Per raggiungere i propri obiettivi climatici gli USA dipendono inevitabilmente dai loro più grandi rivali
È ormai centrale nel dibattito politico internazionale, ed in particolare al termine della tanto discussa COP26, il cambiamento climatico. Su questo piano è fondamentale, infatti, l’impegno da parte degli stati e soprattutto delle principali potenze mondiali. Assume quindi sempre un’aura di superiorità la posizione di quella che è la potenza egemone del panorama internazionale.
Il presidente statunitense Joe Biden ha messo al centro del suo programma elettorale la rivoluzione climatica, in particolare ha più volte dichiarato che “il cambiamento climatico è la minaccia esistenziale del nostro tempo”.
Gli Stati Uniti si sono impegnati a ridurre del 60% il consumo energetico proveniente da combustibili fossili e del 100% l’inquinamento prodotto dal paese entro il 2050. Per raggiungere questi ambiziosi obiettivi il presidente democratico dovrà però avviare un percorso di rinnovamento energetico che porti al raddoppiamento delle fonti di energia rinnovabili (in particolare solare ed eolico) e ad aumentare sensibilmente il numero di auto elettriche. Biden ha infatti dichiarato che, seguendo il suo programma, “nel 2030 il 50% delle auto vendute saranno elettriche”.
Il sorpasso cinese
Dietro tutti questi obiettivi che, seppur visti in un orizzonte globale (la biosfera è un elemento condiviso, che nulla ha a che fare con i confini geopolitici), sembrerebbero dipendere dalla politica interna agli USA, si rivela cruciale un elemento che è tutt’altro che interno.
Tutti questi nobili obiettivi per essere realizzati necessitano di una forte dipendenza dalla Cina, negli ultimi vent’anni infatti, il governo di Pechino ha superato Washington nella competizione green. Per quel che riguarda il mercato globale dei combustibili verdi, i cinesi attualmente producono: il 35% dell’idrogeno verde, il 40% delle auto elettriche, il 40% delle turbine eoliche e ben l’80% dei pannelli solari. Il sorpasso effettuato dalla Cina è stato netto, basti pensare che nel 2000 gli USA producevano il 30% dei pannelli solari (adesso ne producono meno dell’1%) mentre i cinesi circa l’1%.
La necessità di passare per la Cina non si limita però alle sole fonti di energia, ma anche alle materie prime necessarie per produrre auto elettriche o comunque tutti quegli strumenti tecnologici che riducano l’impatto ambientale. Negli ultimi anni si è evidenziata una forte competizione per il litio, un elemento fondamentale per la produzione di batterie, anch’essa vinta dalla Cina che infatti ne controlla la metà delle riserve mondiali. Inoltre, dallo stato asiatico passa anche l’80% della raffinazione di materie grezze necessarie alla produzione delle batterie.
Una competizione tecnologica
Per recuperare questo enorme divario agli Stati Uniti servirebbe più di un decennio, tempo del quale, per quanto riguarda una crisi così importante come quella climatica, sicuramente nessuno dispone.
Come sottolinea il professor Graham Allison, nel suo editoriale apparso sul Boston Globe, questa leadership cinese in un settore tanto cruciale è un segnale del cambiamento in corso, che non può essere sottovalutato dagli Stati Uniti. Il mondo ormai non è più unipolare e così la competizione tra Cina ed USA va oltre il green, entrando ad esempio anche nel settore dell’intelligenza artificiale o quello delle biotecnologie. Pechino ha infatti l’obiettivo di guidare il mercato tecnologico.
Quella che Biden ha definito una “Coesistenza competitiva” non è detto che possa essere una caratteristica stabile della politica internazionale del prossimo futuro, soprattutto alla luce del fatto che la Cina è probabilmente il rivale geopolitico più forte che gli statunitensi abbiano mai affrontato, anche più potente dell’Unione Sovietica, e questo fa si che si possa tornare a parlare di una guerra fredda a livello globale.
La nuova guerra fredda
Di questa “Inevitabile rivalità” ha parlato John Mearsheimer sulla rivista Foreign Affairs. Dopo la fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno favorito l’ascesa della potenza cinese promuovendo gli investimenti nel paese ed aprendole le porte del commercio internazionale. Tutti questi passi in avanti, viziati dalla convinzione di un inevitabile trionfo del capitalismo, tendevano a fare della Cina un alleato responsabile e soprattutto democratico.
La Cina si è così trasformata in una potenza egemone a livello continentale che, seguendo la stessa strada percorsa dagli Stati Uniti circa un secolo prima, punta a diventare una potenza globale. Alla base di questo ragionamento, secondo Mearsheimer, c’è una matrice realista che mette al centro competizione e conflitto e delinea il rapporto tra le due potenze proprio attorno a questi due fattori. Appare così inesorabile una collisione tra Cina e Stati Uniti, alimentata anche dal mercato dell’energia rinnovabile, che con i suoi 16 mila miliardi di dollari rappresenta icasticamente i principali interessi delle due grandi potenze.
Annunciando di voler aumentare la deterrenza nei confronti degli attori stranieri che “mirano a tagliarci fuori dalle catene dell’approvvigionamento globale”, il presidente cinese Xi Jinping non fa altro che sfidare e mettere a repentaglio la già citata coesistenza competitiva di Biden.
Guardando in particolare all’energia rinnovabile non si può non accorgersi che anche la stessa sopravvivenza, non di una nazione, ma dell’umanità intesa come totalità, rischia di essere messa a repentaglio in nome delle politiche di potenza e delle mire egemoniche. In una biosfera condivisa, l’istinto alla sopravvivenza potrebbe e dovrebbe rappresentare un collante eccezionale che porti ad una cooperazione. Ma anche su questo tema sembra invece entrare prepotentemente un orizzonte competitivo.