Michele Lapini (Eikon)

Disobbedire e non combattere

La storia degli USA è ricca di guerre e quindi anche di antimilitaristi, i loro interventi sono più che mai attuali

La spesa per la difesa negli Stati Uniti è uno dei temi più dibattuti degli ultimi anni, questo anche perché gli USA spendono per il mantenimento del proprio apparato militare più di quanto spendano i dieci paesi successivi messi insieme, si tratta di una cifra che si aggira attorno ai 770 miliardi di dollari. In quanto potenza egemone della politica internazionale dell’ultimo secolo, gli Stati Uniti non possono venir meno al loro ruolo di garanti della sicurezza nel mondo, che deve essere garantito anche attraverso il dominio militare, deterrente utile più come minaccia costante che come applicazione reale. Tale mole di denaro investita in armamenti fa si che gli USA siano considerati la potenza favorita in un qualsiasi conflitto, sia esso regionale, continentale o mondiale.

Eppure, di pari passo all’incremento dell’esercito, si è mosso un importante movimento antimilitarista, che rappresenta una costante in tutti i conflitti affrontati da Washington. Proprio in questi giorni, più di cento gruppi antimilitaristi hanno invitato il presidente Biden a resistere a qualsiasi tipo di pressione che riguardi un ulteriore innalzamento della spesa militare. Questi movimenti negli USA hanno provato a spiegare che disobbedire e non combattere non voleva dire tradire la propria nazione ma, anzi, volerne l’emancipazione.

Pacifista o traditore?

Il conflitto russo-ucraino è probabilmente uno dei momenti contemporanei più divisivi, in grado di generare una separazione netta tra chi alla guerra si oppone in qualsiasi sua forma e chi invece, in nome del realismo politico, propone la partecipazione al conflitto, fosse anche solo attraverso l’invio di armi ad una delle due parti (in questo caso ovviamente quella ucraina).

In tutti i momenti della storia si è resa necessaria una forte opposizione, spesso anche di una minoranza, affinché rimanesse incisa la contrarietà alla guerra. Mi spiego, non si tratta di additare chiunque ritenga necessario l’invio di armamenti all’esercito ucraino come un militarista oltranzista, quanto di provare a vedere la situazione da un punto di vista alternativo, spesso minoritario e radicale, ma che non ha nulla di astratto.

Ritornando alla storia degli Stati Uniti, non ha nulla di astratto l’opposizione da parte di John Reed alla partecipazione statunitense alla Prima Guerra Mondiale, il giornalista, noto soprattutto per il suo reportage sulla Rivoluzione russa “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, ci offre una visione di insieme di chi, anche dopo le provocazioni tedesche, rimane contrario ad un’entrata in guerra. Reed conosce la guerra, sa cosa significhi grazie al suo lavoro e la descrive come “una pazzia collettiva, mortificazione della verità, soppressione dell’arte, sviamento delle riforme, delle rivoluzioni e dell’azione delle forze sociali”, nel suo articolo “Di chi è questa guerra?” pubblicato nell’aprile 1917 già intravede la principale accusa che gli sarà poi rivolta: essere un traditore perché contrario alla guerra.

Reed naturalmente disprezza il militarismo prussiano, deplora l’invasione del Belgio e condanna la guerra sottomarina senza quartiere perpetrata dalle potenze teutoniche, ma allo stesso tempo sa bene che in guerra tutti hanno torto, ricorda ai suoi lettori il blocco navale inglese che affama le popolazioni tedesche, le atrocità dei russi e l’inesistente neutralità americana. Inviare materiale bellico e cancellare debiti pubblici non vuol dire essere neutrali, e sono queste le naturali cause delle provocazioni tedesche che hanno poi scaturito l’ingresso degli USA nella Grande Guerra, “non è la nostra guerra, noi non abbiamo nessuna colpa” conclude.

Prima la Pace

Lo stesso Eisenhower, non certo un antimilitarista, ricordava che “un mondo che si arma non spende solo soldi, spende il sudore dei suoi lavoratori, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli”.

Ma in tutta questa dinamica rientra l’ovvia imposizione morale, che probabilmente supera anche l’opposizione alla guerra, non si può lasciare che un popolo venga trucidato, che una nazione più debole venga sottomessa brutalmente dalla Russia. “Cadrà di fronte a loro, sarà conquistata e soggiogata; il suo governo annientato, il suo nome cancellato dalle nazioni, annichilita la sua esistenza sovrana; usurpati i suoi diritti e le sue prerogative, il suo popolo schiacciato dal braccio di ferro del dispotismo militare”, queste sono le parole con cui Frederick Douglass, uno dei primi esponenti abolizionisti afroamericani, si riferisce al Messico e alla guerra del 1848. Guerra con la quale gli Stati Uniti furono in grado di annettere numerosi stati, tra cui New Mexico e Arizona, guerra fortemente condizionata dagli schiavisti. Ovviamente queste parole possono essere perfettamente adattate alla situazione che sta vivendo il popolo ucraino, parole atroci che ci ricordano quanto enorme sia la differenza tra le forze in campo e quanto ovvia sia la conclusione del conflitto qualora nessuno dovesse intervenire.

La Primavera di Praga

Allora, Douglass spronò il governo degli USA a fermare la guerra, invano chiese una ribellione da parte dei cittadini statunitensi, oggi questa situazione appare a prima vista evitabile solo attraverso un supporto militare da parte della NATO, si è rinunciato a spostarsi dal piano del confronto bellico, l’unica soluzione avviene lì. 

Si genera quindi un interrogativo morale, un tarlo che ci chiede se sia giusto, per evitare la guerra, permettere il soggiogamento di intere popolazioni. Interrogativo che nel corso della storia ha avuto diverse risposte: negativa ad esempio quando in nome della pace inglesi e francesi non ostacolarono Hitler nell’annessione dei Sudeti, ponendo di fatto le basi per il secondo conflitto mondiale; e positiva quando gli USA non intervennero in Ungheria nel ’56 o in Cecoslovacchia nel ’68.

Eppure, entrambi gli episodi assumono un loro significato proprio in virtù della pace, la politica di appeasement ha fallito perché ha portato alla guerra, la divisione in blocchi della guerra fredda ha avuto senso proprio perché ha mantenuto la pace tra le due superpotenze. 

Afroamericani contro la guerra in Vietnam

Non-violenza a tutti i livelli

I casi di Reed e Douglass rappresentano casi di antimilitarismo in fase embrionale, ovviamente la storia degli USA non può prescindere dalle grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam e non citare nemmeno tale mobilitazione sarebbe un grave danno al tentativo di analisi storica sull’antimilitarismo statunitense fin qui condotto. 

Sul tema, particolarmente significative sono le motivazioni che Martin Luther King espose per schierarsi contro il conflitto in Vietnam. Il leader per i diritti afroamericani spiegò di aver capito che fosse necessario esporsi contro la guerra mentre parlava ai giovani delle pratiche di non violenza, spesso infatti gli veniva fatta notare una notevole discrasia: come si può lottare attraverso la pratica non violenta se l’istituzione alla quale ci rivolgiamo usa la violenza in dosi massicce per risolvere i propri problemi? M.L. King si rese allora conto che non avrebbe mai potuto parlare contro la violenza se prima non si fosse schierato contro il maggior fornitore di violenza nel mondo: il suo stesso governo. 

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