Turkish President Tayyip Erdogan arrives for a meeting in Istanbul, Turkey, March 5, 2017. Murat Cetinmuhurdar/Presidential Palace/Handout via REUTERS

Marcia alla turca: Ankara punta al Mediterraneo. E non solo.

Le mire espansionistiche di Erdogan. Come l’avanzata turca nel mare nostrum impatta sull’Italia e sul suo estero vicino.

“Mamma…li turchi!”. La leggenda narra che le popolazioni del Meridione – dai siciliani ai pugliesi, come nel caso del brutale assedio di Otranto del 1480 da parte della flotta ottomana comandata da Àḥmed Pascià Gedīk – erano solite dare l’allarme in questo modo quando le temibili navi dei corsari barbareschi o della flotta ottomana erano in avvicinamento. Una cosa è certa: con l’espressione “Mamma…li turchi!” si è sempre identificato l’espansionismo, mai pacifico, delle genti turciche nel Mediterraneo. Ebbene, tornando alla contemporaneità, mutatis mutandis – eccezion fatta per l’aspetto della brutale violenza adoperata dagli uomini dei sultani ottomani e dai corsari barbareschi – questa espressione ben potrebbe essere applicata all’espansionismo attuale turco nel Mar Mediterraneo

Erdogan, da due decenni pensa in grande. Specialmente a partire dal 2014, quando da Primo Ministro (carica occupata dal 2003), diventa Presidente della Repubblica di Turchia in seguito al mutamento della forma di governo, da repubblica parlamentare a presidenziale. Consolidato il potere in patria, in maniera non di rado estremamente repressiva e liberticida – si vedano le condanne di numerosi esponenti politici curdi, da ultima la condanna di Selahattin Demirtas a 42 anni di reclusione, ma anche gli arresti e le dimissioni forzate cui sono andati incontro decine di migliaia di cittadini, specialmente docenti universitari, magistrati, dipendenti pubblici in seguito al fallito golpe di luglio 2016 – la politica di potenza turca, afflato dell’impero universalistico ottomano, si è prepotentemente rivolta al Mar Mediterraneo.

Le direttrici verso le quali Ankara si è concentrata negli ultimi anni sono state molteplici, tutte, o quasi, con il Mediterraneo al centro. Dai Balcani Occidentali, già spina nel fianco dell’impero asburgico, al Nord Africa e al Sahel, alle bramate isole greche del Mar Egeo, per passare dal Mar Nero e giungere all’Azerbaijan. Insomma, Ankara ha inteso dare inizio ad una offensiva di potenza, risorgimento dei fasti dell’impero ottomano, su tutti i fronti. Per comprendere l’azione turca, gli interessi di Ankara e come questi possono impattare anche sull’Italia conviene, dunque, procedere per gradi.

1. Grecia, Mar Egeo

In seguito al Trattato di Bucarest del 1913 che seguì la prima guerra balcanica il Regno di Grecia ottenne dall’Impero ottomano in disgregazione le isole del Mar Egeo settentrionale. Nel 1920, con il Trattato di Sèvres, la Grecia arrivò ad occupare la regione anatolica di Smirne: il regno ellenico, dunque, estese il proprio controllo sulla sovranità marittima e territoriale turca. Tali territori, tuttavia, vennero persi nuovamente dalla Grecia con il Trattato di Losanna del 1923, quando le armate turche guidate da Mustafa Kemal (poi Ataturk) riportarono gli occupanti greci in mare, al prezzo, però, di rinunciare alla sovranità sulle isole poste oltre le tre miglia nautiche dalla costa anatolica. In seguito, la sovranità marittima ellenica sull’Egeo Meridionale crebbe ulteriormente, fino a comprendere le isole del Dodecaneso, cedute dall’Italia nel 1947 in conseguenza del Trattato di pace di Parigi. Il mare, pertanto, in seguito a tali erosioni tanto territoriali quanto marittime avvenute tra il 1913 e il 1947 non fu più una priorità strategica per la Turchia.

Tuttavia, dai primi anni Duemila lo spazio marittimo è tornato elemento geopolitico centrale per la Repubblica di Turchia. Ahmet Davutoglu, infatti, prima Ministro degli esteri turco e poi Primo Ministro, elaborò un’opera centrale sul necessario sviluppo della profondità strategica turca, che, secondo lui, sarebbe stata persa proprio con la privazione della sovranità marittima sul Mar Egeo. Da tale opera, dunque, si è in seguito sviluppata una dottrina, un concetto, fondamentale nella proiezione strategica marittima di Ankara sviluppata da Recep Tayyip Erdoğan: la cosiddetta “Patria Blu”, o Mavi Vatan. Attraverso tale dottrina si potrebbe dire che Ankara si propone di ridisegnare la concezione turca del mare, di un elemento storicamente ostile alla terrestre potenza anatolica. Tuttavia, al fine di poter perseguire la propria politica di potenza, deve essere introiettato nella popolazione turca il concetto in base al quale il mare è, sostanzialmente, estensione terrestre della Repubblica di Turchia.

La dottrina della “Patria Blu”, pertanto, si propone di riscrivere la sovranità marittima nel Mar Egeo. La Turchia sostiene che intorno alle isole greche in prossimità della penisola anatolica vi dovrebbero essere esclusivamente acque territoriali, dunque la Grecia non dovrebbe godere di una Zona Economica Esclusiva in quanto la divisione dell’Egeo si dovrebbe fare in base allo sviluppo costiero turco e della Grecia continentale. Infine, nel progetto revisionista di Ankara vi è spazio anche per la sovranità sulle isole greche nel Mar Egeo settentrionale e meridionale. Secondo il disegno della “Patria Blu”, tali isole sarebbero passate in mano greca illegalmente in quanto la Repubblica di Turchia non prese parte, in violazione del Trattato di Losanna del 1923, al Trattato di Parigi con cui l’intero Dodecaneso – per Ankara fondamentale per la propria sicurezza nazionale – fu assegnato alla Grecia. Opera revisionista che passa anche dall’affermazione in base alla quale gli abitanti del Dodecaneso, pur parlando greco, in realtà sarebbero di etnia turca.

Da ultimo, dato fondamentale per comprendere la propensione di Ankara verso il Nord Africa, la Turchia afferma che la sovranità marittima si dovrebbe assegnare «in base allo sviluppo costiero degli Stati misurato sulla terraferma», come affermato da Cihat Yayci, già Capo di Stato maggiore delle forze navali turche. Ciò porterebbe alla conseguenza che il 60% circa della superficie dell’Egeo dovrebbe essere in mano turca, ossia fino ad arrivare alla Zona Economica Esclusiva libica. Tuttavia, nonostante queste siano le non certo concilianti posizioni di Ankara in merito al Mar Egeo, in seguito al conflitto in Palestina la Turchia, pur in presenza di una ulteriore distrazione per gli Stati Uniti, ha deciso di non profittarne, non forzando la mano contro la Grecia. Anzi, con Atene ha iniziato una politica di distensione, sebbene forse solo momentanea. Ankara, infatti, intende perseguire i propri interessi, come si vedrà in tutte le direzioni, rimanendo, però, sempre nell’impero americano.

2. Africa

Veniamo, dunque, alla seconda e più importante direttrice strategica di Ankara, il Nord Africa. La Turchia ha dato ufficialmente avvio all’operazione Nord Africa nel 2019. A differenza delle potenze occidentali cui il Governo di accordo nazionale libico si era rivolto, Ankara ha fornito rilevante sostegno a Tripoli per evitare che gli uomini del generale Haftar occupassero la Tripolitania. Il 21 novembre 2019, Erdogan ha siglato un protocollo di intesa con il Governo di accordo nazionale libico attraverso cui delimitare le aree di giurisdizione marittima dei due Paesi. In tal modo, dunque, si è venuto a creare un vero e proprio corridoio marittimo diretto tra la Zona Economica Esclusiva libica e quella che la Turchia afferma essere la propria ZEE, mettendo pertanto in pratica la dottrina della “Patria Blu”. A nulla sono valse le reazioni dei Paesi vicini, soprattutto le vibranti proteste di Atene di fronte alla volontà di Erdogan di trasformare il Mediterraneo orientale in un lago ottomano.

La possibilità di permettere a Tripoli di resistere al cosiddetto uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, si è realizzata proprio grazie ai rifornimenti marittimi e alla superiorità aerea e navale assicurata dalle fregate turche e dal corridoio tra le due aree di giurisdizione marittima. Si è avuta ulteriore estrinsecazione della dottrina della “Patria Blu”, mutamento strategico, se si vuole anche antropologico, inteso a rendere i turchi popolazione anche marittima.

Oltre allo stabilirsi in Tripolitania, partecipando con la Federazione Russa alla spartizione della Libia – Mosca si è schierata in appoggio di Khalifa Haftar, per porre sotto la propria influenza l’altra grande regione libica, la Cirenaica, nella quale verrà costruita la seconda base navale russa nel Mediterraneo, oltre a Tartus in Siria – Ankara mira ad estendere la propria influenza anche agli altri Paesi della regione. Erdogan, infatti, lo scorso febbraio è tornato in Egitto per la prima volta dopo dodici anni – i rapporti con Il Cairo si erano deteriorati in seguito alla presa del potere da parte di Al Sisi a scapito di Morsi e dei Fratelli Musulmani – per affrontare con il presidente egiziano un dossier fondamentale: forniture militari al Cairo e, nello specifico, degli ormai famigerati droni Bayraktar TB2.

Tuttavia, la vendita dei velivoli senza pilota non interesserà solo l’Egitto. Ankara, infatti, intende diventare partner militare irrinunciabile degli Stati regione. Pertanto, si è impegnata a fornire droni anche ad altri soggetti, come al Sudan, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, andando platealmente contro le direttive di Washington, e all’Etiopia, alla quale ha venduto i più moderni droni Bayraktar Akıncı. Infine, la Turchia, installata una importante base militare in Somalia oltre quattordici anni fa, ha stretto un accordo di difesa con questo Paese tormentato da conflitti interni il 21 febbraio 2024.

Minimo comun denominatore tra Egitto, Sudan, Etiopia e Somalia? Sono tutti Paesi le cui relazioni sono giunte ai limiti della rottura, con la sempre concreta possibilità di degenerare in veri e propri conflitti armati: per questioni di confini, come nel caso di Etiopia e Somalia in merito al Somaliland ovvero tra Egitto ed Etiopia; di gestione delle acque del Nilo, in special modo tra Sudan ed Egitto; di scontri armati con le milizie del Tigray, come nel caso di Etiopia e Sudan. La Turchia, dunque, attraverso la fornitura di droni e gli accordi di difesa, non solo è diventata partner militare fondamentale di tutti i Paesi della regione, ma allo stesso tempo ha agito come equilibratore militare.

3. Medio Oriente

Ulteriore tavolo in cui Ankara intende giocare è il Medio Oriente. Leggendo le dichiarazioni programmatiche sul sito del Ministero degli Esteri turco ci si può già fare un’idea sul ruolo che la Turchia intende avere nella regione. Ankara si propone di lavorare per la stabilità, la sicurezza e il benessere della regione, in concerto con gli altri Paesi arabi. La Turchia erdoganiana è determinata a porsi come guida panislamica dell’Islam sunnita contro l’Iran sciita. Strategia di contenimento di Teheran in cui inserire la normalizzazione nei rapporti con Israele negli ultimi anni.

In seguito al 7 ottobre 2023 e alle conseguenti brutali rappresaglia di Tel Aviv, la narrazione di Erdogan nei confronti dello Stato ebraico è cambiata. Il Presidente turco, dunque, ha cambiato rotta ponendosi (retoricamente) come alfiere della causa palestinese, chiamando i combattenti di Hamas martiri e Israele Stato terrorista. Quella che potrebbe sembrare una crepa profonda, in realtà, è piuttosto una temporanea posizione retorica dovuta alla contingenza, motivata dal perseguimento dell’obiettivo di diventare il Paese guida dell’Islam sunnita.

L’Arabia Saudita non ha preso sostanziali distanze da Israele né dal punto di vista formale né, tantomeno, da quello sostanziale – come dimostra l’indispensabile lavoro di intelligence di Riad la notte dell’attacco missilistico iraniano verso lo Stato ebraico. Scopo di Riad, infatti, è contenere l’Iran e avvicinarsi a Washington, a cui chiedere garanzie di sicurezza e sostegno per il proprio programma nucleare. Pertanto, Erdogan ha occupato il posto di potenza anti-Israele (soltanto retorica, come dimostra la sola sospensione degli accordi in atto tra Ankara e Tel Aviv, non la loro rottura), in cui gli altri Paesi arabi della regione possono riconoscersi.

Fino all’operazione “alluvione Al-Aqsa” di Hamas, la Turchia sembrava aver intrapreso prepotentemente la via verso la guida del Medio Oriente, con gli Stati Uniti che avevano seguìto (volentieri) un disimpegno sia militare che politico nella regione. Poi, tuttavia, la presenza statunitense si è nuovamente resa necessaria. Ciò ha impedito alla Turchia di condurre la politica regionale e ha favorito, dunque, Teheran nei suoi propositi di contenimento di Ankara, impedendole di emergere definitivamente come soggetto guida del Medio Oriente.

Nella strategia di contenimento dell’Iran vi è, poi, un altro fronte aperto dalla Repubblica di Turchia: il controllo di sempre più ampie regioni siriane e irachene. Siria e Iraq vedono da tempo il proprio territorio disputato da Ankara e Teheran. La prima, ha condotto e conduce ripetute e violente operazioni volte a smantellare le strutture del Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, e a controllare i territori in mano ai miliziani curdi. Teheran, dal canto suo, non può permettere che le regioni curde di Siria, ma specialmente Iraq, passino in mano turca. Il Kurdistan iracheno, infatti, è l’unico corridoio terrestre che collega Iran e Siria; dunque, Teheran si impegna a sostenere i curdi attraverso le cosiddette Forze di mobilitazione popolare, gruppi militari sciiti formati dall’Iran e integrati nelle forze armate irachene. Anche in Siria, come in Libia, è da segnalare il fatto che Ankara è costretta, giocoforza, ad avere un vicino scomodo, l’orso russo.

4. Ucraina e Mar Nero

Anche nel conflitto in Ucraina Erdogan ha fiutato la possibilità di giocare le sue carte. Il Presidente turco, dunque, sin dal 24 febbraio 2022 si è destreggiato in un’azione diplomatica improntata ad un equilibrismo senza eguali. Ankara da un lato ha fornito all’Ucraina i ben noti droni Bayraktar TB2, capaci di fermare le colonne corazzate russe in direzione di Kiev, e altri mezzi leggeri per il trasporto truppe, allineandosi dunque alle posizioni NATO. Allo stesso tempo, però, non ha seguito gli altri membri dell’Alleanza Atlantica nell’imposizione di sanzioni a Mosca, preferendo mantenere un costante dialogo con il Cremlino. La Turchia, infatti, sin dall’inizio del conflitto si è posta come unico soggetto terzo capace di organizzare incontri diplomatici tra le parti in guerra. Forte degli ottimi rapporti intessuti con entrambi i Paesi belligeranti – come dimostra, tra i molteplici esempi che si possono fare, la cooperazione militare con la Federazione Russa, che ha portato Ankara ad acquistare batterie di sistemi antimissile russe S-300 ed S-400, contro l’esplicita richiesta di Washington, che, in risposta, ha fermato la fornitura di F-35 alla Turchia.

L’accordo sul grano, siglato ad Istanbul, è stato il risultato più rilevante raggiunto tra Kiev e Mosca con la Turchia mediatrice. Non è un caso, pertanto, che Vladimir Putin, durante la visita diplomatica in Cina a maggio 2024, abbia affermato che sarebbe pronto a riprendere colloqui diplomatici per terminare le ostilità in Ucraina riprendendo gli accordi di Istanbul di aprile 2022. In questo modo la Turchia verrebbe innalzata al rango di unica potenza capace di porre fine alle ostilità, dando prova a Washington di essere il solo membro della NATO credibile al tavolo negoziale. Posizione cui Erdogan aspira, come dimostrato in una intervista rilasciata a giugno 2022 alla Tass. In questa occasione il Presidente turco aveva affermato che l’impalcatura di sicurezza occidentale sarebbe in procinto di crollare e che lo stesso sistema diplomatico delle Nazioni Unite, imperniato sul Consiglio di Sicurezza, non garantirebbe né la rappresentatività degli interessi del resto del mondo, né la risoluzione dei conflitti. Impegni cui soltanto la Turchia, secondo Erdogan, potrebbe adempiere.

Nel conflitto in Ucraina, dunque, la Turchia agisce da battitore libero, secondo i suoi particolari interessi. Profittando anche della debolezza della marina russa, decimata dagli attacchi ucraina e ritiratasi dai porti crimeani, Ankara intende ulteriormente affermare la propria egemonia sul Mar Nero come garante della sicurezza. Pertanto, la Turchia si è impegnata nello sminamento delle acque del Mar Nero occidentale per permettere il transito delle navi da Odessa e si è proposta – al momento infruttuosamente – come hub del gas alle porte dell’Europa, in modo da continuare a garantire un flusso costante dalla Russia e dai Paesi del Caucaso ricchi di gas, su tutti l’Azerbaijan. Baku, infatti, gode, in funzione anti-iraniana, di ampio sostegno militare, politico, diplomatico ed economico turco. Non soltanto allo scopo di contenere il confinante Iran, ma anche in nome del panislamismo ottomano perseguito da Erdogan per il quale la Turchia dovrebbe porsi come guida di tutti quei Paesi di religione islamica – dall’Asia centrale ai Balcani occidentali – abitati da popolazioni di etnia turca.

5. Balcani

Da ultimo, la direttrice espansionistica di Ankara geograficamente più prossima all’Italia è quella balcanica. Nei Balcani occidentali la Repubblica di Turchia ha intrapreso un’opera pressoché senza eguali di sostegno allo sviluppo della regione e di cooperazione militare ed economica, anche attraverso un sapiente e pervasivo ricorso al proprio soft power, alla cultura turca e alla religione islamica. Sempre, però, con un unico imperativo strategico: diventare potenza egemone nel Mediterraneo e, al contempo, contenere la Grecia. Per questo, Paese chiave dell’espansionismo turco nella regione è l’Albania, già fondamentale nella penetrazione dell’Impero Ottomano nell’Europa Centrale in seguito alla presa dei principati albanesi avvenuta tra il XIV e XV secolo. La conquista ottomana dell’Albania, inoltre, fu foriera di un altro elemento chiave dell’attuale influenza turca nella regione: la religione islamica. Infatti, Albania e Bosnia-Erzegovina, ma anche il Kosovo a maggioranza albanese, sono gli unici Paesi balcanici in cui la maggioranza della popolazione è di fede islamica. Elemento centrale, pertanto, attraverso cui irradiare la propria influenza è per Ankara, di nuovo, il panislamismo.

Perno attorno al quale ruota l’influenza turca nei Balcani occidentali è l’Agenzia turca per la cooperazione e il coordinamento. Attraverso quest’agenzia la Turchia ha finanziato il restauro della moschea di Haxhi Et’hem Bey, alla cui inaugurazione nel 2022 ha partecipato anche Erdogan, e ha collaborato alla costruzione della Grande moschea di Tirana – il più imponente centro religioso dei Balcani – voluta dal Presidente Edi Rama. Sempre grazie all’Agenzia turca per la cooperazione e il coordinamento sono stati costruiti complessi residenziali, sono stati conclusi accordi bilaterali per la cooperazione in ambito di formazione delle forze dell’ordine, di gestione degli archivi di Stato e dei poli culturali albanesi, per la gestione dei disastri naturali e delle agenzie di stampa governative.

Inoltre, come sempre, anche la cooperazione militare gioca un ruolo centrale nella penetrazione turca nel Paese delle aquile. Nel 2020, infatti, la Turchia ha siglato un accordo per l’addestramento e l’ammodernamento delle forze armate albanesi. Tale operazione si sostanzia anche mediante l’esclusiva sulle forniture militari, tra le quali spiccano, anche in questo caso, i sempre presenti droni Bayraktar TB2.

La Turchia, ad ogni modo, non è interessata soltanto all’Albania in quanto tale, ma si propone, attraverso la costruzione di questo inscindibile legame con Tirana, guida per tutte le popolazioni di etnia albanese insediate nei Paesi della regione. In tal modo, attraverso le comunità albanesi-musulmane in Bosnia-Erzegovina, in Macedonia del Nord, in Montenegro e da ultimo, ma non per importanza, in Kosovo – dove Ankara ricopre un ruolo sempre più centrale nella KFOR e al quale fornisce addestramento e armamenti, tra cui i droni Bayraktar TB2– la Turchia intende esercitare una pervasiva influenza nelle dinamiche balcaniche e presentarsi, anche in questa regione, come potenza equilibratrice.

Infine, l’espansione turca si gioca anche nei settori dell’istruzione, dell’intrattenimento e dell’informazione. L’agenzia di stampa turca Anadolu e la televisione di Stato turca Trt. ad esempio, attraverso i numerosi uffici in Albania mandano in onda programmi e telegiornali prodotti per la popolazione locale, oltre a serie e film turchi. Inoltre, sul fronte culturale e dell’istruzione, negli anni si è assistito ad un fiorire dei Centri culturali statali turchi Yunus Emre in Albania, Kosovo, Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Serbia. Sono state istituite anche specifiche borse di studio rivolte agli studenti provenienti dai Balcani Occidentali, tra i quali spiccano gli studenti kosovari, che sono tra le dieci nazionalità più presenti nelle università turche.

Insomma, la Turchia è entrata in Albania, e dunque nei Balcani Occidentali, ed è lì per restarci.  Con buona pace dell’Italia, che, dopo aver favorito l’avvicinamento di Tirana all’Europa e all’Unione Europea – principale obiettivo albanese – forte dei legami centenari con l’Albania, parentesi del regime comunista a parte, ha però perso tutto il suo capitale diplomatico e geopolitico, sostituito da Ankara.

6. Prospettive italiane

L’Italia dovrebbe tornare ad interessarsi alle questioni del proprio estero vicino. Considerate ad ogni modo le vicinanze con il popolo albanese e gli storici rapporti con Tirana che affondano le radici nei domini della Repubblica di Venezia nella Dalmazia, Roma potrebbe tornare a porsi come ponte e garante tra l’Albania e le istituzioni euro-unitarie, contenendo l’espansionismo turco nei Balcani. L’Italia, inoltre, dal momento che condivide molti dossier strategici con la Turchia, potrebbe costruire proficue relazioni con Ankara per la gestione del Nord Africa e del Mediterraneo – specialmente in seguito all’istituzione della Zona Economica Esclusiva in seguito all’adozione della legge n. 91/2021 – ma anche di altre regioni in cui la Turchia è presente e che dovrebbero essere strategicamente importanti per l’Italia, ossia il Sahel e il Corno d’Africa. In tal senso, dunque, si dovrebbe leggere l’invito a partecipare al G7 a Borgo Egnazia che la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rivolto ad Erdogan.

In un’ottica di contenimento della Turchia piuttosto che di collaborazione con essa nelle aree geografiche di maggior interesse per l’Italia, il Sahel e il Nord Africa su tutte, si potrebbero, invece, sviluppare accordi bilaterali con la Francia. Parigi, infatti, sarebbe interessata ad evitare che una potenza diventi egemone in una regione in cui, sebbene si sia sostanzialmente ritirata, mantiene rilevante interesse. Nel Sahel l’Italia, invece, potrebbe ampliare e assestare la propria influenza, come dimostra il programma di formazione e di addestramento delle forze militari del Niger golpista ufficializzato dalla visita di marzo a Niamey da parte del Generale Francesco Paolo Figliuolo e del direttore generale della Farnesina, l’ambasciatore Riccardo Guariglia.

7. La situazione economico-finanziaria non ferma Erdogan

La salute economica e finanziaria di Ankara, però, non è delle più rosee. L’inflazione si attesta, secondo i dati di marzo 2024, al 68,5%, con un aumento dei prezzi del 3,16% da febbraio a marzo. Il tasso di interesse, per frenare l’inflazione in continuo aumento, contro le politiche di Erdogan di mantenere i tassi bassi, è stato alzato passando in sei mesi dall’8,5% al 40%. Le stime di crescita per l’anno corrente si attestano intorno al 4%, mezzo punto percentuale in meno rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del 2022, il disavanzo di bilancio è pari a circa 50 miliardi di dollari, il 5,4% del PIL. La lira turca, finita sotto il pesante attacco di Washington a partire dalla presidenza Trump – al quale Erdogan rispose «Se loro hanno i dollari, noi abbiamo la nostra gente, abbiamo il nostro diritto, e abbiamo Allah» – continua ad essere molto debole: da dicembre il cambio sul dollaro è passato da 29 a 1 a 31 a 1.

Nonostante sia questa la situazione, Ankara prosegue. L’agognata ricostruzione dell’impero prescinde dalle contingenze economico-finanziarie: la marcia turca per il Mediterraneo è soltanto agli inizi, ed è qui per restare. Sta all’Italia, dunque, decidere come porsi: sviluppare una propria visione strategica del Mediterraneo o diventare un’isola nel (probabilmente prossimo) lago turco. Tertium non datur.

Francesco Narcisi

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