Gli strascichi dell’Euromaidan e delle sue radici, dopo 7 anni, tornano in cima alle attenzioni dei radar internazionali. Stabilita l’occupazione della Crimea e del Donbass, la Russia alza le temperature al confine con l’ex satellite sovietico, forse il più importante.
L’Ucraina ha il fiato sul collo, di nuovo
Il Washington Post sanziona le mosse del governo moscovita, che, secondo documenti dell’intelligence statunitense, sta preparando un’offensiva su più fronti al confine con l’Ucraina.
Foto satellitari infatti confermano gli avvicinamenti ai confini, stimando un totale di 175 mila truppe accompagnate da convogli di camion ed equipaggiamenti militari. La richiesta di Putin? Questa azione rappresenta l’intransigenza con cui la Federazione Russa si oppone alla volontà ucraina di diventare membro del sistema difensivo occidentale, la NATO, seguendo l’affermazione di Brzezinsky, storico consigliere di Jimmy Carter, secondo cui senza il controllo su Kiev, la Russia perde la sua fondamentale dimensione euroasiatica. Sembra che, volendo approfittare della fine dell’era Merkel e del particolare aumento di prezzi riguardo l’energia, da cui non pochi Paesi, tra cui l’Ucraina, dipendono, la Russia sia pronta a concretizzare i sentimenti interventisti radicati da alcuni anni, se non decenni.
Mosca e Kiev: un rapporto complicato
La riscoperta ucraina della propria capacità politica di autodeterminazione, messa a tacere negli anni del Patto di Varsavia, riemerse tra le più vivaci durante gli ultimi anni di Gorbacev e quindi della potenza sovietica tutta. Dal 1991, ammainata la bandiera rossa sul Cremlino, Boris El’cin doveva ereditare, fra le altre responsabilità, anche quella di non lasciar scappare il territorio ucraino nelle mani dell’Unione Europea e della NATO, come se si rinnovasse la vecchia “dottrina Breznev”, posta anche la reciproca dipendenza commerciale, di fornitura di motori per i vettori missilistici per i russi e per le preziose risorse energetiche per gli ucraini.
Fin da subito l’amministrazione federale ha fatto leva sulle motivazioni socio-culturali, consci della pericolosità che un nazionalismo omogeneo avrebbe rappresentato in un periodo di transizione importante come quello. Perciò usò come giustificazioni, come sono usate tutt’ora per legittimare l’occupazione in Crimea e in Donbass, le convergenze linguistiche e spirituali (la Chiesa ortodossa) inevitabilmente presenti fra i due Stati confinanti dopo anni di subordinazione, galvanizzate negli anni di Putin all’interno del concetto propagandistico del “mondo russo” (russkij mir).
In particolare, la nazione sembra divisa, anche simbolicamente, dal fiume Dnepr, che separa una riva orientale, risultante filorussa, da una occidentale che sente, linguisticamente e politicamente, delle radici nazionalistiche. I risultati elettorali hanno comprovato questa asimmetria, e la Costituzione del 1996, voluta dopo una brusca transizione al potere, non ha voluto o saputo leggere i pericoli di omogeneizzare il territorio sotto una sola lingua ufficiale: l’ucraino, parlato però prevalentemente nella metà occidentale e nel resto delle zone rurali, mentre a Kiev, ad esempio, il russo aveva ormai abituato il centro urbano e la sua quotidianità.
Queste diversità culturali hanno accentuato i sentimenti secessionisti, o magari scarsamente nazionalisti, di regioni come la Crimea, storicamente ambite dalla Russia anche in epoca zarista, e finalmente occupabile militarmente sfruttando la legittimazione etnica, sanzionata da un successivo referendum. Nel 2014, dopo la cacciata del presidente Janukovyc, voluta dal movimento popolare Euromaidan che ha scosso le strade e le istituzioni di Kiev chiedendo di riavviare gli accordi di associazione all’UE appena fatti saltare dal presidente filo-russo, truppe di soldati senza alcuna identificazione (facilmente riconducibili all’esercito russo come dopo poco risultò) presero il controllo coatto di centri nevralgici in Crimea. Da questa occupazione le forze separatiste presero fiducia e il governo russo sostenne i conflitti interni nel Donbass e contro i ribelli delle amministrazioni indipendenti del Doneck e del Lugansk sostenute dal governo ucraino, reclutando forze da molte città russe a sostegno dei “compatrioti”.
Biden può essere determinante?
Mentre l’escalation desta anche le preoccupazioni del Papa e la crisi umanitaria tra Polonia e Bielorussia non accenna a porre fine ad alcuna tragicità, il presidente statunitense Biden può cercare di spostare gli instabili equilibri della questione ucraina verso l’alleanza atlantica, anche grazie al suo passato diplomatico vicino a Kiev. Infatti, con la sua trentennale esperienza da senatore e i viaggi diplomatici fatti per la Commissione Affari Esteri, il presidente degli USA incarna la tradizionale dimensione transatlantica della superpotenza occidentale, che ha mosso anche azioni interventiste per la ricerca di una pace duratura, ma che ora è più che mai cosciente del potere dei negoziati diplomatici. Da vicepresidente di Obama, si è occupato in prima persona della rivoluzione ucraina del 2014, con sostegni economici e militari e sollecitando la lotta alla corruzione, e ora afferma la sua intransigenza verso eventuali “linee rosse” insuperabili decise unilateralmente.
Legato all’Ucraina anche dalla partnership strategica nata nel 2008 e riconfermata nel settembre scorso, Biden sembra voglia arrestare le richieste, poco diplomatiche, di neutralismo del territorio ucraino, organizzando in questi giorni un summit virtuale direttamente con Putin.