La strategia del contenimento dell’Unione Sovietica. Dall’Esercizio Solarium al culmine del containment con la dissoluzione dell’URSS, come preconizzato da George Kennan nel 1953.
Il senso di eccezionalismo americano. La missione civilizzatrice di Washington per tutti i popoli del mondo, ai quali l’America sarebbe stata a fianco in tutti i casi in cui essi avrebbero voluto combattere per la libertà. Il consenso della collettività intorno all’indispensabilità morale degli Stati Uniti per il mantenimento dell’ordine mondiale e attorno all’applicabilità generalizzata dei principi e dei valori americani. Tutto ciò aveva fatto sì che l’America, che già a partire dal primo Dopoguerra con Wilson aveva iniziato ad avere afflati universalistici, costruisse un nuovo ordine mondiale. Esemplificativo di tale traiettoria è il discorso che Kennedy tenne il 20 gennaio 1961, per l’inaugurazione della sua presidenza.
Il trentatreesimo presidente degli Stati Uniti affermò messianicamente che gli Stati Uniti avrebbero dovuto «pagare qualunque prezzo, portare qualunque peso, affrontare qualunque avversità, sostenere qualunque amico, opporsi a qualunque nemico, pur di garantire la sopravvivenza e il successo della libertà». Programma che venne sostanzialmente portato avanti da tutti i presidenti dal secondo Dopoguerra in poi, ma che mai nessuno aveva così condensato. A partire da allora, dal momento di euforia americana per aver vinto – anzi, stravinto – il Secondo conflitto mondiale, hanno iniziato a manifestarsi i primi sintomi della patologia che affliggerà la strategia statunitense: l’incapacità di distinguere le minacce e di stabilire quali dovessero essere le priorità per Washington. L’America doveva essere ovunque1. Tuttavia, all’epoca una strategia c’era.
1. L’esercizio Solarium.
Nel 1953, due mesi dopo la morte di Stalin, il Presidente Dwight D. Eisenhower riconobbe che gli Stati Uniti mancavano di una grand strategy2 al fine di far ritirare l’Unione Sovietica e renderla non più una minaccia per la sicurezza nazionale americana. Per fare ciò vi era la necessità di sviluppare una strategia che incorporasse tutte le forze della nazione. Eisenhower avviò un nuovo progetto strategico – sul quale Limes (la Rivista Italiana di Geopolitica) si è approfonditamente concentrata – detto Solarium, dalla stanza presso la Casa Bianca in cui Eisenhower era solito passare il tempo con i nipoti e cucinare sul barbecue le sue adorate quaglie. Il Presidente creò tre partiti composti da una comunità bipartisan di esperti di sicurezza nazionale. Era fondamentale che questi ultimi provenissero sia da democratici che repubblicani dal momento che per lo sviluppo di una grande strategia che integrasse tutti gli elementi del potere nazionale sarebbe stato necessario il sostegno dell’intera classe politica e della nazione.
Il compito: presentare un piano per una grand strategy che sconfiggesse il comunismo e facesse sì che l’american way of life, l’anima americana, si salvasse dal, e si imponesse sul, mondo sovietico. Le tre squadre erano così divise: la prima, guidata da George Kennan (diplomatico, già vicecapo missione presso l’ambasciata statunitense a Mosca e capo dell’Ufficio pianificazione politica al Dipartimento di Stato), sosteneva il contenimento dell’Unione Sovietica; la seconda, che aveva come alfiere il generale McCormack, responsabile del programma nucleare, era una via di mezzo tra il contenimento, e la terza opzione che era guidata dall’ammiraglio Connolly, oltranzista e offensiva, che perseguiva il così detto roll back di Mosca.
La strategia del contenimento proposta da Kennan era stata elaborata per affrontare una minaccia nuova. Solo dieci anni prima, infatti, Halford Mackinder – diplomatico, tra i padri dell’analisi geopolitica – aveva sostenuto che l’unico modo per mantenere in pace quello che per lui era il nucleo geopolitico, Heartland (corrispondente agli attuali Russia, Iran, Afghanistan, e una parte di Cina e Mongolia), era attraverso un’alleanza tra Russia e Stati Uniti3. Dieci anni dopo la realtà era tutt’altra. Non era una questione che riguardava direttamente gli USA, ma sarebbe diventata esistenziale anche oltre l’Oceano Atlantico se la Russia, unendo le sue capacità militari-industriali e la potenza universale dell’ideologia comunista, fosse definitivamente penetrata anche in Europa occidentale4.
Kennan, dunque, articolò la teoria del contenimento dell’Unione Sovietica in modo articolato. Come si può esaminare nell’Editoriale del numero di Limes di giugno 2021, secondo Kennan si dovevano mantenere per un periodo prolungato le forze armate in aree critiche per garantire la sicurezza degli Stati Uniti e la difesa di aree vitali del mondo libero. Era necessario continuare ad assistere lo sviluppo della forza economica e militare e la coesione del mondo libero. Senza aumentare il rischio di una guerra diretta, si dovevano sfruttare le vulnerabilità dei sovietici e dei loro satelliti attraverso azioni politiche, economiche e psicologiche, proponendo un sistema politico democratico e un ordine internazionale basato su regole come alternativa positiva.
Elemento centrale del contenimento pensato da Kennan era il tempo. Egli sosteneva che il tempo potesse «essere utilizzato a vantaggio del mondo libero, se possiamo costruire e mantenere la forza del mondo libero nel corso di anni, il potere sovietico si deteriorerà o diminuirà relativamente fino ad un punto in cui non costituirà più una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e per la pace mondiale». Le operazioni militari, da localizzare il più possibile, sebbene non centrali, sarebbero state ammissibili solo se necessarie e sostenibili. Il contenimento elaborato da Kennan, infatti, non aveva l’aspetto bellico come unico e principale componente, ma era una strategia dinamica, che necessitava di una profonda interconnessione tra tutte le principali forze americane (oltre alle forze armate, la politica, l’economia, la diplomazia e l’intelligence).
La linea oltranzista e offensiva di Connolly, invece, prevedeva la possibilità di sfidare direttamente l’Unione Sovietica in più aree per difendere e restaurare il prestigio occidentale per produrre «un clima di vittoria» che avrebbe portato alla demoralizzazione e al ritiro di Mosca – roll back appunto – e al trionfo del mondo libero.
Eisenhower optò per il contenimento, sostenuto da Kennan. Il Presidente americano dichiarò che «L’unica cosa peggiore di perdere una guerra globale è vincerla. Dopo la prossima guerra globale la libertà individuale non esisterà più», pietra tombale sul roll back. Eisenhower – più materialmente e realisticamente – aggiunse che anche se si dovesse combattere e vincere una guerra globale con l’Unione Sovietica, si avrebbe una enorme distesa di territori distrutti dalla Germania dell’Est fino a Vladivostok e per tutta l’Asia centrale. Non si avrebbe un governo, una rete di comunicazioni, alcuna infrastruttura. Il Presidente americano, dunque, si chiese retoricamente cosa il mondo libero avrebbe dovuto fare in questo caso per gestire il vastissimo territorio dell’Unione Sovietica devastato5.
Sebbene il progetto Solarium avesse reso possibile lo sviluppo di una strategia di contenimento dell’URSS, essa fu non di rado interpretata più come «compito principalmente morale e non geopolitico»6. Gli interessi da difendere erano infatti spesso descritti ricorrendo ad espressioni evocative e categorie morali, come si può vedere nell’estratto del discorso di Kennedy già citato, e come si evince anche dalla Risoluzione n.68 del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Dove si legge che la sfida era tra l’idea di libertà sotto il governo delle leggi, la difesa delle libertà individuali attraverso cui realizzare le proprie potenzialità creative e la concezione in base alla quale le libertà individuali finiscono dove iniziano quelle altrui, e l’idea di schiavitù propugnata dalla «lugubre oligarchia del Cremlino»7.
2. La strategia del contenimento dell’Unione Sovietica, il nemico perfetto.
Nonostante la narrazione cui si ricorreva avesse echi a tal punto universalistici e salvifici per l’umanità e non rendesse chiara la traiettoria che l’America avrebbe dovuto intraprendere, e, anzi, celava – neanche troppo velatamente – l’intenzione di voler agire ovunque, a Washington degli strateghi c’erano. Dal già menzionato Kennan, supremo conoscitore del mondo russo, a Kissinger, fino al meno noto Andrew W. Marshall, meglio conosciuto come Yoda, per 42 anni a capo del poco noto, quanto fondamentale per la strategia statunitense, Office of Net Assessment8. Non solo. L’Unione Sovietica era il nemico perfetto degli Stati Uniti – sia per l’ideologia propugnata, altrettanto universalistica, che per lo stile di vita e la minaccia militare esistenziale che Mosca rappresentava – per legittimare sé stessi e la loro operazione salvifica per l’umanità.
La narrazione del containment nei confronti di Mosca, tanto a livello interno quanto agli alleati-satelliti, era infatti duplice. Da un lato, si doveva contenere l’espansionismo sovietico, dall’altro combattere la propagazione dell’ideologia comunista9. La prima necessità – il contenimento dell’espansionismo dell’Unione Sovietica – doveva essere portata avanti su tutti i fronti. Si doveva creare un “cordone sanitario”, a partire dalla Germania, per impedire il dominio di una potenza su quello che era (ancora) il continente geopoliticamente centrale, l’Europa. Era necessario evitare che il continente europeo diventasse un soggetto geopolitico autonomo, operazione che sarebbe stata possibile innanzitutto occupando e dividendo la Germania. L’Europa, attraverso la nuova Alleanza Atlantica, doveva essere «l’avanguardia a stelle e strisce nelle immensità d’Eurasia.»10. Pertanto, come nelle analisi di Limes è possibile leggere approfonditamente, il continente europeo sarebbe stato necessario per garantire ulteriore profondità difensiva e strategica agli Stati Uniti, già isola tra i due Oceani e tra i clienti Messico e Canada. Tradotto: se si fosse combattuto contro l’Unione Sovietica lo si sarebbe fatto sul suolo europeo. Periodo ipotetico di terzo tipo o dell’irrealtà che, almeno in Europa, non è affatto escluso si trasformi di nuovo in periodo ipotetico della realtà.
Contenere Mosca passava (anche) dall’Asia.
Il containment nei confronti di Mosca non si sarebbe potuto limitare all’Europa. Gli Stati Uniti, dunque, sin dall’inizio della Guerra fredda rivolsero la propria attenzione anche all’Asia, all’Estremo Oriente, perché avevano una preoccupazione principale: l’espansione della Russia sovietica verso il Pacifico. Non si poteva rischiare che si creassero le condizioni tali per cui Mosca avrebbe potuto contare su tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, per proiettarsi verso l’Oceano sul quale l’America aveva drammaticamente combattuto contro il Giappone per contestarne l’espansionismo. In questo quadro, pertanto, secondo quanto sostenuto anche da Manlio Graziano, si deve iscrivere l’intervento statunitense in Corea. Ciò che Washington temeva era la creazione di una pressione tale su Tokyo, sia economica che politica, che avrebbe comportato il successivo ingresso del Giappone nell’orbita sovietica11.
La conseguenza di ciò sarebbe stato non solo il libero accesso per Mosca all’Oceano Pacifico, ma anche la possibilità di sfruttare il potenziale industriale giapponese, che, già durante la Seconda guerra mondiale, aveva dimostrato di essere molto avanzato. Sempre in quest’ottica si inserisce la drammatica invasione del Vietnam, visto che, come era stato scritto dal Presidente Eisenhower nel 1954, se l’Indocina fosse caduta nell’orbita comunista, sarebbe stato impossibile fermare l’effetto domino negli altri Stati del Sud Est asiatico, sino ad arrivare al Giappone. A costo di impegnarsi in un tale conflitto, che poi si dimostrò disastroso, Washington doveva intervenire direttamente e con forza in Estremo Oriente. Se in Europa era guerra volutamente fredda, in Asia, e non solo, la guerra era piuttosto calda, pur rimanendo sempre indiretta12. Stati Uniti e Unione Sovietica erano ben consapevoli del fatto che, per usare le parole di Eisenhower al termine del citato Esercizio Solarium, «l’unica cosa peggiore della sconfitta in una guerra globale è la vittoria»13.
Fin qui, però, non si è citato un attore centrale del contenimento asiatico statunitense nei confronti di Mosca: la Cina. Gli Stati Uniti, come visto, temevano che l’Unione Sovietica, attraverso il controllo della penisola coreana, avrebbe potuto mirare al Giappone. Invece Mao, che da pochi mesi aveva fondato la Repubblica Popolare Cinese, aveva timore per il fatto che la Corea sarebbe stata oggetto di mire espansionistiche dirette di Mosca, con la conseguenza inevitabile che la Cina sarebbe stata accerchiata dall’Unione Sovietica. Anche Mao, dunque, diede il suo consenso alle truppe di Pyongyang di invadere la Corea del Sud. Le motivazioni cinesi erano certamente opposte a quelle di Stalin, per il quale era importante lo scoppio della Guerra di Corea anche in funzione anticinese: portare una grave crisi nel cortile di casa di Pechino avrebbe limitato il potenziale espansionismo di Mao.
Se le considerazioni strategiche di tutta la galassia comunista erano complesse e articolate, lo erano molto meno a Washington. Qui si aveva chiaro soltanto che era necessario sconfiggere l’aggressione affermando la propria deterrenza e che lo si doveva fare per il tramite dell’ONU. Quest’ultima necessità non fu resa possibile per la presa di posizione dell’Unione Sovietica, ma anche il come sconfiggere l’aggressione, cosa volesse dire vincere, fin dove fermarsi, non erano stati messi in chiaro. Gli obiettivi strategici statunitensi non erano stati specificati, vulnus che gli Stati Uniti tutt’oggi si trovano a dover affrontare, e così l’America, subendo l’ingresso delle truppe cinesi nel conflitto coreano e la riconquista dei territori nordcoreani fino al 38° parallelo, si trovò a dover rinunciare alla vittoria. Tuttavia, dall’esperienza coreana Washington portò a casa almeno un risultato, i cui frutti si sarebbero visti venti anni dopo: seminare discordia tra Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese14.
All’inizio degli anni ’70, precisamente nel 1971 con una intervista rilasciata a «Time», il presidente Richard Nixon, della cui centralità ha trattato Kissinger nell’opera Ordine mondiale, si fece alfiere di una rivoluzione nella concezione americana delle relazioni internazionali. Il 37° Presidente statunitense, convinto realista, decise di abbandonare l’idea in base alla quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto agire per contrastare ovunque il diffondersi dell’ideologia comunista, per ricercare, invece, la «salvaguardia del sistema internazionale» attraverso l’equilibrio di potenza. In quest’ottica, la Repubblica Popolare Cinese giocava un ruolo fondamentale. In Cina, sebbene Mao governò sino alla sua morte avvenuta nel 1976 e il suo successore, Hua Guofeng, si ripromise di continuare le politiche rivoluzionarie iniziate dal fondatore della Repubblica Popolare, la spinta rivoluzionaria si stava esaurendo. Già nei primi anni ’70 si stava diffondendo l’idea riformista di aprirsi al mondo, sfruttando l’enorme potenziale umano e industriale che avrebbe potuto avere la Repubblica Popolare, di cui era primo rappresentante Deng Xiaoping.
Nixon, pertanto, avendo previsto che la Cina di lì a breve avrebbe iniziato una rapida ascesa, comprese che per mantenere un equilibrio di potenza nel mondo – in cui però sostanzialmente Washington sarebbe stata primus inter pares – era necessario aprire alla Cina, riconoscendola come potenza parte e garante dell’ordine mondiale. Avvicinando Pechino e al contempo allontanandola dall’Unione Sovietica, sarebbe stato possibile evitare lo spettro cui si rischiava di andare incontro, che l’America non sarebbe stata mai in grado di affrontare con successo: la ricerca di un’egemonia mondiale comunista attraverso un’alleanza sino-sovietica. Gli USA avrebbero dovuto creare un altro avversario di Mosca che l’avrebbe pressata da Oriente, dando vita al «dilemma insolubile […] della necessità di fare fronte ad avversari sia in Europa sia in Asia, anche all’interno del suo presunto campo ideologico»15.
Questa intuizione di Nixon e il conseguente cambio di postura americano nei confronti della Cina, messo in pratica da Henry Kissinger (allora Segretario di Stato) e proseguito dalle successive amministrazioni presidenziali dopo la caduta di Nixon in seguito allo scandalo Watergate, diede prova della capacità di analisi delle dinamiche geopolitiche del 37° Presidente americano. Il contenimento dell’Unione Sovietica venne dunque portato ad un livello superiore, che Mosca non fu mai in grado di aggirare.
Unitamente alla svolta cinese, nella seconda metà degli anni ’70 il contenimento pragmatico e realista organizzato dagli Stati Uniti si ampliò anche ad altre regioni del mondo. L’America non solo favorì le distensioni in Medio Oriente grazie agli accordi di pace siglati tra Israele ed Egitto, strappato all’influenza sovietica, voluti dalle presidenze Ford e Carter, ma reagì con forza all’invasione russa dell’Afghanistan, impegnando le truppe sovietiche in una guerra costosa, prolungata ed estremamente logorante. Tutto ciò venne portato avanti nonostante la grave crisi interna che attraversava gli Stati Uniti negli anni ’70 e minava fortemente la coesione sociale – a partire dalla gestione della rovinosa sconfitta in Vietnam, per arrivare alla crisi petrolifera e al grave aumento dell’inflazione. L’America, però, fu capace di resistere alle crisi e spinte centrifughe interne sino a giungere al culmine della strategia del containment nei confronti di Mosca con la presidenza Reagan.
3. L’ultimo atto del contenimento americano dell’URSS.
Ronald Reagan rappresentò la perfetta sintesi tra la concezione messianica e salvifica di cui gli Stati Uniti erano stati investiti – nel discorso di commiato al termine del secondo mandato aveva delineato l’America come una città splendente costruita su una possente collina e benedetta da Dio – e un pragmatico e duro contenimento dell’Unione Sovietica. Mosca era impegnata – o meglio, si era impelagata – sul fronte afghano, la sua orbita stava venendo erosa ovunque (come nel caso dell’Egitto) e la Cina del riformista Deng Xiaoping aveva ormai preso la via dell’apertura al mondo, formando quel polo asiatico che la Russia tanto temeva. L’URSS non si era mai trovata in una situazione di tale debolezza. L’amministrazione Reagan, dunque, decise di compiere un ultimo passo nella strategia del contenimento di Mosca, che si dimostrò fatale per il Cremlino: sfidarlo in una corsa agli armamenti e alla tecnologia, che l’Unione Sovietica non avrebbe mai potuto vincere. Al contempo, però, rispetto alle precedenti amministrazioni statunitensi, si rafforzò sia la retorica della missione salvifica dell’America intenta a liberare il mondo dall’impero del male, che la volontà di aprire a Mosca. In breve, mettere alle corde l’Unione Sovietica per poi offrirle l’ancora di salvezza, comprendendola nel consesso democratico globale a guida americana, unico modo, nella genuina ottica reaganiana che ricalcava la concezione di Wilson dell’ordine internazionale, per giungere alla pace16. Tuttavia, ciò avrebbe inevitabilmente comportato il venir meno dell’URSS.
Nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, l’America, che aveva tenacemente resistito alle spinte centrifughe interne del decennio precedente – uscendone addirittura rafforzata – aumentò drasticamente la produzione industriale militare, specialmente nel settore della marina. Qualche dato per rendere l’idea. Nel 1987 la flotta statunitense raggiunse le 594 unità navali, nello specifico 14 portaerei, 220 navi da guerra di superficie, 3 corazzate e 102 sottomarini d’attacco17. I grandi cantieri navali attivi in America erano ben otto, necessari non solo per la costruzione di nuove navi, ma anche per garantire riparazioni e manutenzione in tempi rapidi. Non solo. Nel 1983 l’amministrazione Reagan propose e attuò la Strategic Defense Initiative, nonostante i malumori espressi da Congresso e stampa, che si spinsero a deridere apertamente la decisione del 40° Presidente americano18. Attraverso questa costosa iniziativa di difesa si costruì un moderno sistema difensivo contro gli attacchi missilistici, che Mosca non avrebbe potuto in alcun modo eguagliare. L’obiettivo della Strategic Defense Initiative era fondamentalmente duplice. Da un lato, rendere inutile e neutralizzare un first strike nucleare russo e dall’altro, conseguentemente, iniziare a superare il concetto di deterrenza nucleare. Se il fine ultimo del contenimento reaganiano era integrare l’Unione Sovietica nel consesso democratico occidentale a guida americana, non sarebbe stato più necessario avere una strategia di mutua distruzione assicurata.
Per mettere in ginocchio l’Unione Sovietica Reagan non si servì solo dell’apparato militare industriale. Centrale fu l’attività penetrante del soft power americano, ma vi fu un altro elemento fondamentale che contribuì alla realizzazione del contenimento perfetto: l’attività svolta dal Vaticano, da Papa Wojtyla, sulla cui centralità si concentrò da subito Limes nel 1994. L’intervento del Vaticano sarebbe una storia che meriterebbe una trattazione a sé, ma qui basti accennare al fatto che anche il Pontefice fu determinante nel favorire i movimenti indipendentisti in Europa orientale che minarono dal basso la stabilità del Patto di Varsavia.
Il 24 febbraio 1992 uscì su «Time» un’inchiesta storica, condotta da Carl Bernstein, che svelava i rapporti tra l’amministrazione Reagan e Papa Wojtyla e come stessero lavorando da tempo per far cadere il regime comunista in Polonia. A Città del Vaticano rimasero spiazzati, considerata l’accuratezza dei dettagli contenuti nell’inchiesta di Bernstein. Tuttavia, tra il 3 e il 22 marzo 1992 furono direttamente i protagonisti della dissoluzione sovietica, Gorbacëv e Reagan, a confermarne la veridicità. Il 3 marzo, Mihail Gorbacëv alla Stampa dichiarò: «Oggi possiamo dire che tutto ciò che è successo in Europa orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare». Tre settimane dopo, Reagan aggiunse, trionfante: «Il nostro intento è stato fin dall’inizio quello di unirci per sconfiggere le forze del comunismo», apportando ulteriori dettagli rispetto all’inchiesta di Bernstein19.
L’Unione Sovietica era dunque logorata dall’interno da un’economia che non riusciva a stare al passo di quella americana, isolata sul piano internazionale e impanata nella disastrosa invasione dell’Afghanistan – che contribuì ad un ulteriore aumento delle spese militari, senza che però vi fosse una capacità di ripresa analoga a quella vista negli Stati Uniti dopo l’ancor più disastrosa guerra in Vietnam. Nondimeno, la narrazione del modello americano si era ormai inevitabilmente diffusa anche nella società sovietica, il soft power statunitense aveva fatto breccia anche nella intelligencija di Mosca e San Pietroburgo. Mihail Gorbačëv, succeduto a Cernenko l’11 marzo 1985, si trovò dunque a gestire un Paese ridotto allo stremo in cui il modello proposto dall’America era sempre più diffuso e preferito. L’ultimo Segretario generale del Partito Comunista sovietico non aveva certamente intenzione di provocare la dissoluzione dell’URSS, ma le spinte sia interne che esterne erano troppo forti e gli imponevano di agire. Senza che si fosse reso conto della fragilità estrema del sistema sovietico, Gorbačëv rincorse gli Stati Uniti, nel loro campo, prendendo parte ad una garache non avrebbe mai potuto vincere.
Con una mossa che si rivelò suicida, Gorbačëv oppose alla pressione statunitense di Reagan una profonda riforma dell’Unione Sovietica, articolata nella perestrojka e nella glasnost. Con perestrojka si intense la ristrutturazione non soltanto del Partito Comunista Sovietico attraverso una sua drammatica e radicale democratizzazione – cosa che ai contemporanei sembrava profondamente ossimorica20– ma anche la modernizzazione del sistema economico sovietico, senza che, però, si realizzassero effettivi benefici per l’economia russa. A febbraio 1987, Gorbačëv dichiarò che non ci sarebbero più stati «nomi dimenticati e pagine bianche nella storia sovietica», annunciando la glasnost, la trasparenza del sistema, sino ad allora rimasto ermeticamente chiuso: riscrittura dell’intero processo storico sovietico. Si assistette ad una rivoluzione interna in Russia, senza che, però, vi fossero le fondamenta per poter far sì che il sistema reggesse al terremoto. In ciò si inserirono l’apertura netta all’Occidente, come testimoniò l’adesione alla politica reaganiana di riduzione degli armamenti nucleari (altrui21) e la conseguente sottoscrizione del Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), e la ritirata dall’insostenibile guerra in Afghanistan.
Della gestione del disintegro sovietico dovette occuparsi Bush padre. Nonostante – e per fortuna – non si fosse combattuto direttamente, gli Stati Uniti si stavano dirigendo verso la vittoria contro il nemico perfetto, trovandosi però impreparati sul da farsi. Insediatosi da meno di un anno, il 41° Presidente americano dovette sostanzialmente affrontare il drammatico dilemma che Eisenhower enucleò successivamente alla conclusione dell’Esercizio Solarium «L’unica cosa peggiore di perdere una guerra globale è vincerla». La caduta del muro di Berlino significava fine dell’impero sovietico in Europa e vittoria della Guerra fredda. Bush, però, non intese approfittarne. Non sfruttò le disperate condizioni in cui versava l’agonizzante URSS – come certificarono tutti i rifiuti del Presidente americano di fronte agli inviti per recarsi a Berlino e celebrare il collasso sovietico – pensando, o forse volendosi illudere, che si potesse ancora mantenere in vita una Unione Sovietica debole, ma privata dell’impero. Nell’ottica di Bush, una soluzione del genere sarebbe convenuta fortemente agli Stati Uniti. L’America, infatti, non avrebbe dovuto gestire una vittoria globale, avrebbe conservato una sua nemesi ideologica, un nemico perfetto completamente indebolito eventualmente da avviare in futuro ad una democratizzazione, e non avrebbe corso il rischio di dover governare una disintegrazione violenta. Il treno della dissoluzione era però lanciato.
Si sa come andò a finire. Si consumò quella che Putin ha definito come la peggior catastrofe geopolitica del ventesimo secolo, la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il 26 dicembre 1991, la strategia del contenimento elaborata da George Kennan quasi quattro decenni prima durante l’esercizio Solarium aveva trionfato. Ma, raggiunta la vetta, la discesa della strategia americana era già iniziata.
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- H. Kissinger, Ordine Mondiale, Mondadori, Milano, 2023, pp. 274,275. ↩︎
- Il concetto di grand strategy si può definire in breve come una strategia di lungo periodo che non viene messa in atto soltanto attraverso gli aspetti militari, ma anche mediante l’impiego di forze politiche, economiche, psicologiche di una nazione assicurando il massimo sostegno all’azione politica per perseguire l’interesse nazionale in pace e in guerra. ↩︎
- Amplius, H. J. Mackinder, Il mondo intero e come vincere la pace, in La Russia e noi, www.limesonline.com, gennaio 1994. (articolo originariamente pubblicato su Foreign Affairs nel luglio 1943). ↩︎
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- L. Caracciolo, L’Europa non è europea, Editoriale, in Antieuropa. L’impero europeo dell’America, Limes, aprile 2019. ↩︎
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- L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli, Milano, 2022, p. 52. ↩︎
- M. Graziano, Disordine mondiale, cit., pp. 114 ss.; Report to the National Security Council by the Executive Secretary (Lay), Statement of policy by the National Security Council on United States objectives and courses of action with respect to the Southeast Asia, 25 giugno 1952, in Office of the Historian, www.history.state.gov. ↩︎
- L. Caracciolo, La pace è finita, cit., p. 63; M. Graziano, Disordine mondiale, cit., p. 115. ↩︎
- L. Caracciolo, C’era una volta il fronte occidentale, cit., p. 19. ↩︎
- H. Kissinger, Ordine Mondiale, cit., pp. 286 ss. ↩︎
- H. Kissinger, Ordine Mondiale, cit., p. 304. ↩︎
- H. Kissinger, Ordine Mondiale, cit., pp. 308 ss. ↩︎
- S. Cropsey, La U.S. Navy non basta ci servono alleati, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 103, 104. ↩︎
- H. Kissinger, Ordine Mondiale, cit., p. 308. ↩︎
- L. Canfora, Grandezza di Stalin e miseria di Gorbačëv, in La Russia e noi, www.limesonline.com, gennaio 1994. ↩︎
- M. Massari, Ricordi diplomatici dall’Urss di Gorbaciov, in www.limesonline.com, 2 settembre 2022. ↩︎
- L. Caracciolo, La pace è finita, cit., p. 101. ↩︎