Le relazioni tra le due Cine tornano ad alta tensione
Taiwan torna nel mirino cinese. Nella Grande Sala del Popolo di Pechino, Xi Jinping ha approfittato del 110° anniversario della Rivoluzione Xinhai per ribadire “l’obiettivo storico” di riunificazione di Taiwan alla Cina continentale, unilateralmente definita sua madre patria. A dare peso e sfumature più pragmatiche a queste considerazioni del presidente della Repubblica Popolare, si stagliano le questioni militari che da fine settembre, hanno fatto vibrare le antenne difensive di Taipei.
Le incursioni provocatrici degli ultimi mesi
Pechino infatti, già da inizio 2021, ha quasi raddoppiato il traffico di velivoli di controllo militare che viola la Air Defense Identification Zone (AIDZ), tanto da destare i timori del ministro della difesa taiwanese Chiu Kuo-cheng. Il membro dell’esecutivo dell’isola ha reagito affermando che l’incursione di oltre 150 caccia cinesi nello spazio difensivo taiwanese rappresenta “una delle più acute tensioni militari con la Cina da oltre 40 anni”, prima di richiamare l’attenzione sulle potenzialità di invasione entro il 2025.
Questa rapida escalation ha condotto, oltre ad un aumento nella corsa agli armamenti, alla redazione da parte di Pechino ad una lista di “irriducibili indipendentisti” taiwanesi, impedendo così anche al premier, al ministro degli esteri e al presidente del parlamento dell’isola di varcare i confini della Cina continentale. Mentre Taipei rivendica la propria indipendenza e l’assenza di legami politici con la Repubblica Popolare, non ha intenzione di fermarsi, quindi, la provocatoria direzione diplomatica di quest’ultima, il cui presidente intanto afferma convintamente che entro il 2049, anno del centenario della rivoluzione comunista di Mao, l’isola sarà in qualsiasi modo unificata al controllo continentale, sperando di non doverlo fare militarmente.
Una questione non così tanto interna
Nonostante la Cina ritenga l’intera vicenda una questione interna, emerge con sufficiente chiarezza il ruolo statunitense nell’apparente dialogo tra lo stretto di Taiwan. Interpretando l’isola di Formosa come baluardo a contenzione dell’espansione cinese nel Pacifico, gli USA e Biden stesso si sono dichiarati pronti a difendere Taiwan in ogni caso di aggressione, ricordando il Taiwan relations Act firmato dal presidente Carter nel 1979. In questa direzione, sono notevolmente incrementate le vendite di armamenti verso l’isola, come si sono rafforzati i legami di funzionari diplomatici. Queste nuove mosse hanno facilmente stimolato l’attenzione di Pechino, che ha minacciosamente intimidito la potenza a stelle e strisce per un eventuale “effetto dirompente” nei rapporti bilaterali. Inoltre, Taiwan non risulta essenziale solo per formare un muro ostruttivo assieme a Giappone e Filippine, ma è anche cardine di una rotta commerciale importantissima. Taiwan gioca infatti un ruolo considerevole nella produzione di semiconduttori, circuiti integrati e i loro componenti adibiti al processamento elettronico da cui dipendono piccole aziende e multinazionali come la sudcoreana Samsung.
Già a partire dagli anni ’70, fino alle ultime innovazioni del processo produttivo a tre nanometri dell’azienda Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) Taipei ha stimolato investimenti miliardari americani e giapponesi che tentano di tenerla fuori dall’orbita cinese, riuscendo a raggiungere anche il massimo storico di esportazioni (62,9 miliardi di dollari), di cui molte anche verso la Cina. Il ruolo di Taiwan nell’industria hi-tech è così sensibile che degli sconvolgimenti di questo equilibrio provocherebbero scosse anche per altri partner distanti, aumentando gli attori potenzialmente colpiti da un eventuale conflitto.
Il Dragone e Formosa
Pechino, dal canto suo, ha messo in campo diverse strategie per cercare di difendere la “linea dei nove tratti”, definita da Chiang Kai-shek nel 1936, prima della ritirata dei nazionalisti a Taiwan, quando la capitale della Repubblica di Cina era Nanchino, affacciata sul Mar Cinese Meridionale.
Un confine acquatico, quello in questione, sempre labile e oggetto delle tensioni per aggiudicarsi arcipelaghi o frontiere più favorevoli tra gli attori che vi si affacciano: Cina continentale, Taiwan, Vietnam, Brunei, Malesia e Filippine. La vera novità degli ultimi 15 anni è certamente la crescita della flotta cinese, che si concretizza in un impiego più disinvolto della Marina della Repubblica Popolare per dare seguito alle proprie rivendicazioni territoriali e allo stesso modo per accaparrarsi le isole più pescose: ne è un esempio la contesa con le Filippine scoppiata nel 2012 con l’invasione dell’atollo di Scarborough.
Di fronte a questa necessità di guadagnare maggiore respiro nell’area, gli Stati Uniti rispondono col coinvolgimento nelle operazioni di alcuni alleati (Canada, Australia, Regno Unito e Francia) proprio nello Stretto di Taiwan. Il governo cinese d’altronde si mostra sicuro e ritiene quest’ultimo un segnale di debolezza della potenza americana, ormai non più in grado di contenere da sola le aspirazioni della RPC.
Le frizioni tra le due Cine non sembrano allentarsi, e si inscrivono in un quadro di tensioni crescenti tra la sfera di Pechino e quella di Washington per il controllo di questo quadrante del Pacifico, senza che ciò sbocchi necessariamente in un conflitto aperto: è pungente a tal proposito l’aneddoto del colloquio tra Mao e Nixon nel 1972, durante cui il leader della RPC confessò al secondo di considerare una fortuna la presenza dei suoi antagonisti a Taiwan perché gli permettevano di concedersi lo sfizio di tirare qualche cannonata per ricordare loro di essere sotto il suo controllo.