Leaving-Afghanistan

Storia di una crisi: la (non) strategia americana dal 1991 a oggi

L’evoluzione della strategia americana dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, una crisi lunga trent’anni, con un fosco futuro

1. L’impero globale americano.

Il giorno di Santo Stefano del 1991 il mondo si svegliò profondamente cambiato: non c’era più l’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti, spaesati, si ritrovarono ad essere, da soli, il Numero Uno, Potenza unica, egemone, trionfante e globale. Bush senior, al suo ultimo anno di mandato presidenziale, come molti degli strateghi americani, non avrebbe voluto e non aveva immaginato il crollo dell’URSS, nemesi perfetta per bilanciare e ordinare il mondo, due nemici che si conoscevano e si capivano reciprocamente. Mosca era infatti necessaria per giustificare l’eccezionalismo americano e il suo “impero del bene” nella lotta contro “l’impero del male” sovietico.

L’immaturità imperiale cui gli Stati Uniti sarebbero drammaticamente andati incontro nei decenni successivi, però, si era già mostrata l’anno precedente alla dissoluzione sovietica, con l’inizio della prima Guerra del Golfo. Gli USA, che intervennero in Kuwait con un poderoso dispiegamento di forze per fermare l’invasione organizzata da Saddam Hussein, diedero inizio a una nuova era di interventismo militare, schizofrenico. Washington sarebbe dovuta esser presente in ogni angolo del globo per difendere le libertà, come certificarono le parole di Bush pronunciate a Praga nel novembre 1990: «la grande e crescente forza del commonwealth delle libertà avrebbe forgiato per tutte le nazioni un nuovo ordine assai più stabile e sicuro di qualunque altro che il mondo avrebbe conosciuto»1. Il così detto ordine internazionale basato sulle regole aveva incominciato a materializzarsi. A Washington si iniziò dunque a violare il primo postulato che dovrebbe caratterizzare un impero maturo: il rispetto del limite, che significa ricorrere limitatamente alla forza per raggiungere i propri obiettivi attraverso le risorse dei satelliti, o alleati che dir si voglia2.

L’ebbrezza per la conquista del primato globale isolato e la narrazione che ormai il mondo non avrebbe potuto far altro che seguire il modello politico ed economico americano, fecero sì che tra la fine degli anni ’90 e i primi anni ’10 del nuovo millennio negli Stati Uniti si diffondesse profondamente la teoria esposta da Francis Fukuyama nel celebre libro “La fine della storia”. La traiettoria umana, secondo Fukuyama, infatti aveva raggiunto il suo apice con la diffusione del modello globale americano, globalizzazione come compimento e termine della storia, oltre non si sarebbe potuto andare.

La volontà di potenza, declinata nell’assimilazione del resto del mondo al canone occidentale democratico, “esportando la democrazia e il mercato”, divenne il diktat per l’America a partire dall’amministrazione Clinton. In seguito all’attacco alle Torri Gemelle, si pose dinanzi agli Stati Uniti un problema grave, ossia il ristabilimento dell’ordine internazionale perturbato da un attore non statale, i talebani. Si proseguì con l’interventismo globale, in nome della difesa delle regole democratiche e del mercato, dando avvio alla guerra al terrorismo, che, come tutte le guerre contro un’ideale, si dimostrò essere impossibile da vincere. All’intervento in Afghanistan, seguì nel 2003 l’invasione dell’Iraq. Anche in questo caso, l’obiettivo era abbattere il regime autoritario di Saddam Hussein e creare un nuovo Stato, improntato sul rispetto della democrazia e del mercato. Anche per l’America, come per l’Unione Sovietica, l’Afghanistan – non a caso detto “il cimitero degli imperi” – si dimostrerà fatale per l’egemonia.

2. L’agonia strategica degli Stati Uniti.

Iniziamo con mettere in chiaro di un concetto, rispondendo ad una semplice domanda: l’America ha una strategia? Come espresso in più occasioni su Limes (la Rivista Italiana di Geopolitica), la risposta non può che essere negativa. Gli Stati Uniti, infatti, dalla fine della Guerra fredda ad oggi hanno un obiettivo strategico ma non una strategia delineata per raggiungerlo. L’obiettivo, riassuntivamente, è stato impedire che sul blocco eurasiatico sorgesse e si imponesse una potenza capace di contendere l’egemonia americana, come esplicitato nel Defense Planning Guidance elaborato nel 1992 da Dick Cheney, Segretario alla Difesa degli Stati Uniti3. Tuttavia, a Washington, vinta la Guerra fredda, ebbri per essere diventati potenza egemone unica, hanno smesso di occuparsi del loro obiettivo strategico, pensando che il suo raggiungimento sul lungo periodo fosse scontato. In sostanza, la strategia americana si è limitata a mantenere lo status quo, pensando che il suo obiettivo non potesse essere turbato. L’economia di mercato e la democrazia liberale sono state considerate le massime aspirazioni cui tutte le collettività del mondo avrebbero dovuto mirare. Sarebbero state i veicoli per la diffusione della potenza e dell’egemonia americana insieme all’uso della soverchiante forza militare.

Un primo esempio che si può fare è la confusione che gli USA hanno avuto in merito alla prosperità economica. Ritenendo che la prosperità sarebbe stata l’elemento centrale per tutte le collettività, nei casi in cui non si poteva far uso della forza militare per affermare o riaffermare la propria egemonia, l’America decise di utilizzare la propria sterminata potenza economica ricorrendo allo strumento sanzionatorio. Anche autorevoli studiosi americani di Relazioni Internazionali come Henry R. Nau (il quale espresse la sua posizione in un seminario alla Elliott School of International Affairs della George Washington University, tenuto il 30 ottobre del 2002, proprio nel momento forse di massimo convincimento di invincibilità da parte dell’America) erano assolutamente convinti del fatto che questa sarebbe stata la strada da seguire4. La teoria, espressa fulgidamente nell’intervento di Nau pubblicato sul numero di Limes nel gennaio 2001, era che nessun popolo avrebbe mai resistito ad una vita prolungata priva di agi e di servizi e avrebbe inevitabilmente proceduto alla rimozione del governante ostile a Washington.

Pura utopia, come confermato anche da Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale dell’uscente amministrazione Biden. Sullivan, in un discorso tenuto il 23 aprile dello scorso anno alla Brookings Institution, ha affermato che hanno pienamente fallito tutte quelle politiche di integrazione economica che avevano l’obiettivo di rendere le nazioni più aperte e responsabili, rendendole parte del circuito economico capitalista e dell’ordine internazionale basato sulle regole a guida americana. Né la Cina né tantomeno la Russia sono state integrate e rese più responsabili attraverso la promozione dell’economia capitalista e della democrazia liberale, come si augurava di fare Washington5.

Si ha ulteriore conferma di ciò che ha esplicitato Sullivan se si guarda al mancato funzionamento di quello che avrebbe dovuto essere il sistema dissuasivo alternativo alla potenza militare: le sanzioni. Anche in questo caso, le numerose analisi – nello specifico di Fabrizio Maronta e Alessandro Aresu – sul mancato funzionamento delle sanzioni pubblicate su Limes sono fondamentali per comprendere come mai il sistema sanzionatorio non ha funzionato. Se, dunque, si legge la sterminata lista di soggetti e Paesi sottoposti a sanzioni pubblicata dall’ Office of Foreign Assets Control del Dipartimento del Tesoro, balza immediatamente alla vista che, anche con sanzioni che per vastità e qualità avrebbero dovuto mettere in ginocchio avversari dell’America, gli obiettivi statunitensi non sono stati raggiunti6. Anzi, come nel caso dell’Iran e soprattutto della Russia, i sistemi di triangolazione hanno permesso, seppur a costi molto elevati, l’aggiramento quasi totale dell’apparato sanzionatorio.

Sono stati sviluppati circuiti di pagamento e rotte commerciali alternativi a quelli occidentali, la cui esclusione avrebbe dovuto rappresentare l’arma definitiva. Ciò ha dimostrato in primis che il benessere non è il fine unico di molti popoli, e in secundis che i Paesi che si volevano isolare dal mercato globale e dalle relazioni internazionali, così isolati non sono. Con questo non si vuole dire che le sanzioni siano del tutto inutili, ma che non possono essere considerate ed usate come strumento per perseguire i propri obiettivi strategici7.

Soggetti sottoposti a sanzioni da parte del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti (fonte: Washington Post).

Aprendo una breve parentesi sulla Russia, sul lungo periodo avranno sicuramente effetti sull’economia di Mosca – e in parte, più limitati di quelli che si pensava avrebbero avuto, ce li hanno già ora – ma non tali da mettere definitivamente all’angolo la Federazione Russa e minarne l’esistenza stessa.. In seguito al 24 febbraio 2022 è stato dunque squarciato il velo, abbiamo osservato la deflagrazione, lo sgretolamento dell’ordine internazionale come pensato da Washington. Vediamo quindi nel dettaglio quali sono stati i motivi della crisi strategica che negli ultimi trent’anni ha colpito l’America.

3. La crisi dell’apparato industriale americano e l’impatto sulla U.S. Navy.

L’America, negli ultimi decenni, sta attraversando una crisi strategica che oggi è diventata drammatica. Ha smesso, infatti, di sviluppare una strategia per una pluralità di motivi. Prendiamo le mosse da due fattori che hanno ricoperto un ruolo importante nell’evoluzione della crisi americana: quello militare e quello industriale8. Usciti dalla Guerra Fredda, gli Stati Uniti avevano un apparato militare-industriale senza eguali, specialmente per quanto riguarda la Marina, la vera protagonista della globalizzazione americana. La U.S. Navy, al cui ruolo Limes ha sempre dedicato estrema attenzione, aveva reso possibile l’egemonia globale statunitense. Per capacità di dispiegamento di navigli, per numero di imbarcazioni che rendeva possibile ricoprire una vastissima superficie, per la possibilità di effettuare manutenzione e riparazioni in tempi molto brevi, e, da ultimo, per l’elevatissima preparazione e addestramento dei molti marinai e operai a disposizione. Poi, di lì a breve, una serie di questioni hanno trascinato in crisi la Marina americana, principale fattore di potenza di Washington.

Gli Stati Uniti avevano vinto sulla minaccia esistenziale sovietica, ma, per perseguire la globalizzazione economica – pensando erroneamente che diffondere il modello economico capitalista avrebbe significato maggior sicurezza e allo scopo di tenere vicini i propri satelliti favorendo l’importazione da questi – pian piano si smantellò l’industria americana. In un trentennio, i grandi cantieri navali sono stati ridotti alla metà, con gravi ripercussioni su produzione, riparazione e manutenzione delle imbarcazioni, provocando ritardi anche di tre anni. Non solo. Ritenendo di non dover più affrontare guerre globali, una ulteriore scelta deleteria e a-strategica compiuta da Washington è stata pensare che la quantità non fosse più un aspetto da considerare in un conflitto. Si è deciso di concentrarsi esclusivamente sullo sviluppo di navi, e anche velivoli, estremamente tecnologici ma, al contempo, oltremodo costosi e complessi da riparare e produrre, nonostante vi siano da anni serie difficoltà per reclutare nuovi operai, necessariamente con un alto livello di specializzazione9.

La marina americana, di conseguenza, non è più in grado di compiere missioni secondarie o colpire obiettivi secondari. Infatti, anche per conseguire tali obiettivi vengono dislocate navi estremamente costose e tecnologiche, dotate di altrettanto sofisticati armamenti, i quali, dunque, inevitabilmente e drammaticamente si logorano. Il dispendio di risorse è enorme, e non sempre, nonostante il ricorso a mezzi e armamenti così avanzati, si riesce ad ottenere l’obiettivo prefissato. Basti pensare al caso degli Houthi. Gli attacchi della milizia yemenita non solo non sono stati fermati, ma, nel tentativo di arrestarli, la marina americana sta riscontrando una preoccupante riduzione delle scorte missilistiche, rimpiazzate a fatica. Secondo alcuni dati non ufficiali – le riserve missilistiche infatti rientrano tra le informazioni classificate – ad agosto 2024 le scorte di missili tomahawk, di missili standard e di missili aria-aria usate per combattere (infruttuosamente) gli Houthi si sono ridotte in totale del 5%10. Sono tutti missili che sarebbero vitali in una guerra, effettivamente strategica, contro la Cina nell’Indopacifico.

Carta del dislocamento e delle aree di competenza delle sette flotte americane (fonte cartografica: Laura Canali, in Mal d’America, Limes, marzo 2024).

La produzione di nuovi missili per ripianare le perdite nel Mar Rosso, però, non viene adeguatamente finanziata, come dimostra il fatto che, nella richiesta di spesa per le Forze Armate che Biden ha fatto nel 2024, non vi è stato riferimento all’acquisto di nuovi missili tomahawk. Al settore “ricerca e sviluppo”, invece, continuano ad essere destinati ingenti fondi: nel 2023 sono stati stanziati 140 miliardi di dollari, l’84% dei 167 miliardi previsti per produrre e acquistare mezzi11. L’indubbia superiorità tecnologica – che però negli anni si è sempre più affievolita a vantaggio della Repubblica Popolare Cinese – ha convinto gli Stati Uniti (e li convince tutt’ora, guardando le voci del bilancio della difesa) del fatto che la quantità non sarebbe stata più necessaria12.

Conseguenza di tutto ciò? Le portaerei sono diventate obsolete; si è deciso di sviluppare costosissimi progetti per nuove unità per il combattimento costiero che poi sono stati accantonati (Littoral Combat Ships); le navi attive per gli oceani sono circa cento, le stesse del 1991, ma, rispetto a 33 anni fa, il numero totale di imbarcazioni a disposizione della marina si è ridotto della metà13. Tuttavia, allo stesso tempo, si è assistito ad un costante aumento degli impegni assunti da Washington in ogni angolo del globo, senza che, però, crescesse il numero di uomini e di mezzi necessari per adempiervi. Il continuo aumento del coinvolgimento statunitense, anche in missioni secondarie, prive di importanza strategica per l’America, è stato frutto proprio di quella patologia che aveva iniziato a manifestarsi con la fine della Guerra fredda: l’essere potenza Unica, egemone, ha fatto sì che gli Stati Uniti non concepissero più un limite per sé stessi, anche perché non percepivano più l’esistenza di una minaccia vitale e universalistica come l’URSS14.

Non solo, una tale posizione egemonica ha fatto sì che si diffondesse il pensiero in base al quale le crisi internazionali si potessero risolvere attraverso l’uso della forza, sempre15. Ciò ha provocato non soltanto ripercussioni su mezzi e armamenti – sottoposti, come visto nel caso degli Houthi, ad un costante logoramento – ma anche sull’immagine dell’America, specialmente presso quello che ora si definisce con l’impropria locuzione Sud Globale, terra di conquista di Pechino e Mosca.

4. Incapacità di programmare sul lungo periodo e cortocircuito delle istituzioni federali.

Pensare di poter competere in ogni angolo dell’Eurasia è stata la conseguenza dell’incapacità di darsi priorità. Crisi del pensiero strategico, legata a doppio filo alla degradazione della classe dirigente americana. Negli ultimi decenni, infatti, in America non si sono più intraviste figure come George Kennan, Henry Kissinger, il meno noto al pubblico Andrew Marshall (meglio conosciuto come Yoda). Erano uomini capaci di mettersi nei panni dell’altro, di leggere il mondo con le lenti altrui per capire la possibile futura dinamica delle intenzioni avversarie, non meri burocrati, pur altamente preparati (per esempio nell’analisi e nella ricerca di dati), come generalmente si osserva oggi negli Stati Uniti16.

Non solo al momento attuale manca una preparazione sincretica tra i soggetti chiamati ad analizzare e direzionare la politica estera e la strategia americana, ma manca anche una visione di lungo periodo. Ci si concentra e si forma la futura classe dirigente ad affermare il proprio punto di vista nell’immediato, tendenzialmente attraverso interventi militari o mediante sanzioni. La strategia è stata soppiantata dalla superiorità militare, industriale e tecnologica. Ora, che queste ultime si stanno logorando, l’intelligenza strategica, sulla cui crisi il contributo di Limes è sempre essenziale, manca17.

Per pensare in termini di lungo periodo si devono poter mettere d’accordo più posizioni, trovare un compromesso. Tuttavia, la politica e le istituzioni americane sono entrate in un cortocircuito che non fa che aggravarsi: la programmazione delle spese militari per il lungo periodo è diventata una chimera. Il Partito Democratico e Repubblicano occupano le istituzioni arroccandosi su posizioni sempre più ideologiche, impossibili da conciliare con il compromesso necessario per definire un’azione di lungo periodo e le conseguenti priorità da seguire18. Dunque, nonostante il fatto che gli Stati Uniti siano nettamente lo Stato più ricco al mondo, tali ingenti risorse economiche di cui dispongono non riescono ad essere impiegate come dovrebbero. Inoltre, gli apparati statali non riescono a fare adeguata pressione e persuadere i grandi poteri economici – che ormai da decenni o hanno delocalizzato la produzione nella più conveniente Cina o non vogliono far a meno dell’enorme mercato cinese – a partecipare al contenimento economico della Repubblica Popolare. La sordità dell’economia per il concetto di corporate national security responsibility – ossia, sostanzialmente, il contenimento della Cina attraverso mezzi economici – sembra pressoché totale19.

Le spese militari, considerato il fatto che non si ripagano naturalmente – a differenza, per esempio, di investimenti infrastrutturali o nel lavoro – dovrebbero essere finanziate attraverso il prelievo fiscale, ma quest’ultimo soffre e non riesce a garantire l’afflusso di denaro necessario. L’agenzia federale deputata alla riscossione dei tributi (l’Internal Revenue Service), che avrebbe dovuto procedere con una riforma del sistema tributario in modo da aumentare il gettito fiscale, non ha effettuato alcuna riforma. Principalmente a causa della strenua opposizione repubblicana, contraria ad intaccare i grandi patrimoni. Pertanto, l’agenzia tributaria, per la parte delle spese militari finanziata attraverso il gettito fiscale, si è dovuta rivolgere alla media impresa, ancora sofferente per le crisi economiche che si sono succedute dal 2008 in poi20. Pertanto, le spese militari non sono coperte attraverso il prelievo fiscale – o perché i patrimoni delle grandi imprese non si riescono a sottoporre a tassazione, ovvero perché il gettito derivante dai tributi versati dalle medie imprese è basso – e dunque si finanziano emettendo debito. Di conseguenza, le risorse di cui disporrebbe l’America non riescono ad essere usate dal Governo Federale.

Se questa è la situazione, con i fondi che vengono sempre più difficilmente reperiti e il comparto militare-industriale che stenta a reggere i ritmi che oggi (e in futuro) sono richiesti, una soluzione, quanto meno per il breve periodo e per diversificare le fonti di approvvigionamento, potrebbe l’acquisto da produttori esteri di mezzi militari, armamenti, ecc. Tuttavia, la mancanza di visione sul lungo periodo ha fatto sì che il Pentagono non favorisse l’ingresso di nuovi produttori nel mercato delle armi, ma, anzi, rafforzasse ancor di più l’attuale oligarchia industriale. Il Dipartimento della Difesa, infatti, come si può leggere su un articolo pubblicato su Foreign Affairs, afferma che i processi di acquisizione da produttori non americani non rientrano tra quelli di riferimento. Dunque, non si è mai proceduto alla riforma dell’International Traffic in Arms Regulations (un regime di controllo particolarmente rigido e burocraticamente complesso ancora in vigore dalla Guerra Fredda)21. Con una capacità di vedere oltre al mero interesse immediato, spesso volto a favorire alcuni settori o parti della politica, e non rimanendo convinti del fatto che non ci sarebbero più state minacce strategiche per gli Stati Uniti, sarebbe stato possibile effettuare anche queste riforme. E forse, sarebbe stata affrontata più agevolmente l’attuale crisi.

5. La sovraestensione dell’impero americano.

Riprendiamo dunque il non concepirsi limitati, probabilmente nucleo della crisi strategica americana, in merito al quale il contributo analitico e intellettuale di Limes corre nuovamente in aiuto. Gli Stati Uniti, in queste condizioni, sono gravemente sovraestesi, o overstretched, come si direbbe oltreoceano. Le risorse che Washington aveva preventivato di utilizzare due decenni fa, ritenendo di doversi trovare a fronteggiare soltanto minacce che non si sarebbero rivelate strategiche (come la fantomatica lotta al terrorismo, o Saddam Hussein), erano sufficienti soltanto a mantenere lo status quo. Ad oggi, con la sfida aperta di Cina e Russia e con la crisi in Medio Oriente, le risorse americane non bastano più a mantenere la propria egemonia. I fronti sono troppi in rapporto alle risorse – industriali, militari, economiche, geografiche e umane – di cui gli Stati Uniti sono (sarebbero) estremamente ricchi ma che non riescono a mobilitare.

L’analista Stephen Wertheim pone l’accento sulla difficoltà di mobilitare le risorse umane22. Wertheim, in un contributo pubblicato su Limes, sostiene che una sovraestensione dell’impero americano come quella attuale, con un drastico aumento delle alleanze e dunque dei fronti rispetto alla fine della Guerra fredda, non farebbe che aumentare le probabilità di un conflitto prolungato con una potenza di livello pari agli USA. La situazione sarebbe molto diversa rispetto alle guerre in Afghanistan e alle due contro l’Iraq di Saddam Hussein. In questi due conflitti, infatti, nonostante vi sia stata una imponente mobilitazione, essa ha impattato solo sul settore della difesa, dei militari, e sulle loro famiglie. La popolazione americana, nonostante abbia sempre sostenuto i propri soldati durante quelle guerre, non si è mai dovuta mobilitare in toto. Il settore industriale e l’economia in generale non sono state riconvertite, e, da ultimo, le perdite hanno riguardato solo una piccola parte della collettività.

In un ipotetico – neanche troppo – conflitto con la Cina, invece, sarebbe necessario un totale coinvolgimento della popolazione americana, cosa che, allo stato dell’arte attuale e del prossimo futuro, non sembra realisticamente possibile. Come visto, infatti, i problemi sarebbero molti, dall’industria ai fondi, difficili da reperire e da direzionare, considerate le difficoltà per trovare un punto d’intesa condiviso al Congresso tra democratici e repubblicani. Tuttavia, la questione più grave sarebbe nuovamente la discordia civile e l’idea, condivisa dalle due principali fazioni politiche, di un’America disimpegnata. Insomma, a differenza dei problemi relativi all’apparato militare-industriale, che, seppur presenti e seri, possono essere risolti, il fattore umano è forse il problema più strettamente connesso alla sovraestensione dell’impero statunitense.

Washington, pertanto, per mantenere la propria egemonia, chiede sempre più insistentemente ai propri alleati di coprire molti dei fronti di cui dovrebbe occuparsi ma per i quali non riesce ad impegnarsi . Gli esempi principali sono chiaramente l’Ucraina e il Medio Oriente. In entrambi i casi gli Sati Uniti, non potendo intervenire direttamente – anche per evitare, nel caso dell’Ucraina, una guerra diretta e devastante con la Russia – si servono di Kiev e Tel Aviv per evitare che un soggetto, Russia e Iran, possa diventare potenza egemonica nelle due regioni chiave. Tuttavia, sebbene il combattimento attivo sia lasciato ad ucraini e israeliani, l’America rimane ancora estremamente legata alla, ed impegnata direttamente nella, difesa dell’Europa e del Medio Oriente.

Nonostante gli USA al momento non abbiano le capacità per assolvere questi compiti, ma si rendano al contempo conto della propria sovraestensione che non permette loro di intervenire direttamente, specialmente con l’uscente amministrazione Biden hanno dato vita a crescenti cooperazioni transregionali in Europa, Medio Oriente ed Estremo Oriente23. Si tratta però di cooperazioni in cui gli Stati Uniti sono più o meno direttamente coinvolti, allo scopo di perseguire comunque il mantenimento dell’egemonia in nome della difesa della democrazia, della libertà e del così detto ordine internazionale basato sulle regole.

Dal punto di vista americano, il già citato analista Stephen Wertheim avrebbe prospettato una soluzione che permetterebbe agli USA di concentrarsi sul fronte che ha importanza effettivamente strategica e prioritaria, l’Indopacifico. Non verrebbero abbandonate le altre regioni, ma si avrebbe un minor coinvolgimento americano in Europa e Medio Oriente. Per fugare ogni dubbio sul nascere, non significherebbe lasciare la NATO e abbandonare l’Europa al proprio destino come Trump è sembrato velatamente affermare – sebbene sia un proposito piuttosto irrealistico ed estremamente difficile da attuare.

Osservando dunque la situazione in ottica americana, attività complessa ma necessaria per tentare di comprendere quali mosse siano più sensate per gli USA, Wertheim sostiene che andrebbe riformato il Patto Atlantico.  Si dovrebbe rendere l’Europa militarmente capace di sostenere in autonomia gli oneri della difesa del continente Gli americani dovrebbero svolgere un ruolo attivo per garantire il fondamentale supporto logistico e il centrale ombrello nucleare, sebbene quest’ultimo, poi, dovrebbe essere gestito dagli europei. I boots on the ground, però, non dovrebbero esser messi da truppe statunitensi. Questo piano di transizione dovrebbe essere sviluppato in concerto con i Paesi europei, guidandoli e spingendoli a sviluppare in un decennio prontezza al combattimento, credibile deterrenza convenzionale, deterrenza nucleare autonoma e industria militare all’avanguardia. Tutti obiettivi che per Wertheim sarebbero raggiungibili considerato il livello tecnologico e la preparazione che già si ha in Europa.

Di parziale diverso avviso è Elbridge Colby, ex vice assistente al Segretario alla Difesa americano. Colby, esaminando la posizione sostenuta in una conversazione con Limes, afferma che gli Stati Uniti dovrebbero continuare ad onorare l’art. 5 del Patto atlantico senza procedere ad alcuna riforma. Di conseguenza, se fosse necessario difendere l’Europa, le truppe americane dovrebbero necessariamente essere dispiegate al fianco di quelle europee. «Anche qualora ciò comportasse prendere più rischi e subire maggiori perdite», si dovrebbero comunque inviare truppe in Europa. Tuttavia, allo stato attuale e nel prevedibile futuro, Colby sostiene che gli USA non potrebbero combattere due guerre contemporaneamente in Europa e in Asia. Oltretutto, prosegue il già vice assistente al Segretario alla Difesa, vi sono mezzi e asset che, essendo carenti per i problemi esaminati, non potrebbero essere spostati in Europa. Essi infatti sono necessari per operazioni congiunte sul teatro del Pacifico24.

Anche in Medio Oriente, secondo Wertheim, il coinvolgimento militare attivo di Washington dovrebbe terminare. Dovrebbe essere Israele a portare avanti gli interessi americani, indebolendo l’Iran (già molto fragile al suo interno) e impedendo che possa diventare egemone nella regione. Allo stesso tempo, gli USA dovrebbero favorire accordi tra i Paesi arabi pragmatici della regione e Turchia con Israele, in modo da tentare di stabilire un equilibrio regionale, anche se le intenzioni iraniane sembrano essere di tutt’altro tipo. Il fronte mediorientale è probabilmente quello dal quale un disimpegno americano sarebbe estremamente difficile da realizzare.

Infine, concentrarsi sul Pacifico non significherebbe aumentare ulteriormente il contenimento militare nei confronti della Cina per annichilirla, cosa che potrebbe far ritenere alla Repubblica Popolare di dover ingaggiare direttamente l’America per espellerla dalla regione. Secondo Wertheim, invece, si dovrebbe piuttosto favorire una coalizione che dissuada la Cina dall’annessione di territori, senza però contenerla al punto tale da non lasciarle spazio di manovra. Lo scopo dovrebbe essere quello di ricercare una coesistenza competitiva con Pechino, e non di doverla necessariamente soffocare. Il primo obiettivo americano, pertanto, ora dovrebbe essere il mantenimento dell’equilibrio di potenza, non la totale riaffermazione della propria egemonia25.

Di opposta opinione è Jeffrey Mankoff (ricercatore al Center for Strategic Research della National Defense University). Secondo Mankoff, il quale ha espresso la sua posizione in una intervista uscita su Limes a gennaio 2023, la coesistenza con altri imperi e un equilibrio di potenza non sarebbero possibili26. Per questo, secondo Mankoff si deve proseguire con la pressione e il contenimento della Russia per mezzo dell’Ucraina in quanto Mosca rimane una minaccia esistenziale per l’Europa, e, allo stesso tempo, si deve proseguire, se non aumentare, il contenimento militare nei confronti di Pechino a scopi dissuasivi. L’America, secondo Mankoff, avrebbe ancora tutti i mezzi per proseguire per entrambe le strade.

6. La crisi della deterrenza statunitense.

Veniamo ora all’esame di un’altra espressione della tempesta che sta colpendo la strategia americana, una delle manifestazioni più gravi della crisi dell’impero statunitense: la deterrenza americana non funziona più. O meglio, come si vedrà, è principalmente la deterrenza convenzionale ad essersi inceppata. Si deve innanzitutto mettere in chiaro cosa si intende con deterrenza. Prendendo in prestito le parole di Kayse Jansen (consulente tecnica senior alla Plans and Policy Directorate dello U.S. Strategic Command) – senza dubbio più competente di chi scrive – il concetto di deterrenza «descrive azioni intenzionali volte ad influenzare il processo decisionale degli avversari affinché scelgano di non usare la forza anziché di aggredire. Tale capacità di condizionamento dipende dall’impressione che il rivale ha dei costi e dei benefici in relazione alle due opzioni»27.

La deterrenza può essere o convenzionale, se sviluppata per contrastare minacce non nucleari, o strategica. Partiamo prima con l’esame della deterrenza convenzionale e della sua condizione attuale. Gli interventi statunitensi del secolo scorso, nella Guerra di Corea e in Vietnam principalmente, erano stati un fulgido esempio del fatto che già nel contenimento dell’Unione Sovietica la deterrenza convenzionale non aveva avuto esattamente gli effetti dissuasivi sperati. I due conflitti, infatti, non limitarono l’espansionismo comunista, e, anzi, si può dire che lo rafforzarono. Non solo non ebbero esiti nei confronti del nemico strategico, l’URSS, ma non si mostrarono efficaci neanche verso gli avversari a livello tattico contro cui gli USA combattevano. I bombardamenti a tappeto nel Vietnam del Nord, per mostrare la distruzione cui sarebbe andato incontro il nemico qualora la guerra fosse continuata, infatti non piegarono Hanoi.  La devastazione provocata dagli attacchi aerei americani sulla popolazione vietnamita, unirono e compattarono ancor di più i vietnamiti contro il nemico americano. Tuttavia, nonostante questi conflitti gravemente fallimentari, gli Stati Uniti avevano mantenuto una capacità deterrente convenzionale elevata. Essa era data fondamentalmente da un apparato militare-industriale incredibilmente efficiente e da una concordia politica e sociale che di comune accordo identificava nell’Unione Sovietica il nemico strategico esistenziale.

Proseguiamo esaminando il concetto di deterrenza strategica. Sin dagli albori dell’era nucleare, dalla fine degli anni ’40 del secolo scorso, strateghi americani come Schelling, Bernard Brodie, e Albert Wohlstetter avevano iniziato a sviluppare la teoria della deterrenza nucleare, o strategica. Nel caso di attacco nucleare, dunque, si sarebbe attivata la così detta mutua distruzione assicurata, ossia un contrattacco, o second strike, attraverso il quale il Paese che avrebbe lanciato per primo i missili nucleari sarebbe stato colpito immediatamente da un altrettanto potente attacco nucleare. Questa teoria, che ha fondato il concetto di deterrenza di tipo strategico, funzionò nei confronti dell’Unione Sovietica per due motivi fondamentali: l’avversario che si doveva dissuadere era uno solo; era un nemico ben conosciuto, grazie agli abilissimi strateghi americani (e russi), capaci di mettersi nei panni altrui e di capire approfonditamente l’avversario sovietico, non proiettando sul nemico il proprio punto di vista.

Queste capacità fecero sì che, mentre si sviluppava un concetto di deterrenza strategica dinamica per poter affrontare le crescenti e multidirezionali minacce sovietiche – estendendo per esempio l’ombrello nucleare anche all’Europa occidentale – si procedesse anche verso una distensione con l’URSS. Ne sono esempi il Trattato di non proliferazione nucleare sottoscritto con Mosca nel 1968 e il fatto che le leadership delle due superpotenze erano rimaste sempre concordi sulla necessità di mantenere in ogni momento canali di comunicazione diretti, anche in casi di crisi gravissime, come quella dei missili a Cuba nel 1962.

Oltre al consenso politico attorno alle dimensioni del budget della difesa, che doveva essere tale da non poter essere eguagliato, c’era un altro elemento che fece sì che la deterrenza strategica nei confronti dell’Unione Sovietica funzionasse: l’altissimo consenso generale tra la popolazione americana in merito al fatto che l’Unione Sovietica fosse una minaccia esistenziale per l’America. Ciò fu possibile non solo grazie alla concordia bipartisan tra repubblicani e democratici, ma anche per una sapiente attività interna dei servizi segreti statunitensi – quando non operavano anch’essi come ulteriore braccio armato di Washington – capaci di veicolare le giuste informazioni per alimentare la narrazione di Mosca come minaccia esistenziale, ottenendo un consenso quasi totale tra gli americani28.

Messo riassuntivamente in chiaro il successo della deterrenza americana durante la Guerra fredda, passiamo alla contemporaneità. La deterrenza strategica, come pensata dal 1945, oggi non funziona più. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha comportato per gli Stati Uniti la perdita della minaccia esistenziale, dell’avversario strategico che rendeva necessario lo sviluppo di tale deterrenza. La Russia è rimasta una minaccia strategica per gli USA, ma non la si è capita. Si è ampiamente sottovalutata la Federazione Russa, a causa della degradazione dell’intelligenza strategica americana, anche se, comunque, bene o male a Washington si conosce la Russia. La sua dottrina nucleare è nota, sebbene si sia persa la comprensione profonda delle intenzioni russe. Il problema per la deterrenza strategica americana è quindi sorto per la sottovalutazione di altre minacce strategiche che nei decenni sono drammaticamente cresciute. La Cina sta continuando ad incrementare ampiamente sia il programma nucleare che le capacità balistiche dei missili intercontinentali, mantenendo estrema ambiguità sulla propria dottrina nucleare29.

I decisori e gli strateghi americani, però, non solo non hanno sviluppato una conoscenza profonda del pensiero strategico cinese, ma sono venuti a conoscenza della volontà della Repubblica Popolare di mirare alla parità strategica nucleare rispetto a USA e Russia soltanto nell’estate del 2021. Tre anni fa, infatti, un documento diffuso dall’intelligence statunitense ha scoperchiato il vaso di Pandora: la Cina è diventata ufficialmente una minaccia strategica per gli USA30. Scoperta che, però, sembrerebbe esser stata piuttosto tardiva. Ai Paesi dotati di vettori nucleari intercontinentali si è aggiunta anche la Corea del Nord e l’Iran sarebbe pronto ad aggregarsi. Teheran, ad ogni modo, non rappresenta ancora una minaccia strategica per l’America, ma è l’esempio di come il sistema della deterrenza convenzionale americana non sia stato in grado di dissuadere gli ayatollah dal proseguire con il programma nucleare sino al momento attuale, ad un passo dalla Bomba. Negli ultimi decenni le minacce strategiche si sono quindi moltiplicate in conseguenza della dimensione multipolare che ha assunto lo scenario internazionale proprio a causa della crisi americana.

Gli Stati Uniti devono modificare la deterrenza strategica per adattarla ad un tale contesto multipolare. Washington deve «perseguire simultaneamente molteplici obiettivi di dissuasione variando la fascia di aggressività», con la conseguenza che l’equazione tradizionale che è proseguita sino al 1991 – ossia dissuadere un attore X dal compiere un’azione Y in un dato scenario Z – deve essere superata, e in fretta31. Un suo radicale aggiornamento, però, non sembra essere all’orizzonte. Mancano: il consenso della popolazione sul ruolo degli Stati Uniti, sulla natura che deve avere l’America e sull’ “esistenzialità” delle minacce; un accordo politico bipartisan sulle priorità strategiche da affrontare; investimenti nella difesa; e, da ultimo, l’intelligenza strategica. Il caos.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno fondato il loro potere e, dal 1991, la loro egemonia, sulla dissuasione nei confronti dei propri avversari dal muovere guerra contro l’America. Questo, in special modo con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ha dispensato gli USA dallo sviluppo di una strategia, come si è spiegato sin qui e è stato ampiamente evidenziato numerose volte nelle analisi di Limes32. Dal 2021, pertanto, gli USA hanno smesso di far paura. Ma perché proprio dall’estate del 2021? La dissuasione americana, che in ogni caso già negli anni precedenti aveva mostrato crepe, tre anni fa ha subito il colpo di grazia: il disordinato ritiro, o meglio la fuga, dall’Afghanistan.

La sconfitta afghana avrebbe potuto significare, da un certo punto di vista, una sorta di presa di coscienza degli Stati Uniti, che, sebbene in maniera estremamente disordinata e precipitosa, avrebbero lasciato un territorio non strategico. Per giunta, nel cortile di casa degli avversari di Washington, Russia e Cina, i quali si sarebbero dovuti occupare della polveriera afghana. Nell’ottica americana, il danno, pur cospicuo, sarebbe stato solo di immagine. Oltretutto circoscritto al solo contesto europeo, nel quale gli USA sarebbero stati (e sono stati) percepiti come traditori del popolo afghano e dei diritti umani che la coalizione occidentale, nell’ottica europea, avrebbe dovuto diffondere in Afghanistan33. Insomma, un rischio oltreoceano considerato accettabile. Anche in questo caso, però, la lettura statunitense si è dimostrata errata, incapace di interpretare la contingenza e vestire i panni russi e cinesi.

Ultimi aerei da trasporto americani lasciano l’aeroporto di Kabul, 26 agosto 2021 (fonte fotografica: The New Yorker).

Il ritiro dall’Afghanistan – Paese che, non a caso, è da sempre conosciuto come “il cimitero degli imperi” – è stato interpretato a Mosca e Pechino come la goccia che ha fatto traboccare il vaso della crisi strategica americana. Già prima dell’agosto 2021 la Russia aveva dato prova di voler sfidare i caveat di Washington con l’annessione della Crimea, l’intervento in Donbass e l’invasione delle regioni georgiane dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, senza subire alcuna ritorsione diretta da parte americana – sanzioni a parte. Poi, con l’abbandono di Kabul, Cina e Russia non sembrano essere più minimante «intimidite né dalla prospettiva di subire una rappresaglia né dal rischio di non raggiungere i loro obiettivi»34. Gli Stati Uniti non sono considerati più in grado di dissuadere i loro avversari in alcun modo, almeno a livello convenzionale.

La Russia ha quindi scommesso – o meglio, era certa – sul fatto che gli USA non sarebbero mai intervenuti direttamente per dissuaderla dall’invadere l’Ucraina. E in effetti così è stato. Gli Stati Uniti, troppo concentrati su sé stessi, sul proprio interno, troppo in crisi per esercitare una effettiva deterrenza che andasse oltre i rifornimenti militari. Tra l’altro, nella primissima fase del conflitto, da parte americana non sarebbero stati neanche previsti pacchetti di aiuti, come confermava il piano di esfiltrare Zelensky per disimpegnarsi completamente dalla guerra da poco scoppiata. Poi, anche con l’amministrazione Biden, la quale ha in seguito garantito i rifornimenti militari che hanno permesso a Kiev di resistere, gli aiuti militari si sono via via ridotti. È stata la certificazione del fatto che, sebbene non si possa sostenere che l’America non abbia raggiunto alcun obiettivo visto che ha reso possibile l’esistenza dell’Ucraina, Washington non è stata capace di imporre indirettamente costi sufficienti per dissuadere l’avversario dall’invasione.

Anche Pechino negli ultimi tre anni ha ritenuto esser giunto il momento del Risorgimento cinese, per citare le parole di Xi. La debolezza dell’America è stata percepita come il viatico per riportare la Cina ad essere impero, farla tornare l’Impero del centro che fu35. Le esercitazioni intorno a Taiwan, spesso a fuoco vivo e simulanti in modo sempre più realistico un attacco e un blocco navale dell’isola, sono sempre più frequenti. La postura nel Mar Cinese Meridionale, soprattutto nei confronti delle Filippine – le quali avrebbero anche un patto di difesa con l’America – è ripetutamente più assertiva e violenta.  Pechino procede con l’espansione marittima anche attraverso la creazione di atolli artificiali, in aperta violazione del diritto internazionale, di quell’ordine internazionale basato sulle regole in difesa del quale l’America si erge alfiere. Sul piano economico, anche la violazione della proprietà intellettuale occidentale da parte della Cina è ripetuta, ma anch’essa rimane impunita36. Rimanendo in Estremo Oriente, la stessa Nord Corea, in particolare nell’ultimo anno, ha aumentato parecchio la pressione e gli atti ostili nei confronti di Seul, oltre ad aver incrementato i test di missili balistici intercontinentali e non, spesso diretti nel Mar del Giappone. Anche in quella parte di mondo, dove pure si dovrebbero concentrare gli effettivi interessi strategici statunitensi, l’America non è in grado di praticare un’effettiva deterrenza.

Ulteriore esempio della fine della capacità deterrente convenzionale americana – almeno per il momento, non si parla di un declino definitivo e inesorabile – è l’operazione Prosperiy Guardian. Organizzata per contrastare gli attacchi degli Houthi e riaffermare la deterrenza militare americana sui mari (indiscussa fino a pochi anni fa), dominio incontrastato mascherato da globalizzazione, non è stato raggiunto alcun obiettivo sostanziale, nonostante l’imponenza dell’operazione. Sono state dispiegati costosissime imbarcazioni, utilizzati droni e missili altrettanto costosi in grande quantità, sono stati effettuati anche bombardamenti su porti e fabbricati usati dagli Houthi. Nullo il risultato. La milizia vicina all’Iran non ha mai smesso di attaccare le navi commerciali occidentali costringendole il più delle volte a circumnavigare l’Africa. Gli Stati Uniti hanno dilapidato risorse e armamenti, che non sarà possibile rimpiazzare velocemente, e che sarebbero stati necessari nel fronte strategico del Pacifico.

In conclusione, se la deterrenza convenzionale statunitense non riesce a dissuadere neanche gli Houthi e l’unica forma dissuasiva più o meno credibile che gli USA possono ancora mettere in campo è quella nucleare, allora “Washington, abbiamo un problema”.

7. L’istruzione nella tempesta.

Da ultimo, ci si deve concentrare su un ulteriore problema per la strategia statunitense, forse meno trattato e dibattuto ma a nostro avviso centrale, al quale Limes in primis ha dedicato molta attenzione. I protagonisti sono la futura classe dirigente americana, le prossime generazioni di analisti, strateghi, diplomatici americani. Insomma, coloro che frequentano i più prestigiosi atenei universitari degli Stati Uniti e che, in sostanza, attualmente si possono identificare nei giovani sostenitori democratici. Tra questi ultimi è ampiamente sostenuta l’idea di un’America introvertita, di un mondo in cui la potenza statunitense possa essere legittimamente messa in discussione da altri soggetti, di un disimpegno militare generalizzato per concentrarsi principalmente (se non esclusivamente) sulla tutela dei diritti sociali e civili all’interno del proprio Paese37. La concezione degli Stati Uniti come potenza costantemente impegnata ad affermare il proprio primato attraverso il dispiegamento di uomini e flotte in ogni angolo del globo – dunque il ruolo egemone e imperiale degli Stati Uniti – già era in crisi tra i giovani sostenitori democratici.

In seguito alla violenta e prolungata rappresaglia israeliana per l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, però, il sostegno al disimpegno americano, specialmente negli atenei della Ivy League, ha subito un ulteriore, duro, colpo. Ciò che Israele ha compiuto a Gaza a partire dal 7 ottobre dello scorso anno, però, è stato solo un pretesto. Ha dato sì adito a violente proteste da parte degli studenti, partecipate e sostenute anche da professori e rettori delle citate università, ma è stato espressione di un sentimento che covava da tempo. Non si protesta(va) solo contro le rappresaglie e gli atroci bombardamenti israeliani, con conseguenti atti e slogan antisemiti aumentati in maniera preoccupante. I manifestanti, in realtà, hanno contestato il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, bruciando persino le bandiere a stelle e strisce, emblema dei mali che affliggono il pianeta, secondo i manifestanti provocati esclusivamente dall’ imperialismo americano. Idea e azione impensabili in un Paese in cui sostanzialmente ogni famiglia espone orgogliosamente la propria bandiera e in cui, nella maggior parte delle scuole, è previsto che ogni mattina si reciti il così detto pledge of allegiance (ossia, versi in cui si promette fedeltà alla bandiera).

Nelle università, ma in parte anche nelle suole, è sempre più diffuso l’insegnamento della così detta critical race theory. I sostenitori di questa teoria, in breve, sostengono che la razza e il razzismo siano intrinsecamente legati alle leggi, alle politiche e alle istituzioni non esclusivamente americane, ma occidentali. Si afferma che il razzismo non è semplicemente un pregiudizio individuale, ma un sistema radicato che plasma le strutture legali e sociali dell’occidente tutto, perpetuando le disuguaglianze razziali. Inoltre, sono molto diffusi anche i così detti diversity, equity and inclusion programs. In base a questi programmi, che hanno vera e propria natura amministrativa, le ammissioni alle università che li applicano (si tratta principalmente dei più prestigiosi atenei universitari) devono avvenire, in caso di parità di punteggio, in base all’etnia di appartenenza. Vi sono pertanto quote di iscrizione riservate ad afroamericani, latini e asiatici, ai gruppi etnici storicamente meno rappresentati e vittime del razzismo38.

I programmi di diversity, equity and inclusion e la critical race theory non sono certamente una novità dal momento che sono comprensibilmente sorti a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, con le battaglie per i diritti civili. All’epoca, però, non erano alternativi al concetto di cittadinanza americana, anzi, erano un modo per includere, attraverso azioni attive, anche le minoranze nei programmi di insegnamento e al contempo permettere loro di entrare nelle istituzioni. Oggi, invece, la promozione dei diversity, equity and inclusion programs e l’insegnamento della critical race theory nelle università, e in generale anche nel sistema scolastico, sono diventati l’emblema di chi non si riconosce più come cittadino americano, prodotto della storia statunitense (razzista, violenta e oppressiva nella loro ottica). Ci si identifica, piuttosto, in una specifica comunità, in un determinato gruppo identitario che rimane chiuso39. In sintesi, è tra coloro che saranno chiamati a dirigere l’America nei prossimi decenni, tra le fila democratiche, che si è incistato, sembra definitivamente, il germe che più preoccupa una potenza come gli Stati Uniti. Si sta sgretolando l’idea e la narrazione che a Washington si era costruita dalla fine del Secondo conflitto mondiale, ossia l’eccezionalismo e il necessario universalismo messianico americano, sulla cui crisi gli approfondimenti di Limes sono essenziali.

Se la situazione più grave è evidentemente nelle università, anche nelle scuole, però, il quadro è preoccupante. È lì, infatti, che sin dai primi anni di vita si formano i cittadini americani, impartendo loro la pedagogia nazionale statunitense. Questa, fino ad una manciata di anni fa, era più o meno ovunque condivisa, oggi non lo è più. Il cittadino americano, infatti, non è più formato in base ad un’idea condivisa di cittadinanza e di nazione, non aiuta il fatto che l’istruzione non sia disciplinata a livello federale.

Nel precedente paragrafo abbiano citato il pledge of allegiance. Questi versi dedicati alla fedeltà che chiunque deve portare nei confronti della bandiera americana sono stati obbligatori in tutte le scuole pubbliche fino ad una sentenza della Corte Suprema del 1943. In seguito, sebbene non fossero più obbligatori, di fatto la promessa di fedeltà alla bandiera a stelle e strisce lo erano ancora. Oggi, non solo ci si può rifiutare di recitare il pledge of allegiance, in autonomia o con l’autorizzazione dei genitori (seguendo regole ben precise, come nel caso degli istituti in Michigan, Minnesota o New Jersey), o anche senza addurre alcuna motivazione, come avviene in California40. Ma si assiste sempre più spesso, nello specifico in contee roccaforti democratiche, a casi in cui le scuole, in special modo gli istituti privati, non prevedono più la recitazione del pledge of allegiance.

Di più. Sin da fine Ottocento, da quando gli Stati Uniti sono diventati la principale meta di immigrazione al mondo, la contestazione sui programmi scolastici americani, volti ad assimilare i nuovi arrivati per impartire loro la narrazione, la pedagogia nazionale e il modello americano, riguardava essenzialmente il fatto che era troppo incentrata sul ceppo dominante anglosassone e sui suoi eroi e modelli. Non si contestava il messaggio e la narrazione impartita, ma il fatto che non fossero inclusi anche eroi e modelli delle culture che avevano fatto ingresso in America. Oggi, invece, è lo stesso ceppo bianco (in questo caso democratico) a negare sempre più diffusamente il fatto che bambini e ragazzi si debbano istruire alla narrazione in base alla quale l’America sarebbe the land of freedom, modello universalistico, per l’umanità libera.

Una messa in discussione così profonda della storia americana non è solo una questione riguardante l’istruzione, ma diventa un problema geopolitico, anche perché, al contempo, coinvolge le future generazioni di repubblicani. Alla narrazione rappresentata nel precedente paragrafo, che caratterizza i fortini liberal, si contrappone, in maniera inconciliabile, la narrazione repubblicana. Sono oggetto di attacco generalizzato specialmente i citati programmi di diversity, equity and inclusion e la critical race theory. I repubblicani sono sempre più arroccati su posizioni duramente protezionistiche di quella che, secondo loro, sarebbe l’identità nazionale americana, bianca e cristiana (in tutte le declinazioni che il cristianesimo può assumere in America, e sono parecchie)41. Dal momento che l’identità americana sarebbe messa a repentaglio e posta sotto assedio da politiche liberal come i programmi e le teorie di cui sopra, la risposta repubblicana si è fatta più dura negli ultimissimi anni.

A livello statale, come specificato da Federico Petroni di Limes, l’offensiva ha riguardato venti Stati governati dai repubblicani – tra Stati del Sud e dell’Heartland del Midwest – che tra il 2022 e il 2023 hanno vietato i programmi di diversity, equity and inclusion. Nello specifico, è stato proibito il favorire assunzioni di personale in base alla sua adesione e sostegno formale alla critical race theory e alle politiche di diversità e di inclusione etnica. I repubblicani agiscono non soltanto per il tramite dei propri governatori statali, ma anche attraverso specifici think tank, come il Claremont Institute, deputati al supporto e alla creazione delle tesi più conservatrici.

Fondamentale è anche l’opera della Corte Suprema42. Il 29 giugno 2023, i supremi giudici hanno dichiarato incostituzionali proprio quelle azioni correttive che consentono di assumere personale sulla base dell’identità e dell’appartenenza etnica. La violazione riscontrata era nei riguardi della prima parte del XIV emendamento e del titolo VI dell’atto sui diritti civili del 1964. Dalla Corte Suprema a maggioranza conservatrice è stato dunque stabilito che i diversity equity and inclusion programs non hanno rispettato il principio in base al quale soggetti in medesime situazioni non possono subire discriminazioni dalla legge o da atti ad essa equiparati43. Fondamento costituzionale che, in effetti, sembrerebbe sussistere.

Ciò che emerge da questo quadro è una totale “tribalizzazione” dell’istruzione, a tutti i livelli. I repubblicani intendono imporre «una narrazione storica unica e monolitica, dimenticandosi che [gli Stati Uniti] sono una nazione diversificata e piena di faglie» per loro natura, essendo la più grande meta di immigrazione della storia44. I democratici liberal invece spingono per una riscrittura della storia americana che provoca crescente allontanamento dalla narrazione canonica statunitense e dunque dalla concezione di cittadino americano, favorendo il sorgere di gruppi identitari etnici sempre più chiusi e autoreferenziali. La cultura strategica per svilupparsi ed evolversi necessiterebbe naturalmente di dialogo, confronto di più punti di vista e di sintesi, ma anche dell’insegnamento della storia e della capacità di storicizzare, scevri da interessi partigiani. Ebbene, negli Stati Uniti, essendo questa l’attuale condizione dell’accademia e della scuola americana, specialmente nelle università più prestigiose che formeranno la futura classe dirigente, tutto ciò manca.

Si conclude questo viaggio nella crisi della strategia americana degli ultimi decenni. Vedremo nel prossimo appuntamento quale postura potrebbero assumere gli Stati Uniti, se e come la nuova presidenza Trump influirà sugli interessi strategici statunitensi, e quale sarebbe stata la postura di Washington con una presidenza Harris.


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  1. H. Kissinger, Ordine Mondiale, Mondadori, Milano, 2023, p. 313. ↩︎
  2. L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli, Milano, 2022, p. 99. ↩︎
  3. S. Wertheim, La fine dell’impero globale, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, p. 76; anche Cfr. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, Gli Stati Uniti non sanno che fare. L’introvabile intelligenza strategica dell’America, 19 dicembre 2023, https://youtu.be/E6onGSmjwAk?si=sgK1dQX6roBtRMGQ; F. Petroni, L’introvabile intelligenza strategica dell’America, in Le intelligenze dell’intelligence, Limes, novembre 2023, pp.45 ss.; «Sovraestesi e senza strategia», Conversazione con Wertheim S., a cura di Petroni F., in Guerra Grande in Terrasanta, Limes, ottobre 2023. ↩︎
  4. La grande strategia americana. Conversazione con H. R. Nau, a cura di H. Harding, in La guerra promessa, Limes, gennaio 2003. ↩︎
  5. Remarks by National Security Advisor Jake Sullivan on Renewing American Economic Leadership at the Brookings Institution, in www.whitehouse.gov, 27 aprile 2023. ↩︎
  6. V. www.ofac.treasury.gov. ↩︎
  7. Cfr. F. Maronta, La madre di tutte le sanzioni è un’arma spuntata, in La Russia cambia il mondo, Limes, febbraio 2022, pp. 87 ss.; Aresu A., Sanzionismo, malattia senile del globalismo, in Il bluff globale, Limes, aprile 2023, pp. 131ss.; Limes Rivista Italiana di Geopolitica, Usa-Russia, l’embargo fallito. Il flop delle sanzioni e non solo…, 12 luglio 2023,https://youtu.be/HSdDHXI0dVk?si=NdDT4nGlXhpPFjqo. ↩︎
  8. S. Smitson, Le otto patologie dell’America, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 37 ss.; S. Cropsey, La U.S. Navy non basta ci servono alleati, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 104 ss. ↩︎
  9. W. Beaver, L’industria della difesa non protegge più l’America, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 124. 125 ↩︎
  10. Amplius, J. Fein, The U.S. Navy Is Running Dangerously Low on Munitions, in www.heritage.com, 15 agosto 2024. ↩︎
  11. W. Beaver, L’industria della difesa non protegge più l’America, cit., p. 127. ↩︎
  12. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, Gli Stati Uniti non sanno che fare. L’introvabile intelligenza strategica dell’America, 19 dicembre 2023, https://youtu.be/E6onGSmjwAk?si=sgK1dQX6roBtRMGQ. ↩︎
  13. S. Cropsey, La U.S. Navy non basta, ci servono alleati, in Mal d’America, Limes, marzo 2024. ↩︎
  14. L. Caracciolo, L’impero, non il mondo, Editoriale, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, p. 7 ss. ↩︎
  15. S. Smitson, Le otto patologie dell’America, cit., p. 38; «La lezione di Kennan: capire la Russia per negoziarci», conversazione con F. Costigliola, a cura di F. Petroni, G. Mariotto, in Il mondo cambia l’Ucraina, Limes, luglio 2024, p. 155. ↩︎
  16. P. Zelikow, The atrophy of American statecraft. How to restore capacity for an age of crisis, in www.foreignaffairs.com, vol. Gennaio/Febbraio 2024; «L’impero deve darsi un limite», Conversazione con Kimmage M., a cura di Petroni F., De Ruvo G., in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 70, 71. ↩︎
  17. S. Cropsey, Come abbiamo smesso di fare strategia, in Fine della guerra, Limes, aprile 2024, pp. 76, 77; «La lezione di Kennan: capire la Russia per negoziarci», conversazione con F. Costigliola, a cura di F. Petroni, G. Mariotto, cit., p. 154; S. Smitson, Le otto patologie dell’America, cit., p. 45; F. Petroni, L’introvabile intelligenza strategica dell’America, cit., pp.45 ss.; Limes Rivista Italiana di Geopolitica, La crisi delle università degli Usa. Il caso Harvard/Gay e il declino degli Stati Uniti, 25 gennaio 2024, https://youtu.be/tmMsxkb60Z0?si=iT6AAxeeyzdreNYa. ↩︎
  18. F. Petroni, A che punto è la notte, in Fiamme Americane, www.limesonline.com, 27 dicembre 2023. ↩︎
  19. F. Petroni, Disincanto americano, in Il bluff globale, Limes, aprile 2024, p. 106. ↩︎
  20. F. Petroni, La sindrome di Lear, in Mal d’America, Limes, marzo 2024; F. Petroni, Disincanto americano, cit. ↩︎
  21. P. Zelikow, The atrophy of American statecraft, cit. ↩︎
  22. «Sovraestesi e senza strategia», Conversazione con Wertheim S., a cura di Petroni F., cit., pp. 202, 203. ↩︎
  23. S. Wertheim, La fine dell’impero globale, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 82, 83. ↩︎
  24. «Non possiamo fare la guerra in Europa senza scoprirci in Asia», conversazione con E. A. Colby, a cura di F. Petroni, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 85 ss. ↩︎
  25. S. Wertheim, La fine dell’impero globale, cit.; «Non possiamo fare la guerra in Europa senza scoprirci in Asia», conversazione con E. A. Colby, a cura di F. Petroni, cit. ↩︎
  26. «L’America accelera in ucraina per non fare la Guerra Grande», conversazione con J. Mankoff, a cura di F. Petroni, in La guerra continua, Limes, gennaio 2023, pp. 43 ss. ↩︎
  27. K. Jansen, La Bomba e il caos, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, p. 155. ↩︎
  28. Eaglen M., Walker D., American Deterrence Unpacked, in Henry A. Kissinger Center for Global Affairs, Johns Hopkins University, Novembre 2023, https://sais.jhu.edu/kissinger/programs-and-projects/kissinger-center-papers/american-deterrence-unpacked#_ednref2. ↩︎
  29. Eaglen M., Walker D., American Deterrence Unpacked, cit. ↩︎
  30. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, La crisi della deterrenza Usa. L’America non fa più paura?, 29 settembre 2023, https://youtu.be/ki7R2vyabR4?si=5UW5SNBlsQDGJHgm. ↩︎
  31. K. Jansen, La Bomba e il caos, cit., p. 162. ↩︎
  32. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, La crisi della deterrenza Usa. L’America non fa più paura?, cit. ↩︎
  33. D. Fabbri, Via dall’Afghanistan o della palingenesi dell’America, in Lezioni afghane, Limes, agosto 2021, pp. 51 ss. ↩︎
  34. J. R. Allen, M. Miklaucic, La deterrenza americana è fallita, in Il bluff globale, Limes, aprile 2023, pp. 119 ss. ↩︎
  35. Per una trattazione più approfondita, si rimanda a https://www.geopolisonline.it/prospettive-geopolitiche/quale-futuro-per-taiwan-e-il-mar-cinese-meridionale-parte-seconda/. ↩︎
  36. J. R. Allen, M. Miklaucic, La deterrenza americana è fallita, cit. ↩︎
  37. Per una trattazione approfondita si rimanda a https://www.geopolisonline.it/prospettive-geopolitiche/viaggio-al-centro-dellamerica/. ↩︎
  38. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, La crisi delle università degli Usa. Il caso Harvard/Gay e il declino degli Stati Uniti, 25 gennaio 2024, https://youtu.be/tmMsxkb60Z0?si=iT6AAxeeyzdreNYa. ↩︎
  39. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, La crisi delle università degli Usa. Il caso Harvard/Gay e il declino degli Stati Uniti, 25 gennaio 2024, https://youtu.be/tmMsxkb60Z0?si=iT6AAxeeyzdreNYa. ↩︎
  40. Pledge of Allegiance in Schools: Do Students Have to Stand?, in www.freedomforum.org. ↩︎
  41. Per un’ampia trattazione, si rimanda a https://www.geopolisonline.it/prospettive-geopolitiche/viaggio-al-centro-dellamerica/. ↩︎
  42. Limes Rivista Italiana di Geopolitica, La crisi delle università degli Usa. Il caso Harvard/Gay e il declino degli Stati Uniti, 25 gennaio 2024, https://youtu.be/tmMsxkb60Z0?si=iT6AAxeeyzdreNYa; J. Zimmerman, Il suicidio dell’accademia, in Mal d’America, Limes, marzo 2023, pp.254, 255. Secondo Zimmerman, questi stessi programmi di inclusione non avrebbero neanche apportato diretti e tangibili benefici agli studenti che fanno parte delle varie minoranze etniche in quanto, tendenzialmente, sarebbero programmi applicati soltanto da università non frequentate da neri e latini. ↩︎
  43. G. C. Hlavac, S. R. Fegely, U.S. Supreme Court Strikes Down Affirmative Action in College Admissions: How the Decision Impacts Institutions of Higher Education, in www.naceweb.org, 6 settembre 2023. ↩︎
  44. J. Zimmerman, Il suicidio dell’accademia, cit., p. 256. ↩︎

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