Siamo oggi al settantesimo giorno di guerra in Ucraina e i paesi del Medio Oriente stanno osservando a distanza – relativa – gli effetti che il conflitto sta portando all’economia globale.
“Un altro momento whatever it takes”
La presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, nel discorso di apertura dell’ultimo incontro a Strasburgo avvenuto lunedì 3 maggio, ha rievocato la celebre frase che Draghi aveva usato nel 2012. Il presidente italiano ha affermato che ci troviamo di fronte ad “una delle più gravi crisi della storia europea che è insieme umanitaria, securitaria, energetica ed economica”.
Oggi, come mai prima, si rende necessario aumentare il potere economico del paese e per farlo è necessario potenziare l’azione diplomatica verso l’allargamento dell’Unione a qualsiasi paese ne faccia richiesta. Ancora Draghi: “Abbiamo bisogno di un federalismo pragmatico, che abbracci tutti gli ambiti colpiti dalle trasformazioni in corso dall’economia, all’energia, alla sicurezza. Se ciò richiede l’inizio di un percorso che porterà alla revisione dei Trattati, lo si abbracci con coraggio e con fiducia”.
È stato ricordato come sia di estrema rilevanza, nel contesto attuale, il ruolo di Russia e Ucraina nelle esportazioni di grano. I due paesi soddisfano oltre un quarto della richiesta mondiale e la mancanza della sua disponibilità a seguito della guerra sta già avendo ripercussioni rilevanti: la Fao ha stimato circa 13 milioni di persone in più in crisi alimentare.
Il Libano importa l’80% del suo grano dall’Ucraina e per il 15% dalla Russia e anche l’Egitto dipende dai due paesi complessivamente per l’80%. La Siria, dopo dieci anni di conflitto, si trova in una crisi gravissima e sta acquistando la materia prima dalla Turchia, che a sua volta la compra per il 90% dall’Ucraina. Yemen e Libia, altri due paesi in profonda crisi, si riforniscono dall’Ucraina rispettivamente per il 30% e il 40%. Un massiccio e rapido aumento di persone che muoiono di fame in questi territori si ripercuote in automatico sui flussi migratori in Occidente.
La questione energetica
L’inflazione nel nostro paese è già alle stelle, le famiglie perdono capacità d’acquisto e le aziende perdono capacità di produzione. Draghi ha ribadito all’incontro quanto sia necessario portare avanti le sanzioni, ma anche impegnarsi a raggiungere l’autonomia energetica. Mentre il Def ci mostra una diminuzione di 3,7 miliardi di euro sull’import dalla Russia di petrolio greggio e di 2,2 miliardi di prodotti petroliferi raffinati, il discorso sul gas naturale è differente. Dal 2013 al 2021 l’Italia ha portato la sua dipendenza dal Cremlino dal 37,1% al 46,6%.
Il primo paese a cui Palazzo Chigi ha guardato per una soluzione rapida è stato l’Algeria, da cui lo scorso anno ha importato più del 21% del totale di gas liquefatto. Il gas algerino è innanzitutto utilizzabile nell’immediato perché disponiamo già delle sovrastrutture necessarie: già dal 1981 è attivo il gasdotto TransMed e si tratta perciò soltanto di aumentare la portata del gas da far arrivare a Mazara del Vallo. La “Dichiarazione d’intenti sulla cooperazione bilaterale nel settore dell’energia” dell’11 aprile vede la firma sia di Draghi e il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune che degli amministratori delegati di Eni, Claudio Descalzi, e dell’azienda di Stato algerina Sonatrach, Toufik Hakkar. Entro il 2024, quindi, l’Italia riceverà dall’Algeria 9 miliardi di metri cubi in più, ma non bastano.
Il gas libico
Oltre all’Algeria ci sono poche altre possibilità per ottenere gas nel breve termine: ci sono l’Azerbaigian e gli Stati Uniti ma soprattutto, per una questione di vicinanza, la Tunisia e la Libia. Quest’ultima in particolare rappresenta il quarto Stato più esteso del continente africano e, in linea teorica, l’Italia potrebbe ottenere dallo Stato nordafricano circa 10 miliardi di mc di gas utilizzando il gasdotto Greenstream che va da Mellitah, nel nord-ovest della Libia, a Gela, in Sicilia.
I numeri del 2020 indicano però un arrivo totale di soli 4,29 miliardi, quelli dell’anno scorso 3,23 e i dati di Snam continuano a mostrarsi imprevedibili a causa del caos in cui versa il paese. In occasione della conferenza “Focus Mediterraneo-Libia” organizzata dalla Luiss il 12 aprile, l’ambasciatore d’Italia a Tripoli Gabriele Muccino ha espresso l’idea che sia attualmente possibile aumentare l’importazione del 30%. Osservando che l’Italia ha un consumo medio complessivo di circa 6,5 miliardi di mc/mese, si potrebbe così arrivare a coprire approssimativamente un mese intero di fabbisogno.
Il problema principale della Libia riguarda però la domanda interna. Ci arrivano spesso notizie di black out di energia lunghi fino a 20 ore, ai quali le autorità libiche vorrebbero porre rimedio tramite la costruzione di ben due nuove piattaforme offshore fisse di fronte al complesso di Mellitah e di una rete di gasdotti sottomarini. Sotto la guida di Eni e in collaborazione con la National Oil Corporation, il progetto dovrebbe partire all’inizio del prossimo anno. Le società italiane Eni e Ansaldo si sono mostrate inoltre disponibili a degli accordi che comprendano anche l’utilizzo di fonti rinnovabili, in modo da liberare ulteriori potenziali quote di gas per l’Italia.
Un dialogo con la Libia è possibile?
A conferma della rilevanza della Libia non solo sulla questione gas, ma su un più ampio quadro geopolitico, Mario Draghi il 6 aprile aveva scelto proprio Tripoli come suo primo viaggio ufficiale all’estero, per discutere prevalentemente di immigrazione. La Libia ha rappresentato per lungo tempo la destinazione di enormi gruppi di migranti provenienti da guerre e fame a causa della grande domanda di manodopera nei settori energetici o dell’edilizia. Con la caduta del regime di Geddafi, nel 2011, si è però verificato un vuoto di potere che ha trasformato piuttosto rapidamente il paese in un luogo di transito per persone provenienti dall’Africa subsahariana e dirette in Europa.
Il governo italiano ha stipulato il Memorandum Italia-Libia il 2 febbraio del 2017, con la firma dell’ex presidente italiano Gentiloni e l’ex primo ministro del Governo di Riconciliazione Nazionale libico Fayez al-Sarraj. L’obiettivo dell’accordo era quello di contenere le immigrazioni in Europa tramite la pressoché totale delega della gestione dei flussi al governo di Tripoli e la situazione sta diventando via via sempre più controversa.
Oggi manca un vero interlocutore
La Libia non ha, dalla morte di Geddafi, una vera e propria costituzione e perciò nemmeno una vera carica di capo di Stato. Il 15 marzo dello scorso anno, tramite la supervisione della Missione di supporto dell’ONU in Libia, la carica provvisoria è passata da al-Sarraj a Mohamed al-Menfi, ex ambasciatore della Libia in Grecia. Il ruolo di primo ministro è stato invece assegnato ad Abdul Dbeibeh, legato alla famiglia di Geddafi.
Nonostante questo, la figura fondamentale del quadro politico è quella di Fathi Bashagha. Originario di Misurata, Bashagha era già stato eletto Ministro degli Interni nel 2018 e ha mantenuto questa carica fino al 2021. All’inizio del 2022 è stato selezionato come Primo Ministro designato dalla Camera dei Rappresentanti con sede a Tobruk, nell’est; ciò è avvenuto a seguito dell’annuncio del ritiro dell’unico altro candidato, Khalid Al-Baybas. Al-Baybas ha sempre negato la veridicità della comunicazione. Oggi Bashagha si definisce il Primo Ministro ad interim della Libia.
Alla luce della mancanza di trasparenza con la quale è stata presa la decisione – questione su cui si sono pronunciate anche le Nazioni Unite – Dbeibeh non riconosce tutt’ora la nomina e sostiene che il passaggio al potere potrà essere effettivo solo a seguito delle elezioni nazionali, rinviate lo scorso dicembre. A dirsi invece entusiasta dell’elezione di Bashagha è Kalifa Haftar, ex comandante dell’esercito di Geddafi ritornato in Libia nel 2011 dopo circa vent’anni passati negli Stati Uniti. Fu lui a lanciare, nel 2014, l’operazione Karama e rimane una figura di estrema importanza nel paese.
Il quadro è quello di un doppio governo: quello di Tripoli , riconosciuto dall’Onu e alleato della Turchia e quello annunciato dal Parlamento libico con sede a Tobruk, che gode dell’appoggio degli Emirati, dell’Egitto e dal 2016 anche della Russia. Negli ultimi anni Haftar e il suo Libyan National Army sono riusciti a conquistare, tramite azioni militari ma anche semplici accordi con le tribù dei territori, le più importanti città della Cirenaica e del Fezzan fino alla presa anche di Sirte, nella Tripolitania, due anni fa. A fallire è stato solo il tentativo di prendere il controllo di Tripoli stessa.
Quelli che si prospettano oggi sono dunque i risultati di una guerra civile che lascia il paese in un costante stato di tensione e in preda a una lunga serie di violazioni di diritti umani. In un simile contesto appare difficile se non impossibile un reale dialogo diplomatico con le potenze occidentali, le quali rimangono peraltro le principali responsabili della crisi iniziata con l’intervento NATO nel 2011. Le stime che vengono fatte sulla possibilità, per l’Europa, di arrivare a degli importanti accordi sul gas con la Libia risultano allo stato delle cose promettenti, ma ancora piuttosto astratte.