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Il mondo di Trump

Analisi dei fronti strategici per gli Stati Uniti. In che modo Trump influirà su di essi e sui conflitti in corso?

1. Ucraina

Prendiamo le mosse dal fronte geograficamente più prossimo all’Italia, l’Ucraina. Durante la campagna elettorale, Trump ha ripetutamente affermato che, se fosse stato Presidente, la guerra non sarebbe mai esplosa. Fino a spingersi a dire che sarebbe in grado di far terminare il conflitto in 24 ore1. Su quest’ultima affermazione sospendiamo il giudizio in quanto è un’evidente provocazione. La prima invece potrebbe avere un fondo di verità. Come ha più volte fatto notare l’analista e docente di studi strategici Germano Dottori, la questione è che Trump riconoscerebbe legittimità alle sfere di influenza2.

Nell’ottica del Presidente americano, ciò avrebbe comportato il riconoscimento di Kyiv come appartenente alla sfera di influenza russa. Soluzione essenziale per Mosca per mantenere quella profondità difensiva tra sé e gli avversari – attualmente la NATO, ma è un concetto storicamente radicato in Russia – che da sempre ritiene necessaria per la propria sicurezza. Insomma, con Trump sarebbe stato più facile tracciare il confine di tali sfere di influenza, a differenza dell’amministrazione Biden, la cui politica estera, guidata da Anthony Blinken e Jake Sullivan, non riconosceva ideologicamente legittimità alle sfere di influenza. Tra i pilastri principali della “dottrina Biden”, infatti, vi era «l’enfasi sulla democrazia come comune denominatore», capace di unire i soggetti democratici in un ordine internazionale e «in una comunità organica», al cui vertice, chiesa sulla collina, vi sono gli Stati Uniti3. Riflessione di un mondo che, in realtà, sarebbe ormai terminato, ma che non poteva riconoscere legittimità alcuna ad una eventuale sfera di influenza di un Paese come la Russia putiniana. Cosa che Trump, invece, potrebbe fare.

Riuscire a prevedere l’agire dell’amministrazione Trump, e di Trump stesso, con una discreta dose di certezza è compito assai arduo. Per usare le parole dello storico Stephen Kotkin, che ha maturato l’esperienza di una vita studiando la storia della Russia e ha dedicato diversi scritti sui mutamenti che avrebbe portato la “Trump era”: «l’imprevedibilità di Trump potrebbe avere effetti in molte direzioni. Trump non ha alcuna posizione granitica sull’Ucraina. E quindi, in un certo senso, tutto è possibile. Potrebbe rivelarsi peggio per l’Ucraina, ma potrebbe rivelarsi meglio. È estremamente difficile da prevedere perché Trump è difficile da prevedere, persino per sé stesso. Sotto Trump si potrebbe persino vedere l’Ucraina entrare nella NATO, cosa che non sarebbe mai accaduta con Biden»4. Tentiamo dunque di scendere in profondità per vedere come si potrebbe sostanziare una soluzione à la Trump e come, invece, si pongono i critici di una tale risoluzione. Nonostante l’imprevidibilità sia la costante di The Donald e si legga spesso che il Presidente statunitense lascerà l’Ucraina in balia “del suo amico Putin”, si può ragionevolmente sostenere che è improbabile che Kyiv verrà consegnata alla Russia così facilmente. Tuttavia, è necessario prendere in considerazione anche quest’evenienza.

Le guerre, tendenzialmente, finiscono in due modi: o con la sconfitta definitiva di una parte, o con il congelamento della linea di combattimento dopo un prolungato stallo. Attualmente, né la Russia né l’Ucraina sembrerebbero avere le possibilità di vincere sul campo, sebbene le ultime notizie da parte ucraina da Pokrovsk siano tutt’altro che rassicuranti. Ma non si è neanche in una fase di vero e proprio stallo, visto che, in ogni caso, da più di dodici mesi – occupazione di una porzione dell’Oblast di Kursk a parte – l’iniziativa è in mano alla Russia. Se la presidenza Trump dovesse minacciare di tagliare definitivamente gli aiuti militari a Kyiv – cosa che, ad esempio, ha auspicato J.D. Vance ma che fonti interne all’ amministrazione avrebbero smentito – con l’attuale situazione sul campo la Federazione Russa premerebbe ulteriormente. «Un esercito che avanza e si trova di fronte un nemico più debole molto raramente rinuncia a proseguire il combattimento»5.

Da quanto emerge da un recente sondaggio del Pew Research Center, cresce la percentuale degli americani che pensano che gli USA stiano sostenendo costi troppo elevati per aiutare l’Ucraina, raggiungendo il 27% (nello specifico, tra i repubblicani si tocca il 42%, mentre tra i democratici la percentuale si attesta al 13%)6. Nell’amministrazione presidenziale vi sono voci come Musk e il già citato Vance, ma anche altri, ancor più radicali, secondo cui gli aiuti a Kyiv dovrebbero terminare immediatamente. Secondo alcuni, la presenza nell’amministrazione di membri di spicco che hanno fatto più volte esternazioni in contrasto con gli interessi ucraini – sino a definirle pro-Putin – sarebbe invece la conferma del fatto che Mosca avrà campo libero7.

Immagine 1: Sondaggio del Pew Research Center che mostra il pensiero degli americani riguardo agli aiuti all’Ucraina (fonte: Pew Research Center).

Tuttavia, dal momento che gli imperativi strategici statunitensi prescindono da eventuali posizioni politiche – e impedire che una potenza diventi egemone in Eurasia, cosa che avverrebbe se la Russia fosse libera di avanzare, è uno degli imperativi cruciali – è improbabile che Washington abbandoni Kyiv. I costi degli aiuti per l’Ucraina sono elevati: al 30 settembre 2024, il finanziamento totale degli Stati Uniti ammonta a quasi 183 miliardi di dollari, di cui 130,1 miliardi impegnati e 86,7 miliardi erogati8. Tuttavia, anche la nuova amministrazione è conscia delle conseguenze e dei costi di una Russia dilagante.

Considerata l’attuale impreparazione delle difese europee, perdurante nel prossimo futuro, l’abbandono dell’Ucraina al suo destino non risolverebbe i problemi legati ai costi che Washington ha sostenuto e dovrebbe continuare a sostenere. Non rifornire più Kyiv e abbandonarla, infatti, implicherebbe necessariamente un impegno americano in Europa molto maggiore. Dunque costi estremamente più elevati degli attuali. A prescindere dalle posizioni dei singoli membri del Governo, gli USA sarebbero chiamati ad interessarsi ancor di più all’Europa.

Analisti dell’American Enterprise Institute hanno calcolato che gli Stati Uniti, con la sconfitta dell’Ucraina e la minaccia russa che si farebbe più pressante una volta ricostituite le riserve di mezzi persi, dovrebbero aumentare le spese per la difesa di 808 miliardi di dollari nei successivi cinque anni9. Sono pienamente consapevoli di ciò a Washington: l’assistenza a Kyiv deve proseguire. Il flusso di armamenti e mezzi deve continuare. Considerato quanto è stato donato dagli USA, aumentare la mole delle forniture sarebbe complesso, come lo sarebbe un miglioramento in termini di qualità e potenza10. Sebbene Mosca abbia dichiarato innumerevoli volte il superamento delle proprie linee rosse, un aumento della tensione non è nell’interesse delle parti, specialmente della Casa Bianca. Ebbene, secondo quanto rivelato dal Financial Times, anche con l’amministrazione Trump gli aiuti per l’Ucraina rimarranno11. L’isolazionismo, ancora una volta, non sembrerebbe un’opzione.

2. Le possibili soluzioni

Iniziamo da una prima soluzione negoziale, che sembrerebbe la meno realizzabile, stando anche a quanto rivelato dal Financial Times da fonti vicine Donald Trump12. L’attuale linea del fronte dovrebbe essere congelata. L’Ucraina dovrebbe rinunciare ai territori occupati dalla Russia, non riconoscendo giuridicamente il passaggio in mano a Mosca, e ottenendo in cambio l’ingresso nella NATO. Si potrebbe obiettare che la Russia non accetterebbe mai un ingresso di Kyiv nell’Alleanza Atlantica. Tuttavia, secondo chi sostiene questa soluzione un’Ucraina nella NATO potrebbe essere una garanzia anche per la Russia. E qui entrerebbe in gioco Trump e le sue capacità negoziali, nonché il suo rapporto personale con Putin, che certamente è migliore di quello di Biden.

Secondo i sostenitori di questa opzione, l’Ucraina all’interno dell’Alleanza Atlantica non solo porterebbe benefici a quest’ultima grazie alla grande expertise militare acquisita. Allo stesso tempo, Kyiv sarebbe molto più controllabile: sarebbe costretta a ritirare i suoi uomini dall’Oblast di Kursk e, soprattutto, a rinunciare a mire di riconquista dei territori che, de facto, passerebbero in mano russa. Si tratta della Crimea, dell’Oblast di Donetsk e di parti degli Oblast di Kherson, Luhansk, Mykolayiv, e Zaporizhzhya. In cambio, però, si garantirebbe a Kyiv la possibilità, in futuro, di riunificare quei territori in via pacifica, come fatto con la Germania Ovest e la Corea del Sud.

Dal punto di vista russo, secondo chi sostiene questa soluzione, sarebbe gioco facile presentarla come una vittoria. Mosca soffre perdite elevatissime, sia umane che di mezzi, specialmente per quanto riguarda carri armati e veicoli per il trasporto truppe. Insieme ai racconti che provengono dai reduci, il numero crescente di caduti e feriti rischia di incrinare sempre più il sostegno della popolazione. Ciò non rende possibile proseguire il conflitto in maniera sostenibile sul lungo periodo. Inoltre, presumibilmente Mosca chiederebbe, come fatto con la Finlandia, che non vengano installate basi militari della NATO sul suolo ucraino. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, una situazione come quella sin qui descritta sarebbe vantaggiosa in quanto sarebbe possibile ridurre gli uomini dispiegati in Europa per concentrare maggiori forze nell’Indopacifico. Il fronte con la Russia verrebbe presidiato da truppe europee di concerto con quelle ucraine13. Queste ultime, come è stato esplicitato da Zelensky nelle parti rese pubbliche del piano di pace ucraino, verrebbero dispiegate lungo tutto il confine NATO-Russia, proprio per liberare alcuni uomini americani da destinare al fronte del Pacifico14.

Come detto in apertura, però, questa è la soluzione meno plausibile. È la stessa amministrazione Trump, come la precedente e non solo – basti vedere i molti membri dell’Alleanza Atlantica contrari – che avrebbe numerose riserve in merito all’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Per la Russia non sarebbe possibile iniziare delle trattative su queste basi. Lo scambio dei territori ucraini occupati con l’entrata ufficiale di Kyiv nel Patto Atlantico sarebbe inaccettabile.

L’opzione realista

Si dovrebbe perseguire, piuttosto, una soluzione improntata sul realismo.  Il discorso non dovrebbe vertere tanto sulle porzioni di territorio che rimarrebbero in mano a Kyiv e quelle che, giocoforza, passerebbero a Mosca15. Certamente la situazione sul campo sarà fondamentale per determinare su quale linea cesserebbero le ostilità. Con molta probabilità i territori controllati dalla Russia non saranno internazionalmente e giuridicamente riconosciuti come parte della Federazione. Tuttavia, una risoluzione del conflitto non si può risolvere in un cessate il fuoco, il discorso deve essere molto più ampio e articolato.

Un assunto principale: per risolvere un conflitto si deve definire l’obiettivo finale. L’amministrazione Biden è stata carente in tal senso, confusionaria e a volte anche sin troppo cauta16. Il fine dell’assistenza americana, come si è sentito più volte dallo stesso Joe Biden, era sostenere l’Ucraina fin quando sarebbe stato necessario, lasciando al governo ucraino la definizione degli obiettivi e dunque della vittoria. I comandi ucraini certamente avrebbero dovuto essere tenuti in considerazione rispetto alla definizione del fine della guerra. D’altronde sono gli uomini e le donne di Kyiv a combattere per il loro territorio. Tuttavia, sarebbe stato necessario definire a monte una strategia da seguire, e non limitarsi a reagire, navigando a vista, guidati dal vuoto “sostegno sino a quando sarà necessario”. Una mancanza del genere, in fronti in cui gli l’America era stata in precedenza similmente coinvolta, non si era mai vista. Riflesso della crisi – in questa sede ampiamente trattata – che sconvolge la strategia americana. Il primo punto da individuare è quindi il fine da perseguire con i negoziati. Una sconfitta totale della Russia, e dunque la sua cacciata dai territori occupati, seppur auspicabile, possiamo dire sia utopia. Un cessate il fuoco e una definizione dei confini non bastano. Un approccio realista deve ricomprendere nell’equazione tanto l’Ucraina quanto la Russia, guardando anche al terzo incomodo, la Cina.

Una risoluzione negoziale dovrebbe avere ad oggetto quattro elementi chiave: un accordo per il cessate il fuoco da cui partire, chiaramente; una garanzia credibile per la sicurezza dell’Ucraina; un modo per far sì che Mosca paghi per l’aggressione; e infine, misure per stabilizzare le relazioni tra Russia e Occidente, per ricostruire l’impalcatura di sicurezza euroasiatica. Si dovrebbero al contempo far pagare all’invasore alti costi in termini economici, ma non lo si dovrebbe trattare come il Paese sconfitto, a cui imporre i più pesanti oneri punitivi, come vorrebbero alcuni membri della NATO – vedasi Polonia e Baltici. La Federazione Russa deve essere infatti necessariamente ricompresa nella risoluzione, le sue posizioni devono essere ascoltate, senza appiattircisi.

Per quanto riguarda le credibili garanzie di sicurezza per l’Ucraina tali da dissuadere la Russia? Zelensky, in occasione dell’incontro del primo dicembre con Kaja Kallas (Alta Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza) e Antonio Costa (Presidente di turno del Consiglio Europeo), ha nuovamente espresso l’esigenza dell’ingresso nella NATO, per la sopravvivenza di Kyiv17. L’Alleanza Atlantica è sì entrata in Ucraina, ma questo non sarebbe sufficiente a garantire la sicurezza del Paese invaso. Il Presidente ucraino e altri membri della sua amministrazione hanno manifestato innumerevoli volte la necessità di esservi ammessi. Anche le dichiarazioni di luglio di Stoltenberg, secondo cui il cammino per l’ingresso dell’Ucraino nella NATO sarebbe irreversibilmente iniziato18, erano in tal senso. Tuttavia, la Casa Bianca e molti governi europei sono di diverso avviso.

Biden si è limitato a mere dichiarazioni – estremamente generiche – in base alle quali Kyiv, in futuro, entrerà nel Patto Atlantico. Il 46° Presidente americano, in un’intervista pubblicata su Time a luglio 2024, ha però aggiunto che una pace in Ucraina non significa entrare direttamente nella NATO19. Tuttavia, Biden, almeno a parole, non aveva mai chiuso ad un ingresso ucraino. In merito a ciò che succederà con Trump, cambierà la narrazione a suo modo, ma non la sostanza. Sebbene il Presidente americano non si sia ancora pronunciato direttamente sulla membership di Kyiv, considerate le informazioni trapelate e riportate dal Financial Times, si può dire con ragionevole certezza che l’ingresso ucraino nel Patto Atlantico sarà rinviato. Quanto meno, si legge, per i prossimi venti anni. Tenere fuori (formalmente) la NATO dall’Ucraina è stato indirettamente confermato anche nella conferenza di fuoco di Donald Trump a Mar a Lago del 7 gennaio 2024. Il neo-Presidente degli Stati Uniti ha affermato che, di fronte alle mancate esplicite chiusure di Biden in merito all’ingresso di Kyiv nell’Alleanza Atlantica, comprende le preoccupazioni della Russia per il rischio di avere la NATO «sulla porta di casa»20.

Proprio la neutralità di Kyiv – il suo non ingresso formale nella NATO – sarebbe una leva negoziale dirimente per portare Putin al tavolo delle trattative. Una delle motivazioni principali dell’invasione russa, tralasciando quelle ad uso e consumo interno come la “denazificazione” e l’operazione in soccorso della popolazione del Donbass, è stato proprio impedire l’entrata dell’Ucraina nel Patto Atlantico. Oltretutto, se anche l’ingresso ucraino fosse stata un’opzione effettivamente possibile sia con Biden che con Trump, sarebbe stata una strada estremamente tortuosa: «[far entrare un Paese nel blocco atlantico]È uno strumento politico goffo per porre fine a una guerra. L’adesione richiederebbe l’approvazione di 32 parlamenti, impiegando nel migliore dei casi mesi, e sarebbe subordinata all’attuazione da parte dell’Ucraina di molte riforme che non hanno nulla a che fare con la risoluzione del conflitto»21.

Ci si riferisce alle generiche previsioni richieste dal Piano d’Azione (Map) in base alle quali il Paese candidato deve impegnarsi per lo Stato di diritto e i diritti umani e deve esserci compatibilità tra la legislazione interna e quella dell’alleanza. Per entrambi i requisiti la strada dell’Ucraina sarebbe molto in salita. Non considerando le adesioni avvenute in tempo record di Svezia e Finlandia (entrambe soddisfacevano a pieno da molto tempo tutti i requisiti militari, tecnici e politici) e prendendo come esempio l’ingresso di Paesi meno integrati negli ordinamenti occidentali come il Montenegro o la Macedonia del Nord, le tempistiche per entrare si allungano sino a dieci anni. Un orizzonte temporale troppo lungo per garantire efficacemente la sicurezza ucraina.

Per dissuadere la Russia nell’immediato e tutelare Kyiv, le vie più realistiche sarebbero due. Innanzitutto, devono necessariamente essere siglati accordi di sicurezza bilaterali con gli USA. Il modello deve essere quello dei patti tra Washington e Corea del Sud o Israele, capaci di scoraggiare con grande efficacia i loro bellicosi avversari22. Kyiv deve siglare simili accordi anche con altri membri della NATO, convinti sostenitori della causa ucraina e dotati di forze armate di alto livello e prontezza, come Gran Bretagna (che già si è impegnata in tal senso), Polonia e Francia. Inoltre, l’Ucraina dovrebbe entrare nell’Unione Europea. Non solo per ricevere aiuti finanziari ed economici ed essere integrata nel mercato comune – nonostante le vibranti proteste degli agricoltori polacchi; ma anche perché comunque, sebbene non sia paragonabile all’art. 5 del Patto Atlantico, l’articolo 42.7 del Trattato sull’Unione Europea garantisce una mutua assistenza in caso di aggressione. La Russia poi non si opporrebbe ad un ingresso di Kyiv nell’UE, come dimostrato dalla presenza di tale proposta nella bozza di accordo di Istanbul dell’aprile 202223.

Oltre agli accordi securitari con Paesi terzi, la sicurezza ucraina deve essere garantita tramite una cospicua e continua fornitura di armamenti. Le forze armate ucraine devono essere pronte a difendere con efficacia il proprio territorio. In questo ambito, la Russia ha più volte sottolineato il fatto che l’Occidente starebbe fornendo all’Ucraina armi offensive. Sebbene la distinzione tra armamenti difensivi e offensivi sia sfumata, dato che in una trattativa si devono ricomprendere in parte anche le ragioni dell’avversario, si potrebbero fornire quegli armamenti qualificabili più come difensivi. Come si fa con Taiwan, si dovrebbe rendere l’Ucraina un “porcospino” (citando la denominazione data alla strategia difensiva taiwanese). Trump sembrerebbe averlo compreso.

Si dovrebbe poi fare in modo che la Russia sopporti elevati costi economici, per dissuadere anche altri Paesi dall’invadere Stati vicini. Pertanto, per costringere la Federazione Russa a trattare si dovrebbero mantenere le sanzioni. Per alcuni, come per Chapman, l’apparato sanzionatorio dovrebbe essere in parte ridotto – andrebbe presa parzialmente in considerazione la richiesta russa di una loro eliminazione. Per altri, invece, come per Polyakova, l’apparato sanzionatorio dovrebbe essere ulteriormente aumentato per mettere più pressione su Mosca, coinvolgendo maggiormente il settore bancario e accrescendo le sanzioni secondarie24.

Nonostante la resilienza dell’economia russa, il sistema sanzionatorio sul lungo periodo avrà effetto, anzi, in parte già lo sta avendo. Ne sono esempio il piano per tagliare il 40% dei lavoratori della sede centrale di Gazprom e il fatto che, in conseguenza delle ultime sanzioni adottate dagli Stati Uniti, le raffinerie indiane e quelle cinesi hanno interrotto l’importazione di petrolio russo. Attraverso quest’ultimo pacchetto sanzionatorio adottato dall’amministrazione Biden, sono state colpite direttamente le compagnie petrolifere russe che usano le flotte “ombra” per esportare petrolio25. Per capire quanto sia rilevante l’estromissione dal mercato indiano e cinese, nel 2024 Pechino ha acquistato dalla Russia il 20% del totale del greggio importato, mentre per Nuova Delhi la percentuale si alza sino al 36%26.

Inoltre, i 300 miliardi di dollari di asset russi congelati dovrebbero essere usati per la ricostruzione dell’Ucraina. «Con ogni probabilità, [la Russia] è conscia del fatto che quegli asset non saranno più nelle sue disponibilità»27. Dunque, garantire a Mosca che, a parte i 300 miliardi già congelati da destinare alla ricostruzione e il mantenimento di alcune sanzioni in settori non vitali, non le saranno imposti altri costi, potrebbe essere un’opzione accettabile. Allo stesso tempo, si dovrebbe andare incontro alla richiesta russa di non stabilire basi straniere né dislocare truppe sul suolo ucraino (se non eventuali forze di interposizione di pace lungo la futura linea di confine demilitarizzata).

Veniamo all’ultimo punto che la delegazione americana, guidata dall’inviato speciale per la guerra in Ucraina Keith Kellogg, dovrebbe affrontare: la ridiscussione del sistema di sicurezza europeo, e dunque i rapporti tra NATO e Federazione Russa. «Stabilire un tale processo non è un regalo alla Russia; farebbe anche gli interessi occidentali, poiché qualsiasi accordo duraturo richiederà la gestione di tensioni più ampie tra Russia e Occidente»28. Mosca intende essere riconosciuta come una potenza globale. Non per sfidare gli Stati Uniti e prenderne il posto – la Russia non avrebbe né le capacità né la forza di farlo, e sa quale si il prezzo da pagare per essere l’egemone universale – ma per potersi sedere al tavolo con Washington. Non più mera potenza regionale come definita da Obama nel 2014.

Ridisegnare l’architettura di sicurezza euroasiatica non vorrebbe dire piegarsi alle volontà russe, tutt’altro. Il confine con la Federazione Russa andrebbe ulteriormente rafforzato, implementando le capacità di risposta rapida e le difese dei Paesi europei. Scopo: dissuadere la Russia da eventuali attacchi, anche solo per saggiare le difese europee in aree che si potrebbero ritenere più deboli, come i Paesi Baltici e il vicino corridoio di Suwałki. Allo stesso tempo, alla Russia si dovrebbe garantire quella sfera in cui la NATO non dovrebbe formalmente entrare, come visto sopra in Ucraina ma anche in Georgia. Kyiv e Tbilisi, invece, dovrebbero invece entrare nell’Unione Europea.

Immagine 2: Il corridoio di Suwałki e la presenza delle truppe NATO nei Paesi Baltici (Fonte: The Times & The Sun).

Raggiungere un accordo che tocchi tutti questi punti sarà complesso e impiegherà tempo. Per questo l’orizzonte temporale sarà, prevedibilmente, di un anno, non di un giorno come da sparata trumpiana. E non è detto che si arriverà effettivamente ad una soluzione. Lo stesso Mykhailo Podolyak, primo consigliere di Volodymyr Zelensky, si è mostrato piuttosto scettico sulla conclusione positiva di eventuali negoziati: «Si parla molto di negoziati, ma è un’illusione. Non potrà aver luogo nessun processo negoziale perché alla Russia non sono stati fatti pagare costi abbastanza elevati»29. Un’ulteriore difficoltà sembrerebbe essere la condizione dichiarata da Putin nella conferenza tenuta il 19 dicembre, ossia che la Russia è pronta al dialogo, purché con le legittime autorità ucraine30. Ciò significa che la controparte può essere anche Zelensky, ma, dato che il suo mandato è finito da tempo causa legge marziale, per il Cremlino sarebbero necessarie nuove elezioni. Oltre alla certezza di allungare i tempi, ciò causerebbe l’elevato rischio di ingerenze russe nelle elezioni ucraine.

Il riavvicinamento della Russia, seppur non un suo pieno reintegro e con alti costi da imporle, è nell’interesse statunitense, ma anche, in parte, russo31. In entrambi i casi, è implicata la Repubblica Popolare Cinese.

3. Cina e Indopacifico

Riavvicinare la Russia sembrerà un controsenso dal 24 febbraio 2022, ma è un obiettivo che gli Stati Uniti, specialmente sotto Trump, perseguiranno fortemente. Il motivo? Separare, la coppia sino-russa – che coppia rimane, di certo non è alleanza. «L’unica circostanza che veramente non si desidera che si verifichi è l’unione tra Russia e Cina. Sarà necessario separarle, e sono convinto di poterlo fare»32. Questa è una parte delle dichiarazioni fatte da Donald Trump lo scorso ottobre in un’intervista rilasciata a Tucker Carlson. Il 47° Presidente americano ritiene – come d’altronde faceva anche Joe Biden – che l’avversario strategico per Washington sia Pechino, l’unica potenza effettivamente globale, che può sfidare il primato statunitense. Per questo, molti consiglieri e membri dell’entrante nuova amministrazione sostengono che si debba mettere in atto una strategia simile a quella orchestrata da Henry Kissinger.

La coppia da separare rimane Russia-Cina, ma oggi si dovrebbe operare all’opposto, avvicinando la Russia. Pechino, da cui Mosca sostanzialmente dipende, trae infatti cruciali benefici dall’unione con la Federazione Russa: dalla vendita di gas e petrolio (la Cina non è autonoma dal punto di vista energetico) a prezzi ben al di sotto di quelli di mercato; alla possibile, se non probabile, fornitura di informazioni fondamentali per migliorare l’arsenale missilistico cinese – almeno in questo settore, i russi sono piuttosto avanti rispetto alle altre potenze. Mosca potrebbe anche fornire a Pechino l’expertise necessaria per sviluppare una flotta di droni kamikaze – che ormai la Russia starebbe producendo autonomamente sulla base degli Shahed 136 iraniani – utile per saturare le difese taiwanesi. Infine, un appiattimento della Russia sulla Cina aprirebbe la strada della rotta artica alla Repubblica Popolare, soluzione che le darebbe un vantaggio cruciale sugli USA. L’Europa sarebbe infatti raggiungibile in un terzo del tempo attualmente necessario. I motivi che portano Trump a insistere con veemenza sulla necessità di acquistare la Groenlandia sono proprio per colmare il vantaggio che la Cina sarebbe in procinto di avere. Con la Groenlandia, infatti, oltre a ottenere cospicue risorse energetiche e minerarie (soprattutto per le fondamentali terre rare), anche gli Stati Uniti potrebbero accedere alla rotta artica.

Immagine 3: L’aereo con cui Donald Trump Jr., ik figlio maggiore di Trump, a gennaio è atterrato in Groenlandia (fonte: Reuters).

L’apertura della rotta nell’Artico permetterebbe alla Repubblica Popolare di aggirare il sistema di contenimento statunitense basato sul controllo dei colli di bottiglia (dei choke points, come si direbbe a Washington), degli stretti – nel caso della Cina, dello Stretto di Malacca e di Taiwan su tutti33.

I motivi per intervenire e separare la coppia sino-russa, specialmente in un momento in cui l’economia cinese è in contrazione, insomma, sarebbero molti. Anche nelle stanze del potere russo si guarderebbe con favore alla fine del completo appiattimento sulla, e dipendenza dalla, Cina. Nell’élite di governo russa è comune la concezione dei cinesi come inferiori dal punto di vista etnico (anzi, proprio razziale), al di là delle retoriche di fuoco antioccidentali. Inoltre, “la grande Russia” così schiacciata e dipendente da un altro Stato non piace affatto. Men che meno se quello Stato è la Cina, con cui si condivide un confine lungo oltre 4250 km che, specialmente nella zona del fiume Amur e nella Siberia meridionale, ha visto numerose, violente, dispute territoriali. Pechino non ha mai abbandonato le mire su questi territori russi, tant’è che i toponimi cinesi delle città russe sono ancora tutti in cinese. Non proprio un amico di confine.  

Per l’analista Alexander Gabuev, la volontà di dividere russi e cinesi rimarrebbe però nell’alveo delle mere intenzioni di Trump. Gabuev sostiene che una strategia a là Kissinger non sarebbe praticabile. Un eventuale accordo sull’Ucraina non sarebbe affatto facile da raggiungere, e, se anche si trovasse una soluzione negoziale, avvicinare la Russia vorrebbe dire darle un sostegno economico tale da poter sostituire Pechino. Ciò significherebbe sostanzialmente azzerare le sanzioni, riaprire al transito del gas e aumentare il commercio bilaterale tra occidente e Federazione Russa. In poche parole, business as usual.

Se anche l’amministrazione Trump decidesse di procedere in tal senso, in primis si dovrebbero convincere i Paesi europei. Molti di questi, specialmente per quanto riguarda la dipendenza energetica, sarebbero estremamente scettici su una tale ripresa delle relazioni con Mosca. In secundis, la stessa Russia potrebbe non essere interessata a questa opzione. Servirebbero molti anni, non si potrebbe concludere nei quattro anni di presidenza Trump. È possibile anche che, poiché l’attuale Presidente americano non si potrà ricandidare, chi gli succederà possa sconfessare del tutto la politica aperturista nei riguardi della Russia, specialmente se democratico. Insomma, le insidie per una strategia di questo tipo sono molte, ma una cosa, per alcuni, è assai probabile: con Trump la postura nei confronti della Cina si farà ben più aggressiva di quella della precedente amministrazione.

Biden avrebbe sempre mantenuto attivi i canali di dialogo con la Repubblica Popolare, specialmente tra Jake Sullivan (Consigliere per la sicurezza nazionale) e Wang Yi, Ministro degli Esteri cinese, sino all’ultimo incontro di novembre 2023 tra Biden e Xi Jinping. Anche le crisi relative a Taiwan sono state gestite con l’obiettivo, comunque, di mantenere una certa stabilità e prevedibilità nelle relazioni sino-statunitensi34. In breve: coesistenza e competizione strategica, portando avanti, rafforzando e difendendo gli interessi e i valori americani. Senza avere come obiettivo ultimo il cambio di regime a Pechino. D’altronde, negli USA c’è un crescente e diffuso consenso in merito al fatto che «l’era del dialogo con la Cina si sia conclusa senza cerimonie»35.

Il piano di Biden prevedeva il contenimento della Cina a partire dall’economia, mantenendo – anzi aumentando – i dazi e un decoupling crescente ma parziale. Poi, sono state prepotentemente rafforzate le alleanze e partnership con le democrazie asiatiche. Con Biden, dunque, da una parte si è tentato di mantenere il dialogo con la Cina, anche in periodi di crisi gravi come quello successivo alla visita a Taipei di Nancy Pelosi del 2 agosto 2022. L’obiettivo era stemperare la tensione mantenendo la situazione stabile, anche se, però, i rapporti si erano parecchio incrinati da quel momento in poi. Dall’altra parte, gli USA hanno incrementato il contenimento nei confronti di Pechino. Le partnership strategiche nel Pacifico sono state rafforzate, tanto quelle plurilaterali come il QUAD (con India, Giappone e Australia) e l’AUKUS (comprendente Australia e Regno Unito, forgiato proprio da Biden), quanto bilaterali, con Filippine Corea del Sud e Giappone. Di più: durante gli ultimi quattro anni sono state proficuamente approfondite le relazioni con altri Paesi chiave per il contenimento della Cina, come Indonesia, Vietnam e di nuovo l’India, da tutti molto corteggiata36.

Allo stesso tempo, sono stati aumentati i fondi stanziati per la difesa di Taiwan, frenando le sue istanze autonomiste e spingendo sul mantenimento dello status quo37. Insomma, per la precedente amministrazione la Repubblica Popolare è stata la minaccia principale, globale, ma è lungi dall’essere pericolo esistenziale come l’Unione Sovietica. Sarebbe impensabile sovvertire il sistema politico a Pechino. La Cina è infatti troppo inserita nei meccanismi economici e industriali globali, specialmente europei e americani. La situazione economica interna in Cina, sebbene in crisi, non sarebbe minimamente paragonabile a quella dell’URSS di fine anni Ottanta. Se la minaccia militare cinese è certamente molto meno pronunciata rispetto a quella sovietica, è però in forte crescita. Basti pensare alla modernizzazione in tutti i settori delle forze armate cinesi: la produzione di nuove portaerei, di nuovi caccia di quinta e, probabilmente, di sesta generazione, l’espansione dell’arsenale nucleare che, secondo le previsioni, nel 2030 supererà i mille missili intercontinentali operativi38. Si deve fare tesoro dell’insegnamento della Guerra fredda e della strategia del contenimento di “kenneniana” memoria, ma quel risultato, nell’attuale contesto, non sarebbe più replicabile39.

Di diverso avviso è l’altro partito a Washington, o almeno una parte di esso, in cui rientrano molti componenti dell’amministrazione Trump, primo tra questi il nuovo Segretario di Stato Marco Rubio, ma anche Mike Waltz (Consigliere per la sicurezza nazionale) e John Ratcliffe (capo della CIA). La postura assunta nei confronti della Cina non si deve limitare ai dazi40. Questi ultimi è quasi certo che cresceranno: durante l’estate Trump ha minacciato di aumentare sino al 60% i dazi su tutte le merci cinesi. Dopo la vittoria elettorale, ha aggiunto che accrescerà del 10% tutti i dazi presenti, già ulteriormente incrementati dall’amministrazione Biden. Sono e saranno oggetto di diritti doganali settori strategici come quello dei microchip, in cui la Cina, dalla quale gli USA intendono diventare autonomi, è leader mondiale. Proprio nei confronti dei microchip, il 2 dicembre 2024 Biden ha ordinato un’ultima serie di misure di controllo delle importazioni, a cui Pechino ha immediatamente risposto con un divieto di esportazione di minerali critici come gallio, germanio e antimonio. La guerra dei dazi è pronta per essere portata ad un altro, pericoloso, livello.

È molto probabile quindi che Trump si collocherà su una linea più dura e massimalista, simile a quella espressa da Matthew Pottinger (ex Viceconsigliere per la sicurezza nazionale) e Mike Gallagher (membro della Camera dei Rappresentanti per lo stato del Wisconsin dal 3 gennaio 2017 al 20 aprile 2024). Pensiero efficacemente riassunto nel titolo del loro scritto programmatico, pubblicato su Foreign Affairs: «Non c’è alternativa alla vittoria». Secondo i due autori, gli Stati Uniti starebbero attraversando una nuova Guerra fredda. Pertanto, la postura assertiva correttamente assunta da Joe Biden dovrebbe essere ancor più dura, eliminando il dialogo volto a mantenere stabilità tra le due potenze. La competizione per il primato che la Cina avrebbe intrapreso non si deve gestire ma vincere. Pottinger e Gallagher non nominano mai direttamente il crollo della Cina, un cambio di regime a Pechino da provocare attivamente. Tuttavia, l’intento, deciso e assai pericoloso, è piuttosto palese: rendere la Repubblica Popolare un Paese “normale”, «una Cina che sia in grado di tracciare la propria rotta libera dalla dittatura comunista»41. Rollback 4.0.

Per perseguire questo obiettivo, il contenimento deve essere portato ad un livello superiore. si devono aumentare i dazi, e allo stesso tempo si deve effettuare un totale disaccoppiamento dall’economia cinese a livello di occidente intero – ardua impresa, soprattutto convincere i Paesi europei – in modo da superare il ricatto economico di Pechino. Il rafforzamento e la creazione di partnership strategiche nel Pacifico portati avanti da Biden sono da approfondire, ma non ci si deve limitare a ciò. Pechino, dal momento che per chi sostiene questa linea oltremodo oltranzista si starebbe fuor di dubbio preparando per muovere guerra su Taiwan, sta implementando e ammodernando le proprie forze armate a ritmi serrati. Il deterrente statunitense nell’Indopacifico non avrebbe più le capacità di dissuasione tali da impedire un’azione militare cinese. Gli USA devono quindi aumentare sensibilmente i fondi per la difesa da destinare al rafforzamento dell’INDOPACOM (il comando unificato delle forze armate nell’Indopacifico). Allo stesso modo, si devono fortemente migliorare, nell’immediato, anche i sistemi di difesa informatica. Per mettere in sicurezza tale settore dai cyberattacchi, giocherebbe un ruolo centrale la connessione satellitare garantita da SpaceX di Musk.

Secondo alcuni, però, «l’ostacolo più significativo nell’attuazione di un [tale] approccio competitivo potrebbe essere la propensione di Trump stesso a concludere accordi, a fare transazioni e a rivolgersi nei confronti del Presidente Xi Jinping con espressioni di apprezzamento, se non adulatorie»42. La propensione al pragmatismo imprenditoriale di Trump potrebbe far saltare l’approccio massimalista, attraverso il quale si intende colpire la Cina ad ogni livello. Ed è proprio questo l’aspetto di Trump che gli analisti cinesi sperano possa prevalere43. Si deve segnalare che, almeno nei primissimi giorni, la nuova presidenza americana non si è soffermata sulla Cina, per concentrarsi più sulle questioni interne. Non sono stati incrementati immediatamente i dazi come promesso, è stata sospesa per 90 giorni la chiusura di TikTok che era prevista per il 19 gennaio, e la prima, lunga, telefonata con Xi Jinping è stata definita da Trump come «ottima». Insomma, non proprio un inizio confortante per i repubblicani falchi anticinesi.

Il punto di vista della Repubblica Popolare

Si diceva di Elon Musk. Proprio il miliardario sudafricano potrebbe essere un altro ostacolo per la postura intransigente nei confronti di Pechino che molti repubblicani vorrebbero. A ottobre 2019 Musk ha aperto la gigafactory di Shangai, uno dei più grossi impianti di Tesla al mondo, capace di produrre più di 750.000 veicoli l’anno. Non solo. Lo sterminato impianto produttivo di Shangai è l’unico caso in Cina in cui una casa automobilistica straniera è proprietaria dell’intera fabbrica, senza la costituzione di una joint venture con una compagnia cinese. Il mercato cinese, insomma, è oro per Tesla. La Repubblica Popolare è conscia dell’importanza strategica delle aziende di Musk e del suo ascendente su Trump. A Pechino tenteranno dunque di usare il proprietario di Tesla come grimaldello per superare le posizioni dei falchi anticinesi, ben rappresentati tra i repubblicani44.

Sempre per questo motivo, secondo quanto riferito da Bloomberg, il governo cinese vorrebbe cedere a Musk la gestione di TikTok in America per evitare la chiusura del social sul territorio statunitense – non più a partire dal 19 gennaio 2025, ma nei tre mesi successivi. Una soluzione del genere confermerebbe quanto il celebre social sia cruciale dal punto di vista strategico per la Repubblica Popolare. La smentita di ByteDance, la società che ha sviluppato e gestisce TikTok (in Cina chiamato Douyin), è stata però secca. Ma tant’è. La voce è stata fatta circolare ormai, e se ByteDance dovesse riuscire a salvarsi, anche cedendo la gestione di TikTok USA direttamente a Musk, tutti saprebbero verso chi guardare. Il possibile viatico Musk, dunque, evidenzia il timore serpeggiante a Pechino. Aumentare, e molto, i dazi già presenti è infatti motivo di grave preoccupazione nella Repubblica Popolare Cinese.

L’andamento economico della Repubblica Popolare non sembra capace di risollevarsi nel breve periodo, come confermato anche da analisti cinesi. Il tasso di crescita realisticamente anche quest’anno non supererà l’obiettivo del 5% – percentuali che in Italia sembrano altissime, ma che in Cina non lo sono affatto. Il mercato immobiliare prosegue la sua crisi, con una diminuzione del 66% della superficie destinata alla costruzione di nuovi edifici. Ciò provoca, a catena, una crisi negli altri settori legati alla costruzione di palazzi, su tutti quello edile. Inoltre, la Cina non è riuscita a rendersi maggiormente autonoma dalle esportazioni attraverso lo sviluppo di un mercato interno la cui domanda possa sostituire, almeno in parte, quella estera. Anche nel campo in cui la Repubblica Popolare era in una condizione piuttosto favorevole – la produzione di microchip – il vantaggio sugli USA si è assottigliato, specialmente grazie all’adozione nel 2022 del Chips Act e dell’Inflation Reduction Act45.

La Repubblica Popolare non sembrerebbe potersi permettere di aumentare gli attriti con gli Stati Uniti. È assai probabile, anzi, che tenterà di avvicinare Trump, tramite Musk, allontanandolo dai falchi Rubio e Waltz. Ad ogni modo, se la Cina non alzerà il livello dello scontro diretto con l’America, nell’ultimo anno sta iniziando a mettere pressione nel continente americano, il giardino di casa di Washington. Per anni si è parlato della presenza di basi cinesi a Cuba, senza però poterne avere evidenza. Poi, nel 2023, alcuni funzionari americani avevano rilasciato dichiarazioni ufficiali in base alle quali gli USA avevano contezza della presenza di basi di Pechino sull’isola caraibica. Ebbene, un report pubblicato dal Center for Strategic and International Studies a dicembre 2024 ha confermato, in base ad approfondite analisi satellitari e non, la presenza a Cuba di quattro siti per la raccolta di dati di intelligence – precisamente di tipo SIGINT46.

La Repubblica Popolare non si è limitata all’intelligence a Cuba. L’America Latina da tempo attira gli interessi cinesi, specialmente per la presenza di risorse minerarie e alimentari. Dal 2024 Pechino ha quindi notevolmente aumentato la propria presenza in Sud America attraverso l’inaugurazione della costruzione del grande porto peruviano di Chancay, avvenuta alla presenza di Xi Jinping. Tale porto è controllato al 60% da Cosco, colossale compagnia (di Stato) cinese che si occupa di servizi di spedizioni e di logistica. Questa inaugurazione in Perù, Paese entrato nelle Nuove Vie della Seta nel 2019, è di cruciale importanza: è «il più grande scalo marittimo della costa occidentale del Sud America e il primo qui a essere gestito da una società della Repubblica Popolare». Ma soprattutto, Pechino potrà aggirare più agevolmente il contenimento marittimo statunitense47.

Non solo Perù. La Cina è sempre di più anche a Panama. I porti alle due estremità del canale, che dal 1999 è passato definitivamente sotto il controllo panamense, sono ora controllati da due società cinesi, Landbridge Group e la hongkonghese CK Hutchison Holdings. Ciò che preoccupa l’America è il possibile uso duale, anche militare e di intelligence, che Pechino può fare di questi due terminali. Non solo, controllando i due porti alle estremità del Canale di Panama, la Repubblica Popolare potrebbe un domani spingersi sino a chiudere il canale, facendo venire meno uno dei principali imperativi strategici americani, ossia il controllo degli stretti. Inoltre, rispetto al Trattato sulla permanente neutralità e operabilità del Canale siglato tra Stati Uniti e Panama nel 1977, dal punto di vista americano Panama non starebbe rispettando due punti fondamentali: la neutralità, che sarebbe venuta meno a causa della concessione alla Cina per i porti alle estremità del Canale e della firma nel 2017 del memorandum sulle Vie della Seta; e l’applicazione di tariffe troppo elevate. Secondo la generica formulazione pattizia, le tariffe nei confronti degli USA devono essere «giuste, ragionevoli, eque e nel rispetto del diritto internazionale»48. Per Washington non rispettano nessuno di questi parametri. La questione Canale di Panama-Cina esiste, e per gli USA è seria.

Immagine 4: Nave che attraversa il Canale di Panama (fonte: Getty Images)

Roboanti dichiarazioni di Trump a parte, anche il Canada è diventata una preoccupazione per gli USA. Anche in questo caso il motivo è la Cina. Pechino infatti si è interessata ad Ottawa nell’ambito di questa offensiva commerciale sul continente americano. Lo scorso luglio, il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha invitato in Cina l’omologa canadese, la prima visita negli ultimi sette anni sul territorio cinese di un Ministro degli Esteri di Ottawa. Il Canada ha accettato l’invito, cosa che già sottolineava la volontà di non chiudere a priori a Pechino. Poi, di fronte alla proposta di Wang Yi di riprendere non solo i rapporti tra le due nazioni, ma di creare anche una partnership economica strategica tra Pechino e Ottawa, quest’ultima non ha declinato come avrebbero voluto gli USA49. Washington infatti non può assolutamente rischiare la creazione di forti e stabili rapporti tra il Canada e la Repubblica Popolare.

In chiusura, Taiwan e il Mar Cinese Meridionale. La Cina ha proseguito e proseguirà le grandi esercitazioni aeronavali intorno a Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale. Da quando Nancy Pelosi si è recata a Taipei nell’agosto del 2022, Pechino ha esponenzialmente aumentato il numero e l’imponenza delle esercitazioni nelle due aree di cui sopra. La posizione ufficiale cinese, più volte sottolineata, è stata che si è trattato sempre di manovre militari in risposta a provocazioni altrui, vuoi degli USA, vuoi del Governo taiwanese.

Anche negli ultimi mesi, la Repubblica Popolare ha condotto due importanti simulazioni aeronavali. Una a fine ottobre 2024, quando per la prima volta è stata effettuata una esercitazione nel Mar Cinese Meridionale con il gruppo d’attacco al completo di due portaerei, la Liaoning e la Shandong50. L’altra, intorno a Taiwan, tra il 9 e l’11 dicembre. Questa è stata la più vasta esercitazione condotta nelle acque taiwanesi. Con le oltre 90 navi della marina cinese e le dozzine di aerei militari coinvolti, l’isola è stata nuovamente circondata, simulando quel blocco navale e aereo che renderebbe impossibile il rifornimento di Taipei51.

Scopo di queste esercitazioni, attraverso le quali vengono simulati scenari di combattimento in maniera sempre più realistica, non è solo affermare che Taiwan e il Mar Cinese Meridionale rientrano nella zona di influenza cinese. Taipei sarebbe proprio parte della Cina, ha nuovamente stabilito Xi Jinping nel discorso di fine anno, aggiungendo che nessuno può fermare la riunificazione con Taiwan52. Attraverso le esercitazioni Pechino gioca con l’ambiguità. Aumentare realismo, vastità e numero delle simulazioni militari, spesso neanche ufficialmente annunciate, per mettere l’America (eventualmente) davanti al fatto compiuto, non dandole tempo per una reazione. Sempre nel caso in cui non si riuscisse a unificare Taiwan per vie pacifiche, soluzione indubbiamente preferita a Pechino.

Nonostante Xi Jinping prosegua con retorica e azioni molto aggressive nei confronti di Taiwan, Trump, almeno per ora, non ha dato rassicurazioni a Lai Ching-te, Presidente taiwanese. Anzi, se possibile ha accresciuto le sue preoccupazioni. In estate, Donald Trump ha affermato che Taipei avrebbe compiuto un furto nei confronti dell’industria di microchip statunitense e che il budget della difesa taiwanese dovrebbe essere aumentato sino al 10%. Trump ha anche aggiunto che l’isola dovrebbe pagare per la protezione che l’America le fornisce. Dichiarazioni non tranquillizzanti, e che potrebbero fare il gioco della Cina. Se il Presidente americano dovesse proseguire ambiguamente nei riguardi di Taipei, Pechino potrebbe agevolmente rafforzare la posizione che intende diffondere tra la popolazione di Taiwan: gli USA non hanno a cuore la questione taiwanese, non difenderanno mai l’isola.

In realtà, è molto improbabile che gli Stati Uniti cambino drasticamente linea. L’isola è infatti troppo importante per il contenimento della Cina nell’Oceano Pacifico insieme ai vicini partner Filippine, Giappone e Corea del Sud, A questi Trump ben potrebbe chiedere un maggior impegno diretto per limitare l’accesso di Pechino al Pacifico. Pertanto, Washington continuerà a sostenere lo status quo di Taiwan, una indipendenza de facto, senza spingere verso una de iure, frenando eventuali scatti in avanti del Partito Progressista Democratico di Taiwan.

Su questo fronte la Cina non si aspetta cambiamenti drastici della postura americana. Anzi, secondo alcuni il 47° Presidente americano non rappresenterebbe un pericolo vitale per la Repubblica Popolare. Affrontare Trump sarebbe più facile rispetto a Biden non solo per via del suo approccio affaristico e imprenditoriale, che potrebbe portarlo a trattare – come spera Pechino per avere maggior spazio di manovra – i singoli dossier piuttosto che affrontarli globalmente. Una presidenza Trump potrebbe avere risvolti positivi per la Cina anche perché le valutazioni ideologiche – democrazia vs autocrazia – non rientrano minimamente nell’ottica del magnate newyorkese. Di conseguenza, lo scontro probabilmente si sostanzierebbe “solo” in un aumento della pressione per il tramite dei partner e satelliti americani nell’Indopacifico, concentrandosi principalmente sul terreno economico e tecnologico. Insomma, a differenza di quello che pure molti sostengono, nessuna nuova Guerra fredda tra Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti è alle viste53.

4. Medio Oriente

Ultimo, incandescente fronte, il Medio Oriente. Qui l’intento americano è realizzare l’equazione israeliani (e quindi americani) dentro, iraniani fuori e sauditi sotto (l’orbita statunitense), con l’incognita turca. Ci perdonerà Lord Ismay, primo Segretario generale della NATO, a cui si deve attribuire il motto originario dell’Alleanza «Americani dentro, russi fuori, tedeschi sotto». L’amministrazione Trump è pronta a contenere ferocemente la Repubblica Islamica, che sta uscendo fortemente ridimensionata dall’attuale offensiva a tutto campo di Israele.

L’interesse americano si è nuovamente palesato in occasione del cessate il fuoco siglato tra Israele e Hamas. L’accordo, il cui testo è da attribuire alla lunga elaborazione dell’amministrazione Biden, è stato sottoscritto principalmente grazie al lavoro di convincimento e persuasione dell’allora entrante amministrazione Trump. The Donald ha messo da parte la personale vicinanza con Netanyahu, ponendo un freno alle politiche di espansione e controllo perseguite dal governo israeliano per un fine principale: riprendere gli accordi di Abramo con le monarchie del Golfo, fermati in seguito alla brutale rappresaglia israeliana, ed estenderli, oltre ai già presenti Emirati Arabi e Bahrein, anche agli altri Stati della regione, Arabia Saudita su tutti. L’obiettivo è il riconoscimento di Israele da parte delle petromonarchie e la normalizzazione dei suoi rapporti con i Paesi del Golfo, situazioni che non sarebbero realizzabili senza una soluzione più o meno duratura per Gaza54.

La ripresa degli Accordi di Abramo è funzionale anche (e soprattutto) a portare nell’ orbita e sotto l’ombrello di Gerusalemme Emirati Arabi, Bahrein e soprattutto, di nuovo, l’Arabia Saudita. Collocare Riad definitivamente sotto l’influenza israeliana, e dunque statunitense, sarebbe cruciale per l’America in funzione anti-iraniana. In tal modo, infatti, Teheran sarebbe ancor più isolata di quanto non lo sia già e, con l’ingresso dell’ambiziosa Arabia, si rafforzerebbe ulteriormente il blocco contro l’Iran. Trump in persona nei confronti di Teheran si è sempre rivolto con toni molto duri, come dimostra una delle sue ultime uscite. A ottobre, il neo insediato Presidente ha commentato una domanda che era stata posta a Biden, ossia se l’America avrebbe mai supportato Israele nel bombardare i siti nucleari iraniani, a cui Biden aveva risposto di no. Trump ha detto fermamente «Quando gli hanno fatto questa domanda, la risposta [di Biden] avrebbe dovuto essere: colpisci prima i siti nucleari, e poi preoccupati del resto»55. D’altronde, anche gli altri membri dell’amministrazione Trump in privato avrebbero espresso pareri non sfavorevoli ad un attacco diretto contro le basi nucleari iraniane. L’opzione realisticamente in esame a Washington, senza arrivare allo scontro diretto è mettere massima pressione su Teheran. In questo, Israele gioca un ruolo centrale.

Il fine ultimo dell’America non sarebbe rovesciare il regime degli ayatollah, quanto piuttosto spingerlo alle corde per trovare un nuovo accordo sul nucleare. Soluzione non propriamente congeniale a Gerusalemme, che riterrebbe esser giunto il momento opportuno per un cambio di regime nella Repubblica Islamica – come certificano i numerosi discorsi che Netanyahu ha rivolto alla popolazione persiana negli ultimi mesi. La risoluzione negoziale con Teheran, tuttavia, non sarebbe più percorribile se si sviluppasse la bomba atomica iraniana, con l’assai probabile ritiro dell’Iran dal Trattato di non proliferazione nucleare. In conseguenza di ciò, gli Stati Uniti dovrebbero tenersi pronti ad un first strike per paralizzare la Repubblica Islamica e salvaguardare Israele e la propria credibilità. I rischi di un tale attacco però non sarebbero pochi. Non sono note tutte le posizioni dei siti nucleari iraniani. È assai plausibile quindi che l’America dovrebbe colpire più volte l’Iran, con la conseguenza che le forze statunitensi da mobilitare sarebbero parecchie. Un impegno che, almeno nel prossimo futuro, gli USA potrebbero prendere. Insomma, la diplomazia è ancora, almeno per il momento, la strada migliore56.

Ad ogni modo, lo scenario più realistico è l’esercizio di una maggior pressione da parte americana, principalmente con inasprimento delle sanzioni verso l’Iran. Oltre a spingere gli ayatollah ad un nuovo accordo, lo scopo sarebbe anche l’allontanamento di Teheran dalla Russia57.  Mosca, se da una parte apre agli ayatollah, non intende veramente legarsi ad essi. In base all’ultimo trattato siglato a gennaio 2025 tra i due Paesi (il più importante dal 2001), a parte le dichiarazioni russe di difesa dell’Iran in caso di attacco occidentale, non è prevista alcuna alleanza militare o un obbligo scritto di assistenza. A differenza del trattato di mutua difesa e assistenza siglato tra Russia e Corea del Nord, quest’ultimo accordo firmato tra Putin e Pezeshkian (Presidente iraniano) è privo di reale consistenza strategica. Non solo, la dimostrazione della diffidenza della Russia nei confronti degli ayatollah è anche nel fatto che fornisce droni a tutti gli altri Paesi dell’Asia centrale, i quali sono in attrito con Teheran. Dunque, in caso di un aumento sostanziale della pressione militare sulla Repubblica Islamica, è estremamente improbabile che la Federazione Russa intervenga al suo fianco58.

In questo modo, il così detto asse del male composto da Russia, Cina e Iran (con la Corea del Nord più o meno in panchina), verrebbe spezzato. Dal 7 ottobre sembrava che Teheran, attraverso la mobilitazione e gli attacchi in tutto il Medio Oriente delle milizie a lei affiliate, avesse spezzato il contenimento regionale di cui Israele era alfiere. Poi però il vento è cambiato, è iniziata l’offensiva israeliana contro tutti i proxies, le milizie più o meno satelliti della Repubblica Islamica. Tutti sono stati pesantemente colpiti da Israele.

Hamas ha perso la sua capacità offensiva e prevedibilmente non la ricostituirà a breve, sebbene comunque non sia stata annientata. La minaccia degli Houti, che hanno una loro agenda ma servono all’Iran per proiettare la sua influenza nella penisola arabica, è stata ridimensionata. Hezbollah, il Partito di Dio, è stata decapitata di tutti i suoi vertici; l’operato è stato paralizzato e migliaia di suoi uomini sono stati colpiti dallo spettacolare attacco con i cercapersone. Da ultimo, il regime siriano di Assad si è sgretolato in tempi record. Il corridoio verso il Mediterraneo, a partire dalle milizie sciite irachene fino ad arrivare in Libano, è stato tagliato. Tale corridoio, grazie all’aeroporto di Damasco e in parte anche di Beirut (che Israele ha minacciato di colpire pesantemente se Teheran l’avesse usato per continuare a rifornire le milizie di Hezbollah59), era necessario a Teheran per rifornire proprio Hezbollah. Ora questo non è più possibile. Le milizie filoiraniane, non parte di un sistema meramente piramidale con al vertice l’Iran ma dotate di autonomi obiettivi per imporsi come attori regionali riconosciuti, sono (erano) indispensabili a Teheran per fondare quello che è stato definito, a seconda del punto di vista, «Asse della resistenza» o «Ordine del caos»60.

Israele è stato cruciale nell’indebolire ulteriormente l’Iran attraverso gli attacchi missilistici in risposta a quelli iraniani. È stata cruciale specialmente la rappresaglia missilistica israeliana del 26 ottobre – successiva al massiccio attacco iraniano del 1° ottobre. Con essa sono state centrate la maggior parte delle piattaforme per il lancio di missili di Teheran. Colpo a dir poco invalidante per la Repubblica Islamica, attraverso il quale è stata dimostrata la vulnerabilità delle difese ai siti nucleari iraniani. Anche per quanto riguarda la tenuta del regime a livello interno, la Repubblica Islamica si trova in estrema difficoltà. Vero è che per compattare la popolazione sotto lo sciismo gli ayatollah si sono sempre richiamati alla lotta contro il Piccolo (Israele) e il Grande Satana (l’America). Un Iran messo veramente all’angolo potrebbe dunque usare di nuovo queste leve. Tuttavia, la cultura e le fortissime tradizioni persiane non sono mai state abbandonate dalla popolazione iraniana. Anzi, specialmente a partire dalle proteste per l’uccisione di Masa Amini, gli iraniani si stanno discostando sempre più dalle posizioni del governo. Viene percepito non solo come oppressore ma anche, nell’ultimo anno, come estremamente debole, sentimento molto pericoloso per uno Stato la cui popolazione si percepisce come erede dell’impero persiano. Non solo tra la popolazione, il malcontento serpeggia anche tra i funzionari del regime e tra i partiti ad esso lealisti: non condividono l’attuale bellicismo iraniano dato che li ha portati nell’attuale situazione, spalle al muro61.

Immagine 5: La lotta per il dominio in Medio Oriente (fonte: Limes, Carta di Laura Canali – 2024).

Con un Iran a tal punto ridimensionato, quello che si andrebbe sarebbe un ordine mediorientale incentrato su Israele. Questa soluzione sarebbe congeniale in primis agli Stati Uniti, e in secundis anche a quei Paesi arabi nei cui confronti verrebbero ampliati gli Accordi di Abramo. Si deve però tener conto di un ultimo attore, battitore libero diventato cruciale per gli equilibri mediorientali: la Turchia.

Se già l’influenza sull’Azerbaijan, nello specifico attraverso le cospicue forniture militari, era una spina nel fianco dell’Iran, la caduta del brutale regime siriano di Bashar al-Assad è stato un colpo quasi mortale per la proiezione iraniana. Damasco, snodo iraniano centrale per il rifornimento di Hezbollah, è entrata più o meno definitivamente nell’orbita turca. Sebbene Erdogan e il suo Ministro degli Esteri non abbiano mai affermato il diretto coinvolgimento turco, la direzione di Ankara nelle manovre di Hayʼat Taḥrīr al-Shām (Hts) è stata chiara sin da subito. L’organizzazione del potere si è immediatamente svolta attorno all’ormai noto Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ (nome di battaglia Abū Muḥammad al-Jawlānī), a capo del governo filoturco di Idlib durante il regime di Assad. Poi, ufficializzato il governo di Hts, prima il capo dei servizi di sicurezza di Ankara Ibrahim Kalin è andato nella Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco; poi, Ankara ha riaperto immediatamente la sua ambasciata a Damasco dopo dodici anni62. D’altronde, il punto di vista turco è molto efficacemente condensato nelle parole dell’analista turco Kaplan, in apertura dell’articolo dal titolo evocativo «È l’inizio del secolo turco?»: «chi controlla la Siria controlla anche il Mediterraneo orientale, l’Africa del Nord, la Penisola Arabica e può aprirsi facilmente la strada verso il Golfo Persico e l’Oceano Indiano»63.

Ankara ha quindi aumentato la sua profondità difensiva e si è proiettata, attraverso le nuove forze armate siriane che diventeranno costola di quelle turche, con più forza verso l’Iraq, altro Stato centrale per Teheran grazie alle numerose milizie sciite lì dislocate e alla coalizione politico-militare della Mobilitazione popolare. Anche in Iraq la caduta della Siria ha permesso il rafforzamento della linea del presidente Muammad al-Sūdānī, uomo di Washington. Dall’8 dicembre 2024, con la caduta di Assad, il Risiko mediorientale è dunque ancor più favorevole agli Stati Uniti, i quali hanno ottenuto anche la rimozione della Russia dal Medio Oriente, costretta ad abbandonare la base navale di Ṭarṭūs e quella aerea di Ḥumaymīm, che però probabilmente verranno spostate in Libia, davanti alle coste italiane.

Anche Israele dall’8 dicembre si trova in una posizione ancor più favorevole, ma si è preoccupato di mettere immediatamente in sicurezza il proprio confine con la nuova Siria. Gerusalemme ha condotto vasti attacchi aerei contro tutte le postazioni missilistiche dell’esercito assadista e contro i depositi di munizioni e mezzi pesanti. Inoltre, le forze armate israeliane hanno occupato subito le alture del Golan, tra Israele, Libano e Siria, che le rivendica. L’occupazione israeliana del Golan ha natura sia strategica – in modo da poter avere una postazione sopraelevata per monitorare l’attività tanto di Hezbollah quanto di Hts, di cui Gerusalemme comunque diffida – che politico-messianica. Il Monte Hermon, da cui Netanyahu stesso ha annunciato che il Golan è definitivamente tornato a Israele, è l’altura che, in molti libri biblici, segna il confine settentrionale della Terra Promessa. È anche la zona in cui, secondo il libro di Enoch, Dio fece precipitare gli angeli ribelli (tra cui Lucifero) dopo averli sconfitti. Il messaggio di Netanyahu è chiaro: si sta costruendo Erétz Yisra’él nel disegno del Grande Israele dei sionisti religiosi64.

Nella dissoluzione siriana, Washington (nonostante le dichiarazioni di Trump che sulla Siria, sul suo social Truth, in maiuscolo, ha tuonato «GLI STATI UNITI NON DEVONO AVERE NULLA A CHE FARE CON LA SIRIA. QUESTA NON È LA NOSTRA BATTAGLIA. LASCIAMO CHE SI SVOLGA. NON ENTRIAMOCI!»), si è mossa sottotraccia. I suoi interessi coincidevano con quelli di Ankara e Gerusalemme per quanto riguarda la cacciata di Assad e il conseguente forte ridimensionamento di Teheran sul fronte siriano. Tuttavia, le mosse americane ora i troveranno in contrasto con i piani turchi. Gli Stati Uniti infatti intendono mantenere la presenza dei curdi nel nord-est siriano, ad oriente dell’Eufrate, creando una repubblica autonoma curda, una sorta di Kurdistan iracheno in Siria. Anche il Mossad, nell’immediatezza del crollo del regime di Assad, ha aumentato il sostegno sia politico che di intelligence alle forze di resistenza curde. Lo scopo israeliano è mantenere una spina nel fianco della Turchia65. Erdogan però tenterà in ogni modo di opporsi alla creazione di una regione autonoma controllata da quelli che considera la minaccia principale al suo potere, eventualmente intensificando gli attacchi contro la resistenza curda66.

Se sulla situazione siriana gli attriti diretti con Washington, che intanto prescinde dalle posizioni trumpiane disinteressate alla Siria e rafforza le sue basi nel paese levantino, riguardano solo la regione curda, la questione è più grave con Israele. E dunque di riflesso anche con gli Stati Uniti. La Turchia ha l’obiettivo evidente di creare un proprio blocco mediorientale in cui è l’egemone, volontà che cozza pesantemente con i piani israeliani. Subito dopo l’inizio degli attacchi israeliani a Gaza erano stati sospesi tutti i piani di import-export con Israele, poi è stato un crescendo di posizioni, dichiarazioni e azioni contro Israele, provenienti da Erdogan e da tutti gli uomini a lui vicini: dalla difesa di Hamas, definita prima linea difensiva di Ankara; alla minaccia di inviare truppe turche in Palestina; alla proposta di creare il “Patto per Gerusalemme” con Siria, Iraq e Egitto per contrastare l’espansionismo bellicista israeliano e risolvere la questione palestinese; sino agli investimenti importanti nella Strada di Sviluppo, una infrastruttura strategica che attraverserà l’Iraq per aumentare gli scambi tra Penisola Arabica e Europa, passando per il Medio Oriente aggirando Israele67.

In conclusione, nell’intricato scacchiere mediorientale la nuova amministrazione statunitense dovrà necessariamente occuparsi anche della gestione della crescente rivalità tra Gerusalemme e Ankara. È improbabile che si venga allo scontro diretto, anche perché in quel caso ne gioverebbe incredibilmente la Repubblica Islamica con i suoi due principali avversari regionali che si scontrano. Tuttavia, l’attenzione americana nei confronti di Israele e della Turchia dovrà essere massima.

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Fonti fotografiche

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Immagine 1: Does China ‘operate’ Panama Canal, as Trump says?, https://www.bbc.com/news/articles/c1km4vj3pl0o.

Immagine 2: Trump says he believes US will ‘get Greenland’, https://www.bbc.com/news/articles/crkezj07rzro.

Immagine 3: Wide partisan divisions remain in Americans’ views of the war in Ukraine, https://www.pewresearch.org/short-reads/2024/11/25/wide-partisan-divisions-remain-in-americans-views-of-the-war-in-ukraine/.

Immagine 4:The Suwalki Corridor: Moscow’s invasion route to Europe, https://www.thetimes.com/article/the-suwalki-corridor-moscows-invasion-route-to-europe-035qhm06t.

Immagine 5: Carta di Laura Canali – 2024, in Pedde N., Padella o brace, il dilemma di di Teheran, https://www.limesonline.com/rivista/l-iran-non-sa-se-attaccare-israele-17529531/.


  1. T. Wilkinson, Trump’s answer to foreign policy woes: Never would have happened, in www.latimes.com, 27 giugno 2024; E. M. Lederer, Trump says he can end the Russia-Ukraine war in one day. Russia’s UN ambassador says he can’t, in www.apnews.com, 2 luglio 2024. ↩︎
  2. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, Le faglie europee nella guerra d’Ucraina dopo il via libera all’uso delle armi contro la Russia, 5 giugno 2024, https://www.youtube.com/watch?v=b1qG-B7_TE0. ↩︎
  3. M. Del Pero, Gli Stati Uniti e la dottrina Biden alla prova di Ucraina e Gaza, in L’Europa dell’età dell’insicurezza, a cura di Colombo A., Magri P., Mondadori, Milano 2024. ↩︎
  4. Trump and the future of American power. A conversation with Stephen Kotkin, in www.foreignaffairs.com, 7 novembre 2024. ↩︎
  5. M. McFaul, How Trump can end the war in Ukraine, in www.foreignaffairs.com, 12 dicembre 2024. ↩︎
  6. J. Copeland, Wide partisan divisions remain in Americans’ views of the war in Ukraine, in www.pewresearch.org, 25 novembre 2024. ↩︎
  7. P. D. Feaver, How Trump will change the world, in www.foreignaffairs.com, 6 novembre 2024. ↩︎
  8. Fiscal Year (FY) 2022-2024 Funding Sources, in www.ukraineoversight.gov. ↩︎
  9. E. McCusker, The price of Russian victory, in www.foreignaffairs.com, 13 dicembre 2024. ↩︎
  10. S. Charap, A pathway topPeace in Ukraine. Trump needs a realistic game plan, Strong incentives, and patience, in www.foreignaffairs.com, 24 dicembre 2024. ↩︎
  11. L. Fisher, H. Foy, F. Schwartz, Trump wants 5% Nato defence spending target, Europe told, in www.ft.com, 20 dicembre 2024. ↩︎
  12. K. Hodunova, Trump plans to end Russia’s war in Ukraine by freezing it if he wins presidential election, FT reports, in www.kyivindipendent.com, 28 ottobre 2024. ↩︎
  13. M. McFaul, cit. ↩︎
  14. P. Adams, The endgame in Ukraine: How the war could come to a close in 2025, in www.bbc.com, 2 gennaio 2025. ↩︎
  15. O. Moscatelli, M. Mussetti, Fine e fini della guerra d’Ucraina, in Fine della guerra, Limes, aprile 2024. ↩︎
  16. A. Polyakova, America needs a maximum pressure strategy in Ukraine, in www.foreignaffairs.com, 31 dicembre 2024. ↩︎
  17. R. Ourdan, P. Jacqué, Zelensky pleads for Ukraine NATO membership, Europeans look for another solution, in www.lemonde.fr, 3 dicembre 2024. ↩︎
  18. S. Seddon, B. Debusmann Jr, Nato vows ‘irreversible path’ to Ukraine membership, in www.bbc.com, 11 luglio 2024. ↩︎
  19. K. Denisova, Biden: Peace in Ukraine doesn’t mean NATO membership, in www.kyivindependent.com, 4 giugno 2024. ↩︎
  20. Ukraine war briefing: Trump sympathises with Russian stance against Ukraine joining Nato, Guardian staff and agencies, in www.theguardian.com, 8 gennaio 2025. ↩︎
  21. S. Charap, cit. ↩︎
  22. G. Rose, Ending war is hard to do. Can Trump reach real settlements in Ukraine and Gaza?, in www.foreignaffairs.com, 21 gennaio 2025; P. Adams, The endgame in Ukraine: how the war could come to a close in 2025, in www.bbc.com, 2 gennaio 2025. ↩︎
  23. S. Charap, cit. ↩︎
  24. A. Polyakova, America needs a maximum pressure strategy in Ukraine, cit. ↩︎
  25. N. Verma, India halts trade with US-sanctioned Russian companies and tankers, government source says, in www.reuters.com, 13 gennaio 2025; India follows China in refusing to accept sanctioned tankers carrying Russian oil, in www.moscowtimes.ru, 13 gennaio 2025; V. Soldatkin, Russia’s Gazprom weights slashing HQ jobs after losing more sales to Europe, in www.reuters.com, 13 gennaio 2025. ↩︎
  26. Media russi: a marzo Cina e India sospenderanno acquisti petrolio da Mosca, in www.ilsole24ore.com, 28 gennaio 2025. ↩︎
  27. S. Charap, cit. ↩︎
  28. S. Charap, cit. ↩︎
  29. P. Adams, cit. ↩︎
  30. V. Soldatkin, A. Osborn, Putin says Russia is ready to compromise with Trump on Ukraine war, in www.reuters.com, 19 dicembre 2024. ↩︎
  31. J. Florio, La fine dell’America globale, in Musk o Trump, America al bivio, Limes, dicembre 2024. ↩︎
  32. A. Gabuev, Can Trump split China and Russia? Why Beijing and Moscow’s partnership will be hard to break, in www.foreignaffairs.com, 6 dicembre 2024. ↩︎
  33. U.S. Department of Defense, Military and security developments involving the People’s Republic of China, 2024, Annual report to Congress, pp. 145 ss.; M. Perriello, La pazienza (obbligata) dei cinesi, in La grande attesa, Domino, gennaio 2025. ↩︎
  34. A. Gabuev, cit. ↩︎
  35. K. M. Campbell, J. Sullivan, Competition without catastrophe. How America can both challenge and coexist with China, in www.foreingaffairs.com, vol. settembre/ottobre 2019. ↩︎
  36. J. T. Matthew’s, What was the Biden doctrine, in www.foreignaffairs.com, 14 agosto 2024. ↩︎
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  38. Per maggiori dettagli: U.S. Department of Defense, Military and security developments involving the People’s Republic of China, 2024, Annual report to Congress. ↩︎
  39. K. M. Campbell, J. Sullivan, cit.; R. Doshi, cit. ↩︎
  40. M. Martina, Rubio pick signals a Trump China policy that could go beyond tariffs, in www.reuters.com, 14 novembre 2024. ↩︎
  41. M. Pottinger, M. Gallagher, No substitute for victory, in www.foreignaffairs.com, vol. maggio/giugno 2024. ↩︎
  42. R. Doshi, The Trump administration’s China challenge, in www.foreignaffairs.com, 29 novembre 2024. ↩︎
  43. G. Cuscito, Le Cine giocano Trump, in Musk o Trump, America al bivio, Limes, dicembre 2024. ↩︎
  44. «La Cina tenderà di nuovo la mano a Washington», Conversazione con Wang Zichen, Research Fellow e direttore per le comunicazioni internazionali al Center for China and Globalization (Ccg), a cura di Giorgio Cuscito, in Musk o Trump, America al bivio, Limes, dicembre 2024. ↩︎
  45. D. H. Rosen, R. Goujon, L. Wright, China’s Slowdown Has Changed the Trade War, in www.foreignaffairs.com, 17 dicembre 2024. ↩︎
  46. M. P. Funaiole, A. Powers-Riggs, B. Hart, H. Ziemer, J. S. Bermudez Jr., R. C. Berg, C. Hernandez-Roy, China’s intelligence footprint in Cuba: new evidence and implications for U.S. security, in www.csis.org, 6 dicembre 2024. ↩︎
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  49. China, Canada should work toward strategic partnership, China’s Wang says, www.reuters.com, 20 luglio 2024. ↩︎
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  51. B. Sadler, China’s largest naval exercise in decades: why send 90 warships near Taiwan?, in www.heritage.com, 20 dicembre 2024. ↩︎
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  54. A. Yadlin, A. Golov, An Israeli Order in the Middle East, in www.foreignaffairs.com, 17 dicembre 2024. ↩︎
  55. H. Barber, Israel should strike Iran’s nuclear facilities, says Trump, in www.telegraph.co.uk, 5 ottobre 2024. ↩︎
  56. R. Nephew, A Last Chance for Iran. America Should Give Diplomacy a Final Shot—While Preparing to Use Military Force, in www.foreignaffairs.com, 2 gennaio 2025. ↩︎
  57. «Trump e Israele hanno interessi diversi sull’Iran», Conversazione con Eldad Shavit, colonnello in pensione dell’intelligence militare di Israele e Senior Researcher all’Institute for National Security Studies, a cura di F. Petroni, G. De Ruvo, in Musk o Trump, America al bivio, Limes, dicembre 2024. ↩︎
  58. G. Friedman, La guerra allargata può dividere Mosca e Teheran, in Musk o Trump, America al bivio, Limes, dicembre 2024. ↩︎
  59. Israel planned to strike Beirut airport if Iranian funds had reached Hezbollah, report claims, in www.jpost.com, 9 gennaio 2025. ↩︎
  60. S. Maloney, Iran’s Order of Chaos. How the Islamic Republic Is Remaking the Middle East, in www.foreignaffairs.com, vol Maggio/giugno2024. ↩︎
  61. C. Azzarini, Per Israele il prossimo fronte è la Turchia, in La grande attesa, Domino, gennaio 2025. ↩︎
  62. L. Trombetta, Le Sirie dopo al-Asad, in Musk o Trump, America al bivio, Limes, dicembre 2024. ↩︎
  63. Y. Kaplan, Türkiye yüzyılı’nın başlangıcı (mı)? [È l’inizio del secolo turco?], in www.yenisafak.com, 8 dicembre 2024. ↩︎
  64. E. Pietrobon, Perché Netanyahu ha ordinato la cattura del monte Hermon?, thread su X, 10 dicembre 2024. ↩︎
  65. C. Azzarini, cit. ↩︎
  66. D. Santoro, Le incognite del trionfo della Turchia in Siria, in www.limesonline.com, 10 dicembre 2024. ↩︎
  67. E. Morelli, Il trionfo siriano rilancia la Grande Turchia, in La grande attesa, Domino, gennaio 2025. ↩︎

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