Fotografia del fotografo di Donald Trump: Win McNamee/Getty Images

L’America di Trump

Come gli interessi geopolitici statunitensi saranno declinati nei quattro anni di presidenza Trump. La postura che l’America assumerà sarà effettivamente in controtendenza rispetto all’amministrazione Biden?

L’elezione di Trump, la seconda, ha creato scompiglio in occidente. Si sono susseguite dichiarazioni in ordine sparso, spesso basate sulle affermazioni, pubbliche e private, fatte dal Presidente eletto negli ultimi anni. Si legge che Trump si piegherà al volere dell’“amico” Putin in Ucraina, che perseguirà un disimpegno tale in Europa che porterà l’America a ritirarsi dalla NATO1, incoraggiando Putin ad attaccare i Paesi europei che non pagheranno abbastanza – come da lui stesso sostenuto in un comizio del 10 febbraio scorso tenuto a Conway, in South Carolina2. Trump, oltretutto, sembrerebbe voler rincarare la dose. In base alle ultime dichiarazioni (al momento in cui si scrive è il 21 dicembre) rilasciate da fonti interne al Financial Times e al Telegraph, la prossima amministrazione americana chiederà ai membri NATO di aumentare le spese per la difesa al 5% del PIL3.

È possibile che sia solo un modo per contrattare un aumento rispetto all’attuale tetto del 2% del Prodotto Interno Lordo, in modo che poi, concretamente, ci si attesterà al 3%. Tuttavia, considerata l’imprevedibilità di Donald Trump, non si può sapere. E se veramente dovesse richiedere ai membri una spesa militare pari al 5% del PIL? Cosa succederebbe ai membri che non riescono a spingersi a tali soglie e che, anzi, faticano ad arrivare al 2% (Italia su tutti)? Avrebbero anch’essi garantito l’ombrello securitario statunitense? I dubbi sono più che comprensibili.

Anche nei confronti di Taiwan il Presidente eletto ha espresso una posizione similmente polemica. Taipei, dal suo punto di vista, dovrebbe pagare per la protezione statunitense, anche perché si sarebbe impossessata del mercato dei semiconduttori, sostituendo la produzione americana4. La reazione innervosita di Lai Ching-te, presidente di Taiwan, non si è fatta attendere.

Si sente Donald Trump affermare – da ultimo sul suo social media Truth – che l’amministrazione Biden è stata troppo debole con la Cina. Nei confronti di Pechino, invece, Trump dichiara che sin dal primo giorno di mandato verranno aumentati del 10% tutti i dazi sulle importazioni, i quali potrebbero aumentare sino al 60%. Il neo Presidente tuona anche nei confronti di Canada e Messico: sembra che all’insediamento del magnate newyorkese nello studio ovale entrambi i Paesi verranno colpiti con dazi anche maggiori rispetto a quelli previsti per Pechino, pari al 25% su tutti i beni importati negli USA5.

Anche l’Unione Europea è obiettivo di Trump. In un comizio tenuto il 29 ottobre in Pennsylvania, il magnate di New York ha dichiarato che l’Unione Europea, che sembra così carina, costellata di piccole nazioni, pagherà caro per non aver importato abbastanza prodotti americani, pensando di poterli solo esportare. Pertanto, anche l’Unione Europea sembrerebbe rientrare tra i soggetti sottoposti a dazi mediante il prossimo atto presidenziale che regolerà le tariffe imposte sulle importazioni (il così detto Reciprocal Trade Act)6.

Insomma, tra le tuonanti – forse esagerate – dichiarazioni di Trump e il timore che possano concretizzarsi, la confusione è molta. Il fatto che i Repubblicani abbiano preso il controllo sia di Senato che Camera conferisce a Trump molto margine di manovra, è fuori di dubbio. Tuttavia, questa elezione non risolverà lo smarrimento americano, la crisi di identità dell’ancora prima potenza al mondo – di cui in questa sede già si era scritto – rimane tale. La pronosticabile elezione di Donald Trump, sintomo di faglie che attraversano la società statunitense che vanno ben oltre la mera appartenenza politica, non potrà (presumibilmente) portare la rivoluzione che a più riprese è stata annunciata.

Osserveremo dei cambiamenti, è probabile che saranno soprattutto interni, ma il Presidente da solo, sebbene la postura americana cambierà, non può rivoluzionare il Paese e i suoi interessi. Sulla sua strada, come già si era fatto notare, il Presidente eletto troverà proprio quegli apparati che intenderebbe smantellare, quel deep State che però, con una concezione del mondo eminentemente liberal o al massimo neocon, come dal progetto iniziale del generale Carl Schurz del 1871 è lì per restare7. Tuttavia, la postura americana, come detto, con Trump muterà. Ciò che non subirà particolari cambiamenti è l’interesse strategico che, sebbene non vi sia una strategia per il suo raggiungimento, si può riassumere così: impedire che in Eurasia si sviluppi una potenza tale da diventare egemone e sfidare il primato americano.

A questo punto, sentendo le sue dichiarazioni, si potrebbe obiettare che Trump persegue l’isolazionismo, che il disimpegno statunitense sarà generalizzato e drammatico a favore delle così dette potenze revisioniste, che ci si deve preparare ad un occidente senza Washington. Certamente sono tutte obiezioni sensate, ma la postura che avrà l’America nei prossimi quattro anni – e forse anche per più tempo – non si può ridurre a questo. Capiamo perché.

1. Isolazionismo? Non secondo alcuni. Una panoramica sul ruolo dell’America secondo Trump

Iniziamo con una premessa che anticipa le conclusioni. A meno di drastici cambiamenti, poco pronosticabili ma, specialmente negli ultimi tempi, sempre possibili, ci sentiamo di affermare che Washington, ragionevolmente, non perseguirà un ritiro e un disimpegno generalizzato dall’agone internazionale. O meglio, i suoi apparati non perseguiranno ciò. Come il lettore ormai avrà capito, infatti, il Presidente in quanto tale può ben poco. Dunque, avviso ai naviganti: quando nel prosieguo del testo ci si imbatterà in Trump come soggetto, sarà per brevità e concisione. Si deve sempre tenere a mente che le politiche sono determinate dagli apparati. Fatte queste premesse, entriamo in medias res per capire perché Trump potrebbe non essere l’isolazionista di cui si parla.

MAGA, Make America Great Again. Ormai conosciamo il motto di Donald Trump. Dai risultati delle ultime elezioni, sembrerebbe essere emersa una necessità di disimpegno degli Stati Uniti. Una introversione richiesta a gran voce, per differenti motivi, sia da una cospicua parte dei repubblicani, nonostante ad oggi sia la porzione di popolazione più incline a trattare di politica estera, che dei democratici. Sono soprattutto questi ultimi ad essere sempre più distanti dalle politiche interventiste e globaliste di cui Biden si è fatto alfiere, da quel senso di eccezionalismo messianico che ha guidato la postura americana nei decenni post Seconda guerra mondiale, di cui si è ampiamente trattato in precedenza in questa sede8.

I repubblicani, almeno coloro che si mostrano propensi a vedere l’America che continua a giocare un ruolo nelle dinamiche globali, hanno un timore fondamentale: la deterrenza americana, a causa della gestione della politica estera da parte di apparati sempre più inclini a sposare la visione liberal dei democratici, non funziona più. Tradotto: nell’agone internazionale l’America non è più temuta né rispettata da nessuno9. Ad ogni modo, nei prossimi quattro anni di presidenza Trump è piuttosto improbabile che l’America si impegni in un conflitto diretto – per la crisi interna e le faglie che attraversano gli USA da dentro, per la sovraestensione imperiale e la crisi delle forze armate e della marina, per l’indisponibilità della popolazione e l’incapacità a mobilitare le enormi risorse di cui gli Stati Uniti dispongono10.

Tuttavia, il fatto che vi sia un’anima repubblicana che intende riaffermare la deterrenza statunitense, posizione condivisa da buona parte della classe dirigente del GOP (Grand Old Party, i repubblicani), non sembrerebbe palesare un isolazionismo così marcato dell’amministrazione Trump. Il Presidente eletto, poi, dovrà tener conto anche delle istanze dell’elettorato repubblicano che interpreta il motto MAGA in senso assolutamente introvertito, bilanciando le due posizioni di cui sopra. Compito non facile.

Il 18 giugno è stato pubblicato su Foreign Affairs, la più prestigiosa rivista di relazioni internazionali, un articolo in cui Robert Charles O’Brien, ex Consigliere per la sicurezza nazionale durante la prima amministrazione Trump, esplica quale sarà, presumibilmente, la postura dell’America nei prossimi quattro anni e i suoi interessi strategici. Il sistema della deterrenza verrà implementato, tuttavia si opererà in modo piuttosto diverso rispetto al filone democratico-liberal cui appartiene Biden – che va via via scemando anche tra i dem.

O’Brien è un fermo sostenitore di quella corrente repubblicana di cui sopra secondo la quale l’America deve imperativamente tornare a far paura, ricostituire il sistema di deterrenza che attraversa una profonda crisi se non è, effettivamente, già saltato (non ci si riferisce alla deterrenza strategica, nucleare, ma a quella convenzionale). Pertanto, gli Stati Uniti dovrebbero recuperare la strada tracciata da George Washington in un discorso al Congresso del 1793. Il primo presidente americano, in tale occasione affermò che, se si ha il desiderio di assicurare la pace, uno dei più potenti e importanti strumenti per raggiungere la prosperità, si deve essere consapevoli che in ogni momento, al contempo, è necessario essere pronti alla guerra11.

Domenica 8 dicembre Donald Trump ha rilasciato un’intervista al network televisivo NBC. Ha avuto inevitabilmente una certa eco mediatica l’affermazione in base alla quale gli Stati Uniti sarebbero pronti a lasciare la NATO qualora gli altri membri non contribuiscano adeguatamente12. Del resto, si aggiunge alla precedente dichiarazione fatta il 10 febbraio 2024 dall’allora candidato alle primarie repubblicane quando affermò che avrebbe incoraggiato la Russia a fare quello che avesse voluto nei confronti dei membri dell’Alleanza Atlantica che non versano abbastanza fondi13. Tuttavia, nonostante queste dichiarazioni alquanto sopra le righe – per usare un eufemismo – l’intento di Donald Trump non sarebbe una uscita dell’America dalla NATO, anche perché le procedure non sono propriamente semplici e immediate. Non è una scelta che dipende esclusivamente dal Presidente.

Infatti, poco più di un anno fa il Congresso ha approvato un disegno di legge che vieta a qualsiasi Presidente di ritirarsi unilateralmente dalla NATO senza la previa approvazione del Senato a maggioranza rafforzata dei due terzi dei componenti ovvero senza un atto del Congresso stesso. Tale disegno di legge, che è stato poi inserito nel National Defense Authorization Act, peraltro, è stato proposto e sostenuto non solo dal senatore Democratico Tim Kaine, ma anche da Marco Rubio, senatore repubblicano e futuro Segretario di Stato14. Insomma, l’uscita dall’Alleanza Atlantica non è in alcun modo nelle piene disponibilità del Presidente. Inoltre, il fatto che Rubio, Segretario di Stato della nuova amministrazione Trump, fosse tra i firmatari del disegno di legge di cui sopra, non fa che certificare il fatto che il Presidente eletto potrebbe poco o nulla in materia di uscita dalla NATO.

2. Disimpegno in Europa: due opposte visioni

Le roboanti dichiarazioni di Trump dovrebbero dunque essere iscritte in una cornice più realistica. In primis si deve considerare la gravosa procedura per uscire dall’Alleanza, e in secundis il fatto che il prossimo primo dirigente della politica estera americana è fermamente convinto della centralità dell’America nella NATO e sostiene l’indisponibilità della decisione di ritirarsi dall’Alleanza Atlantica da parte del Presidente. Ciò, pertanto, farebbe pensare con ragionevole certezza che le affermazioni di Trump si debbano interpretare come minacce retoriche. Come sostiene l’analista Stephen Wertheim, al prossimo Presidente americano, infatti, interessa ottenere che i Paesi europei investano più nella difesa in modo da costruire una credibile deterrenza nei confronti della Federazione Russa piuttosto che dover affrontare un problema strategico enorme quale il completo ritiro degli USA dall’Europa15.

A dimostrazione del fatto che è anche nell’interesse di Trump il rafforzamento della deterrenza nei confronti di Mosca, vi è anche il fatto che fonti interne agli apparati vicine a Trump hanno rivelato al Financial Times che verranno confermati tutti gli aiuti militari all’Ucraina16. Non proprio l’abbandono di Kiev di cui si leggeva (e si continua a leggere). Inoltre, al termine della precedente amministrazione Trump si voleva procedere con il trasferimento di circa 30 mila militari stanziati in Germania per dislocarli in Polonia. Altrettanti sarebbero stati trasferiti nelle basi dell’Indopacifico, al fine di aumentare al contempo la pressione sulla Federazione Russa e sulla Repubblica Popolare Cinese: «le truppe americane devono stare dove si trova il fronte. E il fronte, ora, è a Est, contro la Russia, e nel Pacifico, per dissuadere la Cina [dal compiere azioni militari contro Taiwan, N.d.A.]». Tuttavia, questo rimase solo un piano nel cassetto in quanto Angela Merkel si sarebbe veementemente opposta17. Ciò confermerebbe ulteriormente l’importanza della deterrenza nei confronti della Russia, anche da parte di Trump: graduale disimpegno per concentrarsi principalmente sul Pacifico sì – come avrebbe voluto fare anche Biden d’altronde -, ritiro incondizionato e immediato dall’Europa no.

Impedire che una potenza che si propone egemone domini l’Europa è ancora uno dei principali interessi strategici americani. Per questo, piuttosto, la presidenza Trump, per concentrare le limitate e sovraestese risorse americane nell’Indopacifico, potrebbe fare in modo che, mantenendo la cornice della NATO, le capacità e le responsabilità della difesa dell’Europa passino gradualmente in mano ai Paesi dell’UE. Da parte americana, sarebbe necessario coadiuvare le forze armate europee in questo processo di transizione, che hanno tutte le capacità tecnologiche e numeriche per organizzare un credibile sistema di difesa e deterrenza, per limitare la presenza americana in Europa. La gradualità sarebbe dirimente in quanto se gli USA dovessero abbandonare l’Europa unilateralmente in modo inaspettato, si lascerebbe un vuoto estremamente pericoloso che Mosca, con ogni probabilità, occuperebbe18. Una transizione del genere, di conseguenza, non sarebbe presumibilmente realizzabile a pieno nei prossimi tre anni, ma potrebbe essere Trump l’iniziatore di tale processo.

Di diverso avviso è Michael Mazarr, senior political analyst presso la RAND Corporation. In primis, secondo Mazarr non sarebbe possibile concentrarsi in maniera sostanziale sul Pacifico, come molti analisti sostengono che si debba fare. Infatti, affermare che si possa affrontare la minaccia cinese – ritenuta concordemente strategica – senza abbandonare completamente l’Europa e rimanendo nella NATO, sarebbe solo un mero esercizio teorico. L’analista della RAND Corporation, dunque, scrive che, se si volesse dare una tale priorità al teatro Indopacifico, gli Stati Uniti dovrebbero indubbiamente «tagliare le loro forze in Europa e almeno sollevare la concreta possibilità di allontanarsi dall’Alleanza»19.

Spingere gli “alleati” europei a sviluppare una difesa autonoma disimpegnando le forze americane dal Vecchio Continente sarebbe una soluzione solo concettualmente perseguibile, che non tiene in considerazioni gli enormi rischi presenti e che, nella realtà, si dimostrerebbe gravemente controproducente. Il messaggio politico che si darebbe alla Russia sarebbe evidente. Nel caso in cui Mosca dovesse decidere di ampliare la sua profondità difensiva attaccando uno Stato europeo, gli USA non potrebbero stare a guardare, qualunque sia la posizione del presidente di turno. Inoltre, considerata la partnership che presumibilmente continuerà a legare Russia e Cina, quest’ultima, molto plausibilmente, rifornirebbe Mosca di tutta la logistica necessaria per condurre la guerra. L’Europa, dunque, sarebbe indissolubilmente legata con l’Indopacifico: si indebolirebbe sia l’una che l’altro.

Per ricorrere ad una espressione di Mazarr, paragonare il teatro europeo con quello dell’Indopacifico, oltretutto, sarebbe come comparare «mele e arance». Le esigenze militari, logistiche e tattiche dei due teatri, infatti, non sarebbero simili. Inoltre, le risorse militari, ma anche economiche (circa 36 miliardi di dollari), che Washington impiega in Europa non confliggerebbero con le risorse necessarie nel Pacifico. Per incrementare queste ultime in modo sostanzioso, l’America dovrebbe necessariamente abbandonare l’Europa e quindi la NATO, cosa che, come specificato, non potrebbe essere sostenibile.

3. Le alleanze

Per quanto riguarda le alleanze, il Presidente eletto mirerebbe, piuttosto, ad una loro nuova lettura, non ad uno stravolgimento. Come si sente dire spesso da funzionari dell’amministrazione Trump, «America first is not America alone»20. Donald Trump avrebbe infatti dato già prova di un ulteriore rafforzamento non solo della NATO – attraverso il costante aumento dei fondi destinati all’Alleanza durante il suo primo mandato, passati dai 651 milioni di dollari nel 2016 ai 704 del 202021 – ma anche di tutte le altre partnership con Paesi come Giappone, Corea del Sud, Israele, e le monarchie del Golfo, situati in regioni strategiche per gli Stati Uniti.

Spesa militare dei Paesi membri della NATO (fonte: Geopolitical Future).

L’obiettivo della seconda amministrazione Trump, pertanto, sarebbe un maggior rafforzamento di questi rapporti bilaterali, favoriti anche dalla presenza di leader conservatori allineati, per aumentare la pressione su Teheran e soprattutto su Pechino. La politica estera di Trump, dunque, per O’ Brien dovrebbe rappresentare la reazione alle criticità e mancanze che il globalismo e l’internazionalismo liberal avrebbe mostrato negli ultimi 35 anni. Pertanto, sebbene anche le alleanze tradizionali come la NATO continueranno ad occupare un posto centrale nell’agenda estera di Trump, «Washington dovrebbe anche prendere in considerazione la possibilità di costruire legami politici al di là delle sue partnership tradizionali»22.

Anche i critici della concezione trumpiana degli interessi statunitensi, come il già citato Michael Mazarr, ritengono che le partnership istituzionali con Tokyo, Seoul, Canberra e Wellington siano cruciali in funzione anticinese. Tuttavia, tali partnership dovrebbero essere comunque inserite nel quadro della NATO, dimostrando come, in ogni caso, è l’Alleanza Atlantica il vertice dal quale devono discendere poi tutte le altre eventuali alleanze o partnership americane. Infatti, secondo Mazarr e altri è attraverso la NATO che Washington può migliorare le modalità di condivisione di informazioni, di approvvigionamento e logistica, di interoperabilità tra le diverse forze armate dei Paesi membri, approntando quegli standard che poi vengono estesi anche ai partner di cui sopra. Di più. Oltre a sviluppare ulteriormente tali settori – a cui aggiungere una capacità di difesa cibernetica integrata con gli altri membri dell’Alleanza – in caso di conflitto con la Repubblica Popolare, la possibilità di difendersi e contrattaccare con maggior efficacia sarebbe garantita al meglio soltanto attivando l’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico23.

D’altra parte, gli stessi membri del Patto Atlantico si sono dimostrati sempre più sensibili alle esigenze statunitensi di contenere la Cina. Negli ultimi due anni soprattutto, il dispiegamento di navi europee nell’Indopacifico è molto aumentato. Basti pensare al viaggio compiuto dal gruppo di attacco della portaerei italiana Cavour o dal Pattugliatore d’altura Montecuccoli; agli analoghi itinerari seguiti dalle marine francese e britannica, a cui si è aggiunta persino la Germania. A ciò si aggiungano anche le esercitazioni con alcuni Paesi strategici per contenere Pechino, come quelle che l’Italia ha svolto recentemente con Giappone e India. Le forze armate europee NATO, insomma, anche grazie alle partnership bilaterali di vendita (come nel caso delle fregate FREMM prodotte da Fincantieri e vendute all’Indonesia, per le quali anche Malaysia e Singapore si sono mostrate interessate) e sviluppo di nuovi sistemi d’arma – vedasi il nuovo caccia di sesta generazione che sarà sviluppato da Roma, Tokyo e Londra – svolgono un ruolo sempre più cruciale anche nell’Indopacifico.

Tutto ciò, dunque, confermerebbe che lo sviluppo delle partnership che lo stesso Trump intende comprensibilmente accrescere per meglio perseguire gli interessi più strategici di Washington non potrebbe comunque prescindere da un rafforzamento della NATO.

4. Riaffermare la deterrenza

Dal punto di vista di Donald Trump, fine principale della politica internazionale americana dovrebbe essere tornare ad esercitare una credibile deterrenza nei confronti di tutti i soggetti che mettono a repentaglio gli interessi americani. Dagli Huthi, alla Russia, fino all’avversario strategico, la Repubblica Popolare Cinese. Gli Stati Uniti devono implementare sia l’arsenale convenzionale che quello nucleare, il quale necessita di essere rinnovato. In poche parole: l’America deve tornare a impaurire i suoi avversari. Tutti. Lo stato attuale delle forze armate, però, è attualmente critico. Non si è raggiunto il numero minimo di reclute annuali in ogni corpo delle forze armate, marines a parte. La flotta è in gran parte vetusta e numericamente insoddisfacente per coprire tutti i fronti, oltre ad essere colpita da ricorrenti ritardi nella manutenzione a causa della crisi dei cantieri navali. Si assiste ad una preoccupante scarsità di alcuni sistemi d’arma, tanto da un punto di vista numerico (come per i missili, sia standard, che tomahawk e aria-aria, le cui riserve consumate contro gli Huthi sarebbero state intorno al 4-5% del totale) che tecnologico (ci si riferisce al mancato sviluppo di vettori ipersonici, per la cui ricerca l’amministrazione Obama nel 2011 aveva drasticamente ridotto i fondi).

La superiorità tecnologica che, sin dalla Seconda guerra mondiale, per passare alle guerre in Medio Oriente, aveva permesso agi Stati Uniti di impiegare meno boots on the ground e di rifornire gli altri eserciti di mezzi e armi, contenendo le perdite, oggi sarebbe quasi del tutto assente nei riguardi della Repubblica Popolare Cinese24. Anche la deterrenza strategica (nucleare) necessita di un drastico aggiornamento dato che gli attori ostili dotati dell’arma atomica si sono moltiplicati rispetto a quando era presente solo Mosca25. Le procedure di procurement e di acquisizione di mezzi per le forze armate sono in crisi, non solo per quanto riguarda il bilancio della difesa, che è inadeguato per le prossime sfide, ma anche per la pianificazione strategica del Dipartimento della Difesa26. Considerata la loro attuale lentezza e farraginosità, alcuni sostengono che la seconda amministrazione Trump potrà dare una svolta in tal senso, rendendole più pragmatiche e agili e favorendo la ripresa dell’industria nazionale27.

Queste sono soltanto alcune delle criticità che affliggono le forze armate statunitensi, la cui risoluzione sarebbe dirimente per tornare ad avere una postura assertiva, scelta necessaria e cruciale per gli Stati Uniti. Secondo Robert O’ Brien, Nadia Schadlow e altri, infatti, non sarebbe sufficiente proseguire sulla scia di quanto fatto durante la prima presidenza Trump in quanto da allora gli avversari degli USA si sono particolarmente rafforzati, premendo fortemente l’acceleratore per una transizione egemonica e moltiplicando le sfide geopolitiche28.

Secondo Robert O’ Brien e Stephen Kotkin la presidenza Biden, ma anche le amministrazioni Obama, sarebbe stata gravemente dannosa per quanto riguarda l’indebolimento dell’immagine degli Stati Uniti. A partire dalla disastrosa ritirata – o meglio, fuga – dall’Afghanistan. Per l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale, il ritiro da Kabul è stato una sorta di copia dell’abbandono di Saigon al termine della Guerra in Vietnam ed è stato il punto di rottura per il cambio di percezione nei confronti dell’America da parte dei suoi avversari. Trump, durante la fine del suo primo mandato, si era dimostrato assolutamente favorevole ad un ritiro dall’Afghanistan, ma, stando a quanto dichiarato dal già Consigliere per la sicurezza nazionale, il piano che era stato approntato sarebbe stato radicalmente diverso da quello che poi è stato messo in pratica da Biden29. Inoltre, dinnanzi al raddoppio dell’arsenale nucleare cinese solo dal 2020 ad oggi e ai nuovi test di missili balistici intercontinentali da parte russa, gli Stati Uniti sarebbero rimasti inerti. Stando alle conclusioni di O’ Brien, gli USA dovrebbero essere numericamente superiori, quanto a vettori nucleari, a Cina e Russia messe insieme. Obiettivo ambizioso e già estremamente complesso da raggiungere di per sé, ancor di più se lo si raffronta alla breve durata del mandato di Trump.

Già all’inizio del suo primo mandato – in tempi a dir poco meno sospetti rispetto a oggi – Trump aveva avvisato che di lì a breve si sarebbe ripresentata la competizione tra grandi potenze, ma in modo diverso rispetto al passato. Per questo motivo, dunque, la prima Strategia per la Sicurezza Nazionale del precedente mandato di Donald Trump aveva sottolineato che, nel prossimo futuro, gli avversari degli Stati avrebbero cercato in ogni modo di erodere la posizione di Washington nell’ordine internazionale. Così, in effetti, è stato. L’era post-Guerra Fredda, caratterizzata dall’assenza di un’intensa competizione tra grandi potenze, è ormai finita e la competizione strategica si è intensificata in quasi ogni aspetto della politica internazionale30.

Pertanto, l’obiettivo che Trump vorrebbe perseguire sarebbe trasformare l’attuale disordine mondiale (espressione ripresa dall’ultima pubblicazione di Manlio Graziano) in un ordine internazionale in cui siano riaffermati il soverchiante potere militare e la deterrenza di Washington. Soltanto in tal modo, infatti, sarebbe possibile sostenere e garantire i vantaggi politici ed economici degli Stati Uniti, non tanto per riaffermare il primato assoluto, che apparterrebbe ad un’era passata, le cui criticità hanno condotto il mondo nella situazione attuale. Lo scopo di una nuova affermazione di forza accrescendo la deterrenza statunitense sarebbe, piuttosto, fare in modo che l’America possa tornare ad avere e mantenere «la sua libertà di azione e proteggere le libertà di cui gli americani hanno goduto a lungo»31.

Per gli Stati Uniti sarebbe dunque fondamentale – lo sarebbe stato anche se fosse stata eletta Kamala Harris – tornare a plasmare gli eventi, e non solo reagire ad essi come Washington si è limitata a fare negli ultimi anni. Ciò implicherebbe una presa di coscienza, riconoscendo la sovraestensione dell’impero americano e l’impossibilità di ergersi a difensore della pace e della libertà in ogni angolo del mondo32. L’esercizio della forza – attività che non è ben conciliabile con l’isolazionismo – dunque, non sarebbe assolutamente negato. Piuttosto, vi si dovrebbe ricorrere esclusivamente per perseguire gli interessi – esistenziali o quanto meno strategici – americani e non al fine di espandere e difendere democrazia e libertà. Il concetto del così detto “nation building”, sul quale soprattutto liberal e anche, in una parte non irrilevante, neocon hanno giustificato l’interventismo statunitense deve essere definitivamente abbandonato33.

Secondo lo storico Stephen Kotkin – il quale ha dato prova di ammirare quanto meno la capacità di Donald Trump di captare e impersonificare il profondo spirito americano contemporaneo – gli Stati Uniti, anche con un Trump 2.0, e nonostante le sue continue affermazioni volte al disimpegno americano, realisticamente non saranno in alcun modo arroccati sulla loro collina, isolati dalle vicende internazionali. Nonostante la crisi che al momento impedisce agli USA di impegnarsi seriamente in nuovi scenari e le faglie che minano la società americana dall’interno indebolendo anche il soft power statunitense (di cui abbiamo ampiamente parlato e che abbiamo diffusamente descritto), l’America dovrà necessariamente trovare un modo per continuare ad essere soggetto geopolitico centrale. Gli stessi Biden e Obama avevano dato prova di voler perseguire un disimpegno spinto, ma poi sono dovuti tornare sui loro passi. Ebbene, nonostante la retorica di Trump sia agli antipodi rispetto ai due ex presidenti democratici, anche lui non potrà mai essere isolazionista34.

Lasciandoci il beneficio del dubbio considerata la perenne imprevedibilità di Donald Trump, è estremamente probabile che egli, pertanto, perseguirà con maggior vigore la riaffermazione della forza americana nei confronti degli avversari strategici di Washington. Con il cambiamento dell’inquilino alla Casa Bianca, cambierà anche il messaggio, ma la sostanza rimarrà la stessa. Senza abbandonare completamente, ad ogni modo, quei teatri che al momento sono secondari per l’America.

5. Lo spettro dell’isolazionismo

Si devono registrare anche le numerose opinioni, provenienti da autorevoli fonti, di chi invece ritiene che i prossimi quattro anni saranno improntati all’estremo isolazionismo, con preoccupanti conseguenze per gli Stati Uniti e per il mondo. La prima cosa da fare è capire quali siano le radici dell’isolazionismo trumpiano che, secondo i critici, caratterizzerà il prossimo futuro dell’America.

Innanzitutto, non sarebbe una novità nella storia della politica americana, tutt’altro. Secondo Kupchan – senior fellow presso il Council on Foreign Relations (CFR) e professore di relazioni internazionali alla Georgetown University – in realtà l’isolazionismo avrebbe caratterizzato la maggior parte della storia politica degli USA, dalla presidenza Washington (1789-1797) al 1941. L’isolazionismo garantiva gli interessi di tutti, dai realisti, che ritenevano fosse necessario conservare il vantaggio geografico americano, agli idealisti e progressisti, secondo i quali l’isolazionismo avrebbe permesso di «rifuggire dalla realpolitik e di concentrarsi sul benessere economico e sociale interno piuttosto che su strumenti di guerra», fino a giungere ai conservatori nazionalisti e anti immigrazione, per i quali le ragioni a favore dell’isolazionismo erano (e sono) piuttosto evidenti35. Insomma, le politiche isolazioniste sono state per oltre un secolo l’ombrello che garantiva protezione a tutti i gruppi di interesse politico. Poi, nel 1941, la storia americana è cambiata: l’attacco a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941 ha determinato un feroce mutamento della postura di Washington. Era iniziata l’era dell’internazionalismo liberal, della Pax Americana. La potenza americana si sarebbe dovuta proiettare nel mondo creando e difendendo un ordine internazionale aperto e multilaterale tra le democrazie. Per decenni, questa concezione è stata condivisa sia da repubblicani che democratici.

Poi, sono intervenute le crisi strategiche, le fratture sociali, economiche e politiche interne alla società americana, che hanno gravemente scosso tale visione del mondo e del ruolo degli USA. Tuttavia, secondo i critici l’opzione città isolata sulla collina nel mondo attuale non è percorribile, per molteplici ragioni, tra cui lo sviluppo di missili balistici intercontinentali, l’interdipendenza economica, la connettività del cyberspazio, il cambiamento climatico. Conferma di ciò sarebbe stata anche la rapidità e l’efficienza con cui gli Stati Uniti e gli altri membri della NATO sono stati in grado di formare una coalizione per raccogliere e rifornire Kiev di armamenti e sistemi d’arma. Pertanto, tale efficienza e velocità che si è vista nei confronti dell’Ucraina sarebbe fondamentale anche nel caso in cui la Repubblica Popolare Cinese dovesse muovere guerra contro Taiwan36.

Summit NATO a Washington, 11 luglio 2024 (fonte: Defense One).

La mobilitazione degli alleati, regionali e non, sarebbe infatti cruciale. Per coloro che temono l’isolazionismo trumpiano, sarebbe assicurata soltanto da una postura fortemente internazionalista e aperta alle alleanze con le democrazie, come fatto vedere da Biden. Il distacco strategico e l’andare da soli non sarebbero più opzioni oggettivamente praticabili37. Pertanto, la concezione che Trump avrebbe delle alleanze – corde, cappi che legano gli Stati Uniti alla volontà degli altri membri, i quali si comportano come free rider, limitandosi a sfruttare Washington – non sarebbe minimamente calata nella realtà. Sarebbe motivata esclusivamente da una posizione unilaterale piuttosto che dalla reale possibilità di procedere con un distacco strategico.

Le alleanze e le partnership di cui sono parte gli USA sarebbero dirimenti per approntare una credibile difesa comune, e dunque per proteggere gli interessi americani. Chi teme l’isolazionismo della nuova presidenza Trump sostiene che le alleanze, NATO su tutte, e le partnership securitarie, come AUKUS e QUAD, siano state estremamente rinvigorite dall’amministrazione Biden38. Si sostiene, dunque, che gli interessi securitari statunitensi non possano che essere condotti rafforzando la postura internazionalista. Dal contenimento della Russia, che sarebbe sensibilmente migliorato grazie all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica, che sarebbe stata molto rinvigorita proprio per merito della presidenza Biden; al contenimento della Cina, unico Paese in grado di sfidare (qualora effettivamente voglia farlo) e rimodellare l’ordine internazionale americano. Anche il “cordone sanitario” approntato nei confronti di Pechino – che lo percepisce come ben poco sanitario – è ulteriormente progredito grazie a rapporti più saldi stretti da Joe Biden non solo con i membri di AUKUS e QUAD, ma anche con altri Paesi del Sud Est asiatico appartenenti all’impropriamente detto Sud Globale, come il Vietnam39.

Tuttavia, nei confronti di quest’ultimo conglomerato di Stati, sebbene tali critici di Trump ritengano che è stata la presidenza Biden ad attivarsi per ricomprenderli nell’equazione americana, gli Stati Uniti devono fare di più. Al momento, infatti, Washington arriva in ritardo, si muove in risposta a quello che fa la Repubblica Popolare. Per tornare a quanto scritto sopra, anche i critici come Condoleezza Rice sostengono che l’America non deve più limitarsi a reagire, ma deve tornare a plasmare gli eventi. Questo, però, non potrebbe essere minimamente perseguito seguendo le politiche isolazioniste trumpiane40.

Di più. La presidenza Biden, con il suo internazionalismo, sarebbe stata in grado di spingere ulteriormente verso un maggior disaccoppiamento da Pechino grazie alla costruzione di «catene di approvvigionamento resilienti e durevoli con partner e alleati in settori vitali, tra cui semiconduttori, medicina e biotecnologia, minerali critici e batterie». In tal modo, gli Stati Uniti sarebbero molto meno vulnerabili alle interruzioni di prezzo o di forniture, rafforzando la sicurezza nazionale41. Trump, per i critici quali Rice, Sullivan, Blinken e Kupchan non potrebbe garantire la sicurezza nazionale sotto nessun punto di vista.

Alienarsi dagli alleati e partner sarebbe estremamente controproducente anche dal punto di vista economico. L’imposizione di dazi elevati sull’import anche nei confronti di Paesi satelliti dell’America (o alleati, che dir si voglia), motivata dalla volontà di riportare le industrie statunitensi a produrre sul territorio nazionale, può far sì che le nazioni europee non seguano Washington nel decoupling nei confronti di Pechino. L’equazione è piuttosto semplice: se il mercato americano dovesse diventare, come sembra, di più difficile accesso, gli europei dovrebbero necessariamente rivolgere il proprio surplus produttivo altrove, ossia a Pechino. Oltretutto, incombe una drammatica crisi sul settore dell’automotive europeo. Le grandi case automobilistiche cinesi sono sostanzialmente le uniche a produrre un gran numero di macchine che soddisfino le richieste di adeguamento green provenienti dall’Unione Europea, ancora a basso costo. Ebbene, se gli USA dovessero sostanzialmente chiudere all’importazione di veicoli europei, come è stato più volte ventilato di Trump per evidenti interessi di Musk, per i membri europei si potrebbe presentare il dilemma se aprire alle grandi case automobilistiche cinesi.

Anzi, la questione è già realtà. I colossi cinesi Dongfeng e BYD, infatti, stanno sondando seriamente la possibilità di aprire grandi fabbriche per produrre loro veicoli in Europa. Dongfeng in Italia, dove potrebbe sfruttare il fatto che possiede l’1,5% di Stellantis e che Paolo Berlusconi ha investito nel 10% di Dongfeng Italia, BYD in Ungheria42. Due Paesi che, dunque, nonostante le vicinanze a Trump, sembrerebbe stiano seriamente aprendo le porte alla Cina, dimostrando quanto le politiche isolazioniste e protezioniste siano effettivamente controproducenti per Washington.

Prossimo e ultimo appuntamento in questo viaggio nella geopolitica americana con i fronti caldi nel mondo e come questi potrebbero cambiare in seguito all’elezione di Donald Trump. Particolare attenzione sarà in seguito dedicata all’interesse nazionale italiano e a come Roma potrà muoversi durante i quattro anni di Trump.

BIBLIOGRAFIA

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FONTI FOTOGRAFICHE

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  1. J. E. Barnes, H. Cooper, Trump discussed pulling U.S. from NATO, aides say amid new concerns over Russia, in www.nytimes.com, 14 gennaio 2019. ↩︎
  2. K. Sullivan, Trump says he would encourage Russia to ‘do whatever the hell they want’ to any NATO country that doesn’t pay enough, in www.cnn.com, 11 febbraio 2024. ↩︎
  3. V. Goury-Laffont, Trump reportedly wants NATO members to boost defense spending to 5 percent of GDP, in www.politico.com, 21 dicembre 2024; Trump wants 5% Nato defence spending target, Europe told, in www.ft.com, 20 dicembre 2024. ↩︎
  4. Europe will pay a ‘big price,’ Trump warns on tariffs, in www.reuters.com, 30 ottobre 2024. ↩︎
  5. D. Goldman, Trump ups the ante on tariffs, vowing massive taxes on goods from Mexico, Canada and China on Day 1, in www.cnn.com, 26 novembre 2024. ↩︎
  6. Europe will pay a ‘big price,’ Trump warns on tariffs, cit. ↩︎
  7. D. Fabbri, Fa’ la cosa giusta, L’Editoriale, in Domino, novembre 2024; Limes Rivista Italiana di Geopolitica, Il mondo secondo Trump. Cosa cambia nelle guerre in Ucraina e Medio Oriente e nella sfida Usa-Cina, 7 novembre 2024, https://www.youtube.com/watch?v=0Mhj7EnzZi0. ↩︎
  8. Per una più ampia trattazione, https://www.geopolisonline.it/prospettive-geopolitiche/viaggio-al-centro-dellamerica/. ↩︎
  9. F. Petroni, La fine di un’epoca, Fiamme americane, in www.limesonline.com, 8 novembre 2024. ↩︎
  10. Amplius: W. Beaver, L’industria della difesa non protegge più l’America, in Mal d’America, Limes, marzo 2024; L. Caracciolo, L’impero, non il mondo, in Mal d’America, Limes, marzo 2024; S. Cropsey, La U.S. Navy non basta, ci servono alleati, in Mal d’America, Limes, marzo 2024; Id., Come abbiamo smesso di fare strategia, in Fine della guerra, Limes, aprile 2024; F. Petroni, Disincanto americano, in Il bluff globale, Limes, aprile 2023. ↩︎
  11. R. C. O’Brien, The return of peace through strength, in www.foreignaffairs.com, 18 giugno 2024. ↩︎
  12. J. Kozlowska, E. Knickmeyer, Trump calls for ‘immediate’ cease-fire in Ukraine, says U.S. withdrawal from NATO is possible, in www.latimes.com, 8 dicembre 2024. ↩︎
  13. K. Sullivan, Trump says he would encourage Russia to ‘do whatever the hell they want’ to any NATO country that doesn’t pay enough, in www.cnn.com, 11 febbraio 2024. ↩︎
  14. L. Kelly, Congress approves bill barring any president from unilaterally withdrawing from NATO, in www.thehill.com, 14 dicembre 2023. ↩︎
  15. S. Wertheim, The United States Stepping Back From Europe Is a Matter of When, Not Whether, in www.carnegieendowment.org, pubblicato su Raeson, 1 aprile 2024; R. Douthat, «They would never be doing this under Trump»: two G.O.P. foreign policy experts on what a second term would mean for the world, in www.nytimes.com, 24 ottobre 2024. ↩︎
  16. Trump wants 5% Nato defence spending target, Europe told, in www.ft.com, 20 dicembre 2024. ↩︎
  17. R. Douthat, «They would never be doing this under Trump», cit. ↩︎
  18. C. S. Chivvis, S. Wertheim, America’s Foreign Policy Inertia. How the Next President Can Make Change in a System Built to Resist It, in www.foreignaffairs.com, 14 ottobre 2024. ↩︎
  19. M. J. Mazarr, Why America still needs Europe. The false promise of an “Asia First” approach, in www.foreignaffairs.com, 17 aprile 2023. ↩︎
  20. R. C. O’Brien, The return of peace through strength, cit. ↩︎
  21. Defence Expenditure of NATO Countries (2014-2024), Press Release, in www.nato.int. ↩︎
  22. N. Schadlow, How America Can Regain Its Edge in Great-Power Competition, in www.foreignaffairs.com, 9 ottobre 2024. ↩︎
  23. M. J. Mazarr, Why America still needs Europe, cit. ↩︎
  24. Trump and the future of American power. A conversation with Stephen Kotkin, in www.foreignaffairs.com, 7 novembre 2024. ↩︎
  25. Per una più ampia analisi sulla crisi della deterrenza convenzionale e strategica: https://www.geopolisonline.it/prospettive-geopolitiche/storia-di-una-crisi-la-non-strategia-americana-dal-1991-a-oggi/. ↩︎
  26. C. Rice, The perils of isolationism, in www.foreignaffairs.com, vol. settembre/ottobre 2024. ↩︎
  27. N. Schadlow, How America Can Regain Its Edge in Great-Power Competition, cit. ↩︎
  28. N. Schadlow, How America Can Regain Its Edge in Great-Power Competition, cit.; A. J. BLINKEN, America’s strategy of renewal, in www.foreignaffairs.com, 1 ottobre 2024. ↩︎
  29. R. Douthat, «They would never be doing this under Trump» cit.; Trump and the future of American power, cit. ↩︎
  30. J. Sullivan, The sources of American power. A foreign policy for a changed world, in www.foreignaffairs.com, 9 dicembre 2024; A. F. Krepinevich Jr., The U.S. military and the coming great-power challenge, in www.foreignaffairs.com, 17 novembre 2021. ↩︎
  31. N. Schadlow, How America Can Regain Its Edge in Great-Power Competition, cit.; R. C. O’Brien, The return of peace through strength, cit. ↩︎
  32. C. S. Chivvis, S. Wertheim, America’s Foreign Policy Inertia, cit. ↩︎
  33. R. Douthat, «They would never be doing this under Trump», cit.; G. Friedman, La sconfitta afghana e una nuova strategia per l’America, in Lezioni afghane, Limes, agosto 2021. ↩︎
  34. Trump and the future of American power, cit. ↩︎
  35. C. Kupchan, The deep roots of Trump’s isolationism. Democrats need their own “America First” agenda, in www.foreignaffairs.com, 9 settembre 2024. ↩︎
  36. M. Karlin, The Return of Total War, in www.foreignaffairs.com, vol. Novembre/Dicembre 2024. ↩︎
  37. C. Kupchan, The deep roots of Trump’s isolationism, cit. ↩︎
  38. A. J. Blinken, America’s strategy of renewal, cit. ↩︎
  39. C. Rice, The perils of isolationism, cit. ↩︎
  40. J. Sullivan, The sources of American power, cit. ↩︎
  41. J. Sullivan, The sources of American power, cit. ↩︎
  42. C. Canali, Byd, la prima fabbrica europea di auto elettriche cinesi sarà in Ungheria, in www.ilsole24ore.com, 27 dicembre 2023; A. Angotti, La cinese Dongfeng pronta a produrre auto in Italia, in www.ansa.it, 6 agosto 2024. ↩︎

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