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L’AKP ieri e oggi: come è cambiato il partito di Erdoğan?

Ankara, 30 settembre 2012. È in atto la quarta Convention del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). A prendere la parola è, ovviamente, il leader Recep Tayyip Erdoğan, all’epoca Primo Ministro. Il suo discorso è un fermo tentativo di rimarcare la sempre più forte connotazione islamica dell’AKP, nonché di elevare il sistema di governo turco a modello da seguire per tutti i paesi musulmani. Nelle sue parole, vi è anche una fiera rivendicazione del retaggio ottomano, accompagnata dall’esaltazione di grandi avvenimenti della storia dell’Impero e delle sue origini: una narrativa, questa, destinata a ricorrere con sempre maggiore frequenza nel discorso politico degli anni a venire.

Tra l’uditorio non mancano i grossi calibri, come il Presidente egiziano Morsi, il Vicepresidente iracheno Tariq al-Hashemi e l’allora capo dell’Ufficio politico di Hamas Khaled Meshʿal, che interverrà più tardi con un caloroso elogio al partito di Erdogan. Nei termini dell’accademico Umut Uzer, il congresso del 2012 somigliò, per contenuti e ospiti, a un vero e proprio raduno tra vertici di Stato islamico-conservatori provenienti da svariate aree del Medio Oriente. L’evento segna un importante punto di svolta nella traiettoria politica dell’AKP, ormai indirizzato ad assumere la forma e le caratteristiche che noi tutti oggi conosciamo.

Le origini dell’AKP

Occorre riavvolgere il nastro indietro al 2001 per capire che il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, però, seppur originato dalle ceneri del Partito della Virtù (FP) – a matrice islamista e appartenente all’estrema destra –, nacque sotto diversi auspici. Infatti, dopo lo scioglimento del FP, giudicato incostituzionale dalla Corte costituzionale turca, i componenti della sua ala riformista, di cui Erdoğan faceva parte, scelsero di fondare l’AKP, apparentemente fermi nella volontà di abbandonare la retorica anti-secolare alimentata fino ad allora.

Fu sicuramente presa di posizione temporanea, una mossa politica imposta da pressioni interne al Paese esercitate dall’establishment di matrice secolare – tra spiccavano le Forze armate. Di fatto, però, il neonato partito si professava conservatore, democratico e determinato a mantenere una netta distinzione tra Stato e religione; era favorevole all’adozione di una politica estera antinazionalista e pro-Europa, oltre che all’accelerazione del processo di adesione all’UE. Dopo trionfo alle elezioni del 2002 (34% dei voti), si fece promotore della politica di “Zero problemi con i vicini”, mantenendo quindi toni distensivi e per nulla assertivi nei rapporti con i paesi confinanti, mentre a livello domestico cercò di stimolare un maggiore dialogo politico per trovare soluzione pacifica alla questione curda.

Un poster dell’AKP affisso durante la campagna elettorale del 2007

La trasformazione dell’AKP sotto Erdoğan

L’AKP riuscì a replicare il successo del 2002 per le tre successive tornate elettorali (2007, 2011 e 2015), incrementando considerevolmente, negli anni, il consenso alle urne. Quello cui si è in seguito assistito, però, specie dal 2007 in poi, è stato un graduale abbandono dell’iniziale approccio laico-occidentalista da parte della sua leadership, in favore di un ritorno alle origini islamico-conservatrici e della ritrovata volontà di riacquisire un ruolo di prim’ordine negli equilibri di potere dell’arena mediorientale. La Convention del 2012 fu una pietra miliare all’interno di questo processo, che portò la Turchia a sostenere la Fratellanza Musulmana in Egitto, a intervenire in Siria contro il regime di Assad e ad assumere una linea più dura contro Tel-Aviv nel contesto della disputa israelo-palestinese.

Le cause del drastico di postura sono molteplici, reperibili nella dimensione domestica tanto quanto internazionale. Ad esempio, per rispondere all’esigenza di unificare una base elettorale variegata come quella dell’AKP – a tutti gli effetti un partito di massa –, la narrativa nostalgica del retaggio ottomano ha costituito un valido supporto, rappresentando questo un elemento ancora centrale nella costruzione dell’identità del popolo turco. Non solo: per una leadership ideologicamente orientata come quella del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, il neo-ottomanesimo poteva essere un vettore fondamentale per riportare l’Islam al centro della scena politica turca.

Anche la traiettoria della politica estera seguita dal partito, benché spesso vista come una reazione alla riluttanza dell’UE nel portare a termine il processo di adesione della Turchia, potrebbe essere interpretata secondo la stessa logica. Infatti, la crescente attenzione per lo scenario mediorientale, a scapito dell’avvicinamento all’Europa perseguito a inizio anni Duemila, si rivelò una strategia spesso e volentieri appoggiata da ampie fasce della popolazione.

La Moschea di Taksim, costruita da Erdoğan in uno dei quartieri più “occidentalizzati” di Istanbul, è uno dei simboli dell’islamizzazione promossa dall’AKP.

Quello che emerge alla luce di queste considerazioni, dunque è che l’AKP abbia vissuto, negli ultimi vent’anni, una lunga fase evolutiva innescata e alimentata da molteplici fattori interni ed esterni, che l’ha progressivamente portato ad abbandonare l’approccio secolare e occidentalista adottato negli albori. Pertanto, anche il tentato golpe del 2016, spesso visto come momento spartiacque tra un “prima” democratico e un “dopo” autoritario, funse piuttosto da catalizzatore di un processo già in atto da tempo, in cui l’AKP stava già perseguendo un’agenda politica di stampo islamista in patria e, in fatto di politica estera, mirando al raggiungimento dello status di potenza regionale, memore anche dei fasti dell’Impero.  

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