Ho intervistato Federico Petroni, consigliere di redazione Limes che si è occupato di curare il numero del mese di dicembre interamente incentrato sulla situazione attuale negli Stati Uniti, intitolato “America?”. Il numero analizza la crisi di identità che gli Stati Uniti stanno attraversando e in questa intervista siamo andati ad indagare le faglie che attraversano la società americana, ponendo un focus sull’articolo scritto da Petroni stesso “Fiamme sulla collina: l’America in crisi assedia sé stessa”.
Federico Petroni, Lorenzo Di Muro e Giacomo Mariotto della redazione di Limes Rivista Italiana di Geopolitica saranno intervistati dall’autrice e giornalista di Geopolis Chiara Pretto, nell’evento che si terrà il 16 gennaio nella ormai nota casa della geopolitica di Bologna, la Piazza Coperta di Biblioteca Sala Borsa di Bologna.
Nel suo articolo si riferisce alla faglia fondamentale che divide l’America e che riguarda le visioni del mondo opposte che convivono nella società americana. A questo proposito il ruolo degli stati diventa fondamentale nel promuovere una visione piuttosto che un’altra. E quindi com’è che gli stati sono passati dall’essere “laboratori democratici”, come li intende la giurisprudenza, a “strumenti per le battaglie identitarie”?
Questo perché una parte della popolazione americana è sempre meno d’accordo sui principi cardine che orientano la società statunitense, la vita sociale e la convivenza. Rispetto a quando la teoria sui laboratori democratici fu formulata negli anni Trenta, la società americana ha ridotto di molto il livello di consensualità e di accordo. Questo è avvenuto a partire dagli anni Sessanta, ma in maniera più pronunciata dagli anni Novanta e ha comportato un cambiamento rispetto alle domande che vengono rivolte alle istituzioni, in particolare agli stati. A questo mutamento si somma una corrente che ha radici storiche più profonde, e che fa riferimento al fatto che gli stati negli Stati Uniti hanno delle identità specifiche e peculiari e sono dotati di poteri assai superiori a quelli che normalmente siamo abituati a considerare per una federazione. Gli stati americani hanno molti poteri e dunque in presenza di un minor grado di consenso popolare sullo stile di vita da adottare possono organizzarsi in modo diverso, possono prendere delle decisioni che entrano in profondità nella vita delle persone. Per esempio, sull’istruzione esiste un enorme grado di libertà, i singoli stati negli Stati Uniti possono insegnare una versione della storia molto diversa da quella che insegnano gli altri stati.
Ho trovato molto interessante l’intervista fatta a Niall Ferguson. Parlare del declino dell’istruzione delle università americane sembra in contrasto con la narrazione comune che presenta i college americani come quelli migliori al mondo. Eppure, gli studenti non conoscono la storia, gli ambienti accademici sembrano favorire le materie tecnologiche oltre che promuovere comportamenti intolleranti. Si evidenziano quindi i rischi di creare una classe dirigente americana estremamente capace dal punto di vista tecnico ma priva di una bussola morale. È un aspetto che, da studentessa, mi piacerebbe approfondire.
Un aspetto che approfondisco nel mio articolo è quello legato alla rinuncia ai classici della tradizione greco-romana. Questi sono stati un fondamento cruciale per una società senza tradizione nazionale come quella americana, assieme alla Bibbia. La Bibbia e la grande filosofia greco-romana sono stati due grandi riferimenti. Dagli anni Sessanta e in particolare dagli anni Novanta, nell’accademia l’idea di Occidente è stata ampiamente contestata, fino ad abbandonare gli studi sulle sue fonti classiche, per abbracciare studi che vengono definiti “globali”. Tuttavia, il livello di profondità di questi approcci non è sufficiente per creare un’alternativa agli studi classici. Questo non vuol dire che siano sbagliati in sé o che non debbano essere esplorati in assoluto, ma che se a questo si accompagna una rinuncia ai classici allora si ha una rinuncia al confronto con una serie di sfide, di scelte e di problemi che non sono eterni ma con i quali tanti altri statisti di ogni epoca si sono trovati a confrontarsi e per i quali hanno fornito anche delle risposte che hanno un loro valore. Questo in particolare è un problema se si abbina anche ad un altro fattore, quello del declino della stessa istruzione tecnologica e matematica. È vero che gli Stati Uniti eccellono nella tecnologia e nella ricerca applicata, ma esiste qualche segno che anche in campo delle discipline scientifiche e tecnologiche altri paesi stiano recuperando il divario. Anche in questo, che può considerarsi l’ambito d’eccellenza americano, ci sono delle sfide che sono rese ancora più ripide dal fatto che gli Stati Uniti sembrano voler fare a meno di questi aspetti della formazione classica.
Lei dice che le crisi di identità americane sono ricorrenti e che ciascuna ha le sue caratteristiche. E se ci sono elementi di tensione che gli Stati Uniti si portano dietro fin dalla loro fondazione, come può essere il rapporto tra stati e governo federale, quali sono le tensioni specifiche di questa crisi di coesione nazionale che sembra caratterizzare l’America di oggi?
La caratteristica fondamentale è sicuramente il confronto tra due visioni del mondo dell’America radicalmente diverse. Mai come in questo periodo esiste uno scontro così forte e così diffuso tra visioni del mondo molto diverse. Sono aumentate le visioni estreme, quelle visioni estremiste che cinquant’anni fa erano ai margini oggi sono la norma. Non sono ancora completamente maggioritarie, nel senso che i dati indicano che ancora una maggioranza relativa di americani si identifica in posizioni moderate. Tuttavia è evidente che le ali estreme oggi costituiscono, nel complesso, la maggioranza assoluta. L’altra novità è che tutto questo si verifica in un periodo di forte tensione per l’egemonia americana. È la prima volta che queste crisi interne avvengono in un periodo in cui gli Stati Uniti sono la prima potenza del mondo e stanno lottando per difendere questa posizione. Si potrebbe dire che questo è avvenuto anche durante la guerra fredda. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti erano sempre primi e lottavano per difendere le loro posizioni dall’Unione Sovietica. È sicuramente vero ma oggi la differenza è che non c’è più l’Unione Sovietica a fornire quel fattore glutinante, ovvero un nemico comune che serve a relativizzare, anche se in parte, le dispute interne. Se pensiamo alle rivolte del ‘68 in cui i giovani più estremisti, portatori di una visione più libera venivano bollati come agenti sovietici, come comunisti che volevano impiantare il comunismo in America, questo è spiegabile perché serviva a ridurre la popolarità di quelle idee estreme. Oggi quelle idee non sono più estreme, sono diventate più popolari, maggioritarie nel complesso. Questo è avvenuto anche perché manca un nemico canonico attraverso il quale sopire le tensioni sociali.
Più volte nel numero viene espresso il fatto che nei momenti in cui l’America fronteggia un nemico comune le discordie interne sembrano limitarsi. L’esempio per eccellenza è quello della Guerra Fredda. Ora che gli Stati Uniti sono apertamente in ostilità con la Russia e che vedono contemporaneamente maturare il confronto con la Cina, questo ha conseguenze sulla compattezza del fronte interno?
Le ha avute. In questa fase è evidente che gli americani sono disposti a sostenere una guerra indiretta contro la Russia per impedirle di conquistare posizioni in Ucraina. Tuttavia, questo non è sufficiente per mettere da parte le tensioni interne. Agisce sicuramente come fattore unificante sulla politica estera in Ucraina ma non ha effetti nel ridurre le tensioni interne. È come se questi due fenomeni fossero del tutto indipendenti. Nelle elezioni di metà mandato, infatti, non abbiamo visto una riduzione della conflittualità causata dal fatto che gli americani sono disposti a sostenere la lotta di Kiev contro Mosca, al contrario il tema della guerra in Ucraina è stato del tutto assente nel dibattito politico. Non possiamo attribuire la “sconfitta” di Trump alla guerra d’Ucraina, al contrario i repubblicani estremisti ma che non sono trumpiani sono aumentati al congresso, alla Camera ma non al Senato. Questo perché al Senato ci sono meno rappresentanti e Trump ha puntato su cavalli sbagliati che si sono rivelati perdenti in ultima istanza. Nemmeno la Cina rappresenta quel livello di minaccia impellente che sono state l’Unione Sovietica, la Germania nazista oppure ancora l’Inghilterra monarchica. Oggi agli Stati Uniti manca un nemico degno di tale nome. Non lo è ancora la Cina, magari lo diventerà, questo potrebbe accadere con una guerra a Taiwan. Tuttavia, anche in quella situazione non credo che gli americani sarebbero disposti a riconoscere alla Cina quel rango che aveva l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, perché questo avvenga servirebbe che Pechino minacci in maniera concreta ed evidente la sicurezza continentale americana, come faceva l’Unione Sovietica, come faceva in potenza la Germania nazista e come aveva fatto concretamente il Giappone con l’attacco a Pearl Harbour.
La religione può considerarsi un elemento fondamentale per l’identità americana, sembra che attraverso di essa si esprima non solo la percezione che gli americani hanno di sé ma anche il ruolo che hanno nel mondo. La politica sembra accessibile solo a chi professa valori religiosi ma il numero dei credenti non fa che diminuire. Cosa si può dire su questo fenomeno?
Questo fenomeno mette in luce una delle tante contraddizioni degli Stati Uniti, questa discrasia è una caratteristica strutturale degli Stati Uniti e all’interno di questa possiamo leggervi più processi in corso. Ci rende conto di una fetta della popolazione che non crede più che l’egemonia americana sul mondo sia praticabile e nemmeno desiderabile. Evidenzia una parte della popolazione che non si crede più in contatto con il divino, che non crede più nella missione civilizzatrice americana. Attenzione, questo non vuol dire rinunciare del tutto a missioni trascendenti, anche chi non crede in senso religioso, comunque ritiene che gli Stati Uniti debbano impegnarsi per il bene nel mondo. Questa parte di popolazione ritiene che gli Stati Uniti abbiano una missione che non corrisponde più all’evangelizzazione del mondo al verbo americano ma che ha caratteristiche più specifiche e limitate, un esempio è la lotta al cambiamento climatico o la protezione degli aggrediti dai rivali. Anche la selettiva difesa dei diritti umani rientra in questa visione, gli americani sono disposti a difenderli in maniera strumentale e il caso di riferimento può essere Taiwan, dalla cui difesa quindi dipendono interessi geopolitici più ampi. Il discorso sulla religione ci fa comprendere inoltre la distanza tra l’élite e la popolazione. Se da un lato la classe dirigente deve essere religiosa e deve esibire certe liturgie, dall’altro la popolazione non lo deve fare e questa è una delle dimensioni del distacco tra queste due parti della società americana. È una delle tante dimensioni che permette di diversificare la classe dirigente, insieme all’aspetto economico, alla rottura dell’ascensore sociale che permetteva di diversificare la classe politica, alla creazione di lingue e ideologie diverse. L’arroccarsi della classe dirigente che diventa sempre più casta e sempre meno rappresentativa della popolazione è un fenomeno ricorrente nella storia americana a cui seguono poi dei periodi di crisi in cui gli argini tra l’élite e il resto della popolazione si rompono e la classe dirigente vecchia viene sostituita da una più rappresentativa del paese.