Le ragioni politiche ed economiche delle rivolte
Ad inizio dicembre 2022 il presidente eletto del Perù, Pedro Castillo, dopo aver tentato di sciogliere prematuramente la legislatura, ha annunciato l’instaurazione di un governo d’emergenza che sarebbe dovuto durare non meno di nove mesi, tempo necessario per riscrivere la costituzione. Per quanto in un primo momento il Paese sembrasse aver preso una deriva autoritaria, é chiaro da subito che Castillo non godeva né del sostegno dell’élite politica, né di quello militare, necessari al fine di completare il golpe da lui architettato. Castillo è stato immediatamente destituito e accusato di “incapacità morale” tramite un voto di impeachment e al suo posto è stata nominata la sua vicepresidente Dina Boluarte, confermata dal voto del Congresso. A seguito di questi avvenimenti il Perù è stato però travolto da una serie di proteste, partite inizialmente dalla zona più povera del Paese, che si sono successivamente diffuse coinvolgendo anche altre aree geografiche e sociali peruviane
La situazione politica prima del tentato golpe di Castillo
Per comprendere il susseguirsi di eventi così rapidi e così significativi è necessario fare un passo indietro e guardare all’instabilità che ha caratterizzato il Paese dopo la caduta del regime di Alberto Fujimori, avvenuta nel 2000. Questo governo, eletto democraticamente, nel 1992 subì una svolta autoritaria quando a seguito di un colpo di stato fallito nei suoi confronti, Fujimori stesso decise di approfittare della situazione sciogliendo il parlamento, sospendendo la magistratura e convocando un’assemblea costituente per redigere un nuovo documento costituzionale. Nel 2000 emerse uno scandalo di corruzione e insieme a questo vennero alla luce i crimini contro l’umanità perpetrati dal regime. La sua fuga in Giappone decretò la fine della parentesi autoritaria e l’inizio del ritorno ad una repubblica presidenziale, con non pochi problemi. L’eredità dei dieci anni di Fujimori fu caratterizzata da una grande instabilità politica: i tre presidenti in carica dal 2001 al 2016 vennero tutti coinvolti in scandali di corruzione. Dal 2016 ad oggi si sono susseguiti sei presidenti, nessuno dei quali è riuscito ad arrivare alla scadenza naturale del mandato. Negli ultimi diciassette mesi, periodo di governo dell’ex presidente Castillo, il Perù ha visto approssimativamente la sostituzione di circa ottanta ministri, segno dell’incapacità di questo governo di cambiare rotta.
Al di là della cronica instabilità politica, negli ultimi vent’anni il Paese è riuscito a mantenere una certa stabilità economica. Gran parte di questo risultato è dato dall’indipendenza delle istituzioni finanziarie e della banca centrale dalle istituzioni governative. Julio Velarde, governatore della banca centrale dal 2006, è riuscito a rendere il sol peruviano tra le monete più stabili del Sudamerica, infatti il Pil pro capite è raddoppiato da 3200 a 6400 dollari. Inoltre, la percentuale di persone che vivono in povertà assoluta è diminuita, mentre il reddito totale percepito dal 20% più povero della popolazione è aumentato. Nonostante queste condizioni macroeconomiche favorevoli, il Perù rimane ancora un Paese povero e iniquo, in particolare nelle zone più rurali. In Perù il reddito pro-capite è meno della metà di quello cileno, il 20% più ricco della popolazione percepisce un reddito dieci volte maggiore del 20% più povero e quasi tre lavoratori su quattro lavorano in maniera informale. A contribuire alla disparità economica nel Paese c’è la grande informalità nell’economia nazionale, aggravata dal periodo pandemico, che ha portato all’indifferenza da parte dello Stato dei bisogni primari di una parte della popolazione.
Negli ultimi decenni la politica peruviana ha registrato il collasso dei partiti e la nascita di gruppi e movimenti di destra e sinistra frammentati, che non rappresentano le vere istanze dei cittadini e non sono espressione del bisogno della cittadinanza di emergere davanti ad una élite politica corrotta e disinteressata, ma anche questi perseguono interessi particolari. Nel 2020 il Paese ha attraversato una crisi istituzionale che ha visto l’alternarsi di tre presidenti nell’arco di una settimana, fenomeno che ha messo in allerta i processi democratici del Perù. L’insoddisfazione dei cittadini è rivolta anche all’organo legislativo: un sondaggio di novembre mostra come l’86% delle persone avesse un’opinione negativa del Congresso e dei partiti che ne fanno parte.
Pedro Castillo viene eletto col partito “Perù Libre” nel luglio del 2021 in questo clima di grande sfiducia verso le istituzioni politiche. Castillo è esponente di una sinistra di ispirazione marxista da anni assente al governo peruviano, si ritrova a vincere il ballottaggio contro la populista di estrema destra Keiko Fujimori, figlia del dittatore Fujimori. Al Congresso le liste di sinistra non furono però altrettanto fortunate, ottennero solo 42 seggi su 130, non abbastanza per raggiungere la maggioranza. Secondo l’opinione degli analisti il governo di Castillo ha mostrato sin da subito la sua debolezza, dovuta in gran parte all’incompetenza del presidente e all’assenza di un partito strutturato e competente per ricoprire le diverse cariche istituzionali. Durante i diciassette mesi del suo governo Castillo ha nominato e poi sollevato circa ottanta funzionari, ha assegnato ruoli decisionali ad alcuni suoi alleati senza alcuna esperienza politica e ha cambiato cinque governi. Inoltre, contro di lui erano state aperte diverse inchieste per corruzione, malgrado la campagna elettorale di Castillo si fosse concentrata fortemente sulla sua avversione verso la corruzione, nel tentativo di presentare la sua figura esterna a quei giochi di potere che avevano portato tanto danno alle istituzioni politiche del Paese. Ma non è l’unica promessa della campagna elettorale infranta: il governo non è riuscito a migliorare le condizioni economiche della parte più rurale del Paese e il rincaro generale dei prezzi ha alimentato il malcontento generale dando vita ad alcune proteste di piazza. Al fallimento degli obiettivi del governo di Castillo aveva sicuramente contribuito il basso numero di seggi. Dovendo contare su pochi voti in un Congresso ostile e spostato verso destra, l’azione di governo del presidente non ha mai veramente avuto modo di realizzarsi.
Il 7 dicembre il Congresso avrebbe dovuto votare il terzo tentativo di impeachment per via degli scandali di corruzione. Alla vigilia del voto il presidente Castillo si è fatto protagonista di quello che è stato definito “autogolpe”, ovvero un tentato colpo di stato attuato da chi già si trova al governo. Castillo ha infatti annunciato l’instaurazione di “un governo di emergenza, per ristabilire la legge e la democrazia”. Immediatamente dopo l’annuncio diversi membri del suo governo hanno rassegnato le dimissioni e le forze armate hanno rilasciato un comunicato in cui dichiaravano che il presidente non aveva l’autorità per sciogliere il Congresso con un decreto straordinario. Successivamente il Congresso ha votato ufficialmente la decadenza di Castillo, arrestato poco dopo con l’accusa di reati contro l’ordine costituzionale mentre cercava di rifugiarsi nell’ambasciata messicana.
La nomina di Boluarte
In sostituzione al presidente Castillo deposto è stata nominata la sua vicepresidente Dina Boluarte: è la prima donna in Perù a ricoprire questo ruolo. Boluarte è stata eletta nello stesso partito dell’ex presidente, ma è stata espulsa nel 2022 in quanto entrata in contrasto con i vertici del partito. Le discrepanze con “Perù Libre” erano dovute soprattutto al progressivo avvicinamento di Boluarte a posizione tipicamente di destra.
In concomitanza alla caduta di Castillo e alla salita di Boluarte cominciò a delinearsi un’insurrezione popolare soprattutto nel sud del Paese, la stessa parte rurale a maggioranza indigena che aveva in larga maggioranza votato Castillo. Data l’affinità ideologica e identitaria con l’ex presidente, questi protestavano per chiedere la sua liberazione, in quanto interpretavano il suo arresto come una strategia perpetrata dai settori conservatori della classe politica peruviana. La dura reazione del governo Boluarte però ha prodotto un inasprimento delle tensioni e l’espansione della base sociale delle proteste. La repressione eccessiva attuata tramite le forze dell’ordine ha fatto scatenare il malessere latente da molti anni, conseguenza della mala gestione dello stato ereditata dalla caduta dalla dittatura di Fujimori. La rabbia della popolazione – dovuta alla poca rappresentazione dei popoli, alle reti di corruzione, alle false promesse di sviluppo e riduzione delle uguaglianze – è esplosa negli ultimi mesi di fronte alla caduta degli ultimi bricioli di credibilità delle istituzioni peruviane. Ora le proteste coinvolgono il ceto medio e gli studenti che chiedono non più la scarcerazione di Castillo ma la rinuncia di Boluarte, elezioni anticipate e la redazione di una nuova costituzione che rifondi le basi economiche, politiche e sociali del Paese. La repressione delle forze di sicurezza ha giocato un ruolo fondamentale nell’allargamento del discontento; le vittime tra i manifestanti sono più di cinquanta e quasi tutte presentano segnali inequivocabili di un uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza. Anche l’incapacità di Boluarte nel mediare tra Congresso e richieste popolari ha avuto un ruolo: l’organo legislativo, infatti, si mostra sordo alla richiesta di anticipare le elezioni, propone infatti date considerate dai manifestanti troppo lontane, il che non fa che alimentare ulteriormente il sentimento di rabbia generale.
La dissociazione sempre più evidente negli anni tra la classe politica e la base sociale del Perù ha portato ora ad uno scontro diretto tra le due parti, scontro in cui l’élite politica non sembra aver compreso le necessità della popolazione e la potenziale pericolosità dell’insurrezione generale del popolo. Sembra intrappolata nei palazzi del potere a cui si aggancia in maniera ostinata, noncurante delle richieste del Paese.