
Non solo. La lista di fattori che determinano il voto alle urne è piuttosto densa. Si va dai valori religiosi a quelli politici, dalla condizione socioeconomica al livello di istruzione, dall’abilità di un partito di espandere la propria clientela a quella di coinvolgere ampie “fette” della popolazione nei propri programmi politici. La vittoria del CHP alle municipali del 2019 è da molti esperti attribuita proprio a una strategia vincente adottata in fase di campagna elettorale.
Tuttavia, l’andamento dell’economia si prospetta un fattore centrale per le sorti dell’AKP, per due motivi principali. Il primo è che, come confermato dai sondaggi della World Values Survey, ricchezza e sicurezza economica risultano estremamente importanti per i cittadini turchi: il 44,6% di essi (la porzione più ampia) posiziona “un’economia stabile” in cima alla lista delle priorità, mentre il 44,2% individua nella crescita economica il principale obiettivo che un governo dovrebbe porsi.
Il secondo motivo è che l’AKP ha costruito il proprio successo e le proprie fortune quasi esclusivamente sul benessere economico portato al Paese nei primi anni di governo, dal 2002 al 2007 circa. Seguendo la rotta tracciata dall’economista ed ex-Primo Ministro Kemal Derviş, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo implementò importanti riforme che condussero a una portentosa crescita economica in un contesto di bassa inflazione. Il Pil pro-capite aumentò da circa 3mila a oltre 10mila dollari tra il 2002 e il 2010, il tasso di povertà crollò dal 30% al 4% nello stesso lasso di tempo e la rete di previdenza sociale fu estesa anche grazie a una riduzione delle spese militari.
Il 2022 sarà dunque decisivo. La Turchia sta affrontando una crisi economica, democratica e diplomatica che di certo non fanno buon gioco all’esecutivo in carica. Ma mentre la risalita del CHP potrebbe ravvivare la competizione politica nel Paese, c’è che pensa che ciò possa invece fornire a Erdogan ulteriori incentivi per stringere la morsa illiberale. Del resto, due anni fa a Istanbul un tentativo di annullare arbitrariamente l’elezione del sindaco İmamoğlu fu effettuato, senza successo. Come cambierà la musica nel 2023?