Le turbolenti traiettorie degli Stati Uniti. Discesa nelle faglie americane. Come la situazione interna statunitense impatterà sulle scelte a Washington.
Il 5 novembre 2024 si terranno le elezioni negli Stati Uniti. Mettiamo però subito in chiaro una cosa: il Presidente americano non è l’uomo più potente al mondo. È sottoposto a numerose limitazioni, i così detti check and balances, che rendono il suo potere meno sconfinato di quello che spesso si pensa. Al Congresso, infatti, compete la vigilanza sull’operato del Presidente, il quale può essere destituito attraverso la procedura di impeachment. I giudici della Corte Suprema, poi, sono sì di nomina presidenziale, ma l’ultima parola spetta al Senato, il quale deve dare il proprio consenso alle proposte del Presidente. Di più. Questi sono limiti e strumenti di controllo del potere esecutivo di natura politica, ma non sono i soli.
Vi è infatti anche il così detto deep state, lo stato profondo, che comunemente viene associato a teorie del complotto le più varie. Tuttavia, al di là del nome evocativo, il deep state è reale ed esprime un’idea fondamentale: creare un apparato amministrativo statale ingente, slegato da nomine politiche. Non si tratta di una novità nell’organizzazione e nella limitazione del potere americano, ma è una concezione dello stesso che affonda le proprie radici oltre 150 anni fa.
Nel 1871, infatti, Carl Schurz – generale di origine tedesca, di quel ceppo germanico che poi occuperà sempre più spesso le stanze del potere – propose l’idea di creare un grande apparato amministrativo di nomina non politica[1]. L’intento era quello di impedire al Presidente di nominare tutti i funzionari secondo le proprie personali esigenze, cosa che fino ad allora era la norma. Il motivo principale era però di altra natura. In seguito alla Guerra Civile, le politiche adottate dai governi avevano assunto forma più complessa, e, di conseguenza, anche gli effetti sulla società e sui rapporti tra gli Stati Uniti e altri soggetti nel panorama internazionale erano prolungati nel tempo. Era pertanto necessario creare una struttura amministrativa permanente, stabile, suddivisa in una moltitudine di apparati, che non venisse completamente rimaneggiata per motivi politici ogni quattro o otto anni.
Gli Stati Uniti avrebbero dovuto avere un’ossatura statale che garantisse una visione e un’attuazione delle politiche sul lungo periodo. E così è stato. Con la conseguenza che, da allora, si sono moltiplicate le agenzie e gli apparati indipendenti dal, e limitanti il, potere esecutivo stesso, il quale, non di rado, si è trovato in netto contrasto con gli apparati.
Insomma, come si può vedere il Presidente degli Stati Uniti non è un regnante dal potere illimitato, tutt’altro. Tuttavia, forse mai come quest’anno, rispetto alle elezioni dei precedenti due decenni quelle del 5 novembre possono determinare un non irrilevante cambiamento nella postura e nelle traiettorie di Washington.
1. Una politica sempre più divisiva e violenta.
Un primo aspetto determinante per tratteggiare la possibile traiettoria che gli Stati Uniti assumeranno è analizzare la situazione interna. L’America è divisa. Meglio, la società americana non lo è mai stata così tanto, è attraversata da faglie profondissime. Qualche dato. Secondo un sondaggio del gennaio 2021 del prestigioso Pew Research Center, il 73% degli americani riteneva che repubblicani e democratici non potessero andare d’accordo non soltanto su questioni attinenti alla politica, ma anche su fatti basici, per nulla riguardanti la sfera politica. Invece, solo il 26% affermava che le due fazioni potessero concordare esclusivamente su questioni di base[2]. A settembre 2023, successivamente al drammatico punto di svolta dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 – in merito al quale, ad ulteriore conferma dell’antitetica visione della realtà tra democratici e repubblicani, solo il 18% di questi ultimi riteneva Trump responsabile – il Pew Research Center ha evidenziato che per oltre l’8% degli americani la parola che meglio definisce la politica americana è “divisiva”[3].
Questi presentati finora solo dati riguardanti la vita politica negli Stati Uniti, ma anche nel privato le divisioni sono sempre più profonde. Un esempio? Secondo un sondaggio del 2020 dell’Institute for family studies, i matrimoni tra democratici e repubblicani sono solo il 4% del totale. In picchiata rispetto al 30% registrato nel 2016 prima dell’elezione di Trump. Insomma, i due partiti, e di conseguenza i loro elettori, non riconoscono la legittimità dell’altro. E questo vale anche all’interno dei sostenitori di uno stesso partito, come dimostrano i due tentativi di omicidio cui è scampato Donald Trump solo negli ultimi due mesi e mezzo. Si è diffusa – e tra i repubblicani è anche messa in pratica – l’idea che chi è diverso da ciò che si ritiene giusto, pure se appartenente alla stessa collettività politica, possa essere fisicamente eliminato. In base ad uno studio sulla violenza politica e i rischi per le prossime elezioni pubblicato a giugno 2024 dall’Università di Chicago, il 6,9% degli americani – è facile intuirne la provenienza politica – afferma che è giustificato ricorrere alla violenza per riportare il Tycoon alla presidenza[4].
Anche tra i democratici il ricorso alla violenza non è da escludere. Secondo lo studio dell’Università di Chicago appena menzionato, infatti, il 10% degli americani – democratici, chiaramente – riterrebbe giustificato il ricorso alla forza per impedire a Trump di diventare presidente. Un pur contestato sondaggio rileva che il 13% dei democratici intervistati riterrebbe legittimo uccidere un avversario repubblicano.
Le fratture però non sono soltanto tra i due principali partiti, si allargano. Riguardano il sentimento religioso, il possesso di armi, l’aborto, le classi sociali – ricche ed istruite quelle urbane, democratiche; povere e poco istruite le società rurali, repubblicane – lo spostamento di molti americani da uno Stato all’altro per inserirsi in collettività riflettenti i propri valori, con la conseguenza che alcuni Stati diventano fortini in cui uno o l’altro partito vince con maggioranze bulgare[5].
Su una cosa però gli americani sembrano essere d’accordo: la crescente sfiducia in tutte le istituzioni. Come dimostra un sondaggio del 2022 dell’Istituto Gallup, tra tutte le istituzioni statunitensi colpite da questo galoppante senso di sfiducia, è impressionante il calo drastico (-15%) subito dalla Presidenza rispetto al solo anno precedente, il 2021. Nel dettaglio, i repubblicani che ripongono fiducia nella Presidenza sono passati dal 12% al 2%, a fronte dei democratici, nel cui caso, a dir la verità, il crollo è stato addirittura maggiore, dal 69% del 2021 al 51% del 2022.
Anche nei confronti delle forze armate, sebbene in ogni caso siano l’istituzione meglio considerata dalla popolazione, si assiste ad una flessione della fiducia riposta dagli americani. Rispetto al 2021 si è passati da un tasso di approvazione del 69% al 60% del 2023. Un decremento di nove punti percentuali, per un’istituzione nei cui confronti la popolazione ha sempre riposto granitica fiducia, è rilevante, e molto. Si assiste dunque ad un crescente distacco dalle forze armate, concepite dalla popolazione come corpo alieno (d’altronde sono sempre meno le famiglie ad esse legate, al 2022 solo il 12%) e soprattutto ritenute politicizzate. I democratici sostengono che le forze armate hanno al loro interno numerosi estremisti e fanatici nazionalisti, aggiungendo che sono un’istituzione poco inclusiva e in cui gli abusi sono all’ordine del giorno. Per i repubblicani, invece, i comandanti sono troppo progressisti, eccessivamente attenti all’inclusività, a scapito della prontezza in battaglia. In breve, per costoro anche l’esercito è woke[6].
Ma come si è arrivati a questo punto? Come è stato possibile che si sviluppassero concezioni della vita e del mondo, dunque della natura statunitense, a tal punto opposte? È una domanda di immane difficoltà a cui rispondere, ma proveremo a comprendere dove affonda le radici questa crisi della società americana.
2. Il Midwest e la classe media americana.
Il primo, imponente, fattore della crisi americana – a nostro modo di vedere il principale – è la tempesta che sconvolge da oltre trent’anni la classe media, quella middle class che costituiva la spina dorsale della società americana, espressione dell’american dream e dell’american way of life[7]. Per capire da dove origina questa condizione critica della classe media bisogna guardare al centro degli Stati Uniti, al loro cuore, al così detto Heartland: il Midwest. Anche considerando solo la superficie occupata, è una regione molto vasta: a Settentrione va dal Nord e Sud Dakota al Michigan, passando per Minnesota e Wisconsin, mentre più a Meridione comprende Nebraska, Iowa, Illinois, Indiana, Ohio, Kansas e Missouri. Ma l’importanza di questi territori non è nella loro estensione.
Durante la Guerra civile americana, i primi sette Stati per numero di uomini forniti alle armate unioniste provenivano del Midwest, come i loro leader politico-militari, tra cui spicca Lincoln. Tuttavia, gli Stati Medio-occidentali iniziarono ad assumere importanza determinante nella società americana a cavallo tra fine Ottocento e primi anni del Novecento. Si costruirono miniere di ferro e carbone, specialmente in Ohio, Indiana, Illinois, Wisconsin e Michigan, alle quali seguì la nascita di vastissimi stabilimenti dedicati all’industria pesante e di una efficiente rete di trasporti ferroviaria e fluviale.
I due presidenti Roosevelt definirono il Midwest «il cuore del vero sentimento americano» (Theodore) e «l’arsenale della democrazia» (Franklin Delano), e a ragione[8]. Le condizioni socioeconomiche della popolazione subirono un cambiamento radicale. Si passò da una collettività agricola, rurale, a città sempre più popolose, in cui la vita politica e culturale ferveva. Parallelamente alle industrie, crescevano esponenzialmente le famiglie, bianche, appartenenti alla middle class. L’industria pesante del Midwest e la sua numerosa popolazione furono poi determinanti durante la Seconda guerra mondiale, e, anzi, si può dire che senza di esse gli Stati Uniti difficilmente avrebbero vinto. Infatti, tra i sette Stati con il più alto numero di perdite tre erano Stati medio-occidentali.
Ancor di più del pur rilevante contributo umano, fu fondamentale l’industria pesante: a Detroit e provincia si producevano il 90% degli elmetti e il 25% di equipaggiamenti e veicoli in dotazione alle forze armate; in Michigan, in un solo impianto Chrysler si produceva la metà dei carri armati, mentre in un impianto Ford si terminava un bombardiere B-24 ogni ora. Nel 1950 negli Stati medio-occidentali si registrava il 43% di tutti i posti di lavoro negli Stati Uniti e vi era concentrato il 29% della popolazione americana. In definitiva: il Midwest era la macchina produttiva d’America[9].
Poi qualcosa si è gravemente inceppato. Le industrie della regione, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, sono state via via chiuse. A tal punto che il Midwest è da allora conosciuto come la Rust Belt, la cintura di ruggine, in cui la ruggine è rappresentata dalle acciaierie e delle industrie abbandonate, arrugginite appunto. La popolazione in età lavorativa ha iniziato a migrare verso altri Stati in cui poter trovare lavoro, mentre chi rimaneva era sempre più anziano. Sono decenni che è in corso un declino demografico che non sembra potersi fermare. L’esempio più lampante è Detroit. Città florida, vitale, culturalmente vivace fino agli anni ’60, che poi ha iniziato un lento e inesorabile declino, che l’ha portata alla situazione attuale: una metropoli spopolata, con una situazione economica drammatica, fino al fallimento del 2013, prima città nella storia americana a dichiararlo – negli ultimissimi anni Detroit sta lottando per riprendersi, ma la strada è ancora lunga.
Da recenti dati si apprende che negli ultimi dieci anni, tra le dieci città che hanno avuto maggiori cali di popolazione, la metà sono nel Midwest. Queste condizioni disastrose hanno provocato una crescita esponenzialmente dei tassi di criminalità e del consumo di sostanze stupefacenti. Osservando i dati al 2022 del Center for Desease and Control Prevention, tra gli Stati più colpiti da overdose mortali, in relazione alla popolazione, tra i primi posti figurano Ohio, Indiana e Missouri.
Non solo. Di fronte a Stati del Sud come Texas e Florida, che beneficiano enormemente di una migrazione interna, tra il 2020 e il 2022 il Midwest ha perso oltre mezzo milione di residenti, terzo soltanto dietro a California e Stato di New York. Con la differenza che in una regione già demograficamente depressa e martoriata da decenni come il Midwest, questi dati pesano ben di più. Come pesa il fatto che tra i 24 Stati in cui il saldo tra decessi e nascite è negativo, le peggiori rilevazioni provengono proprio dal Midwest, dove anche le iscrizioni alle università hanno registrato un calo drastico rispetto al resto del Paese, più del doppio della media nazionale. La classe media bianca, tendenzialmente di ceppo germanico, che si era stanziata nell’Heartland americano andando a costituire la cifra culturale di riferimento dell’America, che aveva vissuto l’american dream, che aveva beneficiato di un potente ascensore sociale, nel Midwest non esiste praticamente più.
Se, però, il Midwest è la regione in cui la situazione è più grave da decenni, la middle class americana è in crisi in tutti gli Stati Uniti. Guardando al solo dato economico e occupazionale degli Stati Uniti, un PIL che cresce quasi del 3%, ben oltre le attese, e un tasso di disoccupazione al 4,2%, verrebbe da chiedersi dove sia il problema. Ebbene, questa ricchezza è concentrata soltanto nel 20% della popolazione americana. Al 2022, per un uomo della classe media servivano 62 settimane lavorative per raggiungere un livello di vita medio, per una donna 75 settimane, ben più delle 52 settimane che compongono l’anno – nel 1985 erano sufficienti 40 settimane. Per quanto riguarda la crescita occupazionale, questa è concentrata principalmente nelle aree più benestanti, in cui è stato creato oltre il 60% dei posti di lavoro. Lavoro che, però, per la middle class è sempre meno stabile. Soltanto il 40% degli statunitensi, infatti, ha un impiego stabile; per i non laureati il dato scende al 30%[10].
Questa situazione, che, come visto, ha devastato in primis l’Heartland americano, il Midwest, ma ha colpito ovunque la classe media statunitense, è stata provocata principalmente da politiche neoliberiste, che si sono diffuse ampiamente a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso. In nome della globalizzazione, si è deciso di esternalizzare e delocalizzare la produzione, per perseguire due obiettivi principali. A livello interno, ottenere bassi prezzi al consumo. A livello esterno, lo scopo era, ed è (come è sempre stato per ogni impero, Roma compresa), rendere i propri satelliti – o alleati, che dir si voglia – economicamente dipendenti dalle esportazioni verso il centro[11]. A discapito della produzione industriale interna, si è pertanto favorita anche una sempre più marcata finanziarizzazione, che è andata sostanzialmente ad escludere, nella redistribuzione della ricchezza creata, la classe media americana.
Sia chiaro, in un Paese come gli Stati Uniti, meta universale di immigrazione, le disuguaglianze sono sempre una delle cifre identificative della società, ma non sono mai state così marcate come oggi.
La conseguenza di tutto ciò è che la middle class americana si percepisce estromessa dalla società e dalla traiettoria statunitense. Si sente impotente, assediata, incapace di realizzare quel sogno americano, di raggiungere l’american way of life, centrale nella presentazione degli Stati Uniti come nazione civilizzatrice della società umana intera. Di più. La diminuzione dei bianchi wasp, che compongono la gran parte della depressa classe media, acuisce il declino della middle class, e la sua ancor più importante percezione da parte delle persone colpite. Tra il 2010 e il 2020, per la prima volta nella storia, è stata registrata una diminuzione della popolazione bianca di oltre cinque milioni di persone. Rispetto al 1990, la popolazione bianca è passata dal 76% all’attuale 57. Tutta la crescita demografica registrata in questi decenni, dunque, ha riguardato esclusivamente gruppi etnici non bianchi, acuendo la sensazione di assedio.
La sfiducia nelle istituzioni statali, dunque, da parte di questi ampi segmenti della popolazione bianca, crolla. Allo stesso tempo muta radicalmente l’idea di America: crisi identitaria, ossia, per la potenza numero uno, inevitabile crisi strategica.
3. La crisi esterna nella percezione degli americani.
La narrazione di Paese eletto, con forti echi messianici, alfiere delle libertà, scricchiola sempre di più – se non è già morta – tra gli ampi strati della classe media americana. Il senso di eccezionalismo è infatti in diminuzione[12]. Secondo un sondaggio del 2021 del Pew Research Center, il 52% degli americani afferma che gli Stati Uniti sono solo uno tra i grandi Paesi del mondo, mentre soltanto per il 23 % degli statunitensi l’America sarebbe la potenza Numero Uno. Secondo un altro 23%, invece, ed è il dato più grave, esisterebbero altri Paesi migliori degli Stati Uniti. Quest’ultimo elemento si fa ancora più preoccupante tra i giovani compresi tra i 18 e i 29 anni: per il 42% di loro, fino ad arrivare al 55% dei pari età democratici, vi sono altri Paesi più importanti rispetto all’America[13].
Questi dati, se visti dal punto di vista italiano o di altri Paesi, dicono poco. Anzi, molto probabilmente è normale per la quasi totalità della popolazione italiana pensare che ci siano Paesi migliori del nostro. Così non può essere nell’ottica di una superpotenza, imperiale di fatto. Da parte americana, infatti, non si leggerà mai alcun riferimento a sé stessi come impero, tutt’altro. La narrazione storica americana descrive gli Stati Uniti come nazione nata dalla vittoria sull’impero inglese e da allora in lotta contro le dominazioni imperiali per liberare i popoli e guidarli verso la libertà, «antimperialismo e anticolonialismo sono e restano pilastri della pedagogia nazionale»[14].
Tra i giovani democratici americani, le pulsioni antimperiali si sono rese ancor più evidenti in seguito al 7 ottobre 2023. Il rifiuto degli Stati Uniti come Paese protettore del così detto ordine internazionale basato sulle regole è deflagrato nelle proteste delle maggiori università del Paese e nelle manifestazioni di piazza. Emblematiche sono state alcune immagini – non molte, ma cariche di simbolismo del sentimento che pervade una gran parte dei giovani democratici statunitensi – in cui, durante manifestazioni di solidarietà per il popolo palestinese, sono state calpestate, strappate e bruciate bandiere a stelle e strisce. Il ruolo di “poliziotto del mondo”, alfiere delle libertà universali, è in profonda discussione, specialmente, appunto, tra quella che sarà la futura classe dirigente americana. In quest’ottica, gioca un ruolo importante il senso di colpa per le ingiustizie compiute nel mondo. Lo sguardo statunitense si deve concentrare sull’interno, sulla risoluzione delle disuguaglianze, sulla tutela dei diritti, delle etnie e delle minoranze, sul benessere e sulla concordia sociale interni. Si dovrebbe prendere l’uscita per il post-storicismo, rifiutare la propria traiettoria imperiale.
Ancora qualche dato da uno studio pubblicato dal Pew Research Center ad agosto 2024 per esemplificare la situazione. Ben il 45% dei giovani adulti democratici – della fascia 18-34 anni – afferma che sarebbe accettabile la presenza di un’altra superpotenza militare di pari livello rispetto a Washington. Sempre nella stessa fascia di età, il 77% dei giovani democratici americani sostiene che gli Stati Uniti dovrebbe prendere in considerazione gli interessi dei propri alleati anche se sono in contrasto con quelli americani. Infine, soltanto il 46% dei giovani americani democratici pensa che il mondo sia reso più sicuro dal dispiegamento delle forze armate americane. Una questione mette d’accordo giovani repubblicani e democratici, il ruolo attivo degli Stati Uniti negli affari internazionali: soltanto il 32% sostiene che sia importante o molto importante che l’America svolga un ruolo attivo nelle relazioni internazionali[15]. L’eccezionalismo americano, il ruolo guida degli Stati Uniti per il mondo, non è più elemento fondativo dell’America per i giovani statunitensi.
Proprio le forze armate sono una ulteriore faccia dello smarrimento americano, rappresentazione plastica di più crisi, interne e sul ruolo che gli Stati Uniti devono avere nel mondo. Nel 2023, Esercito, Marina e Aeronautica non hanno raggiunto gli obiettivi di reclutamento – il dato peggiore è dell’Esercito, -23% -, soltanto Marines e Space Force sono riusciti a soddisfare l’obiettivo minimo. La maggior parte delle nuove reclute – che, rispetto al 1980, sono il 58% in meno – proviene dagli Stati del Sud ed è di etnia ispanica. Negli ultimi cinque anni nessuno Stato del Midwest, l’heartland bianco, che prima era il bacino di reclutamento, ha raggiunto i valori minimi fissati dalla Forze Armate. Arruolarsi, infatti, a causa dei salari che non sono aumentati, non permette più di compiere l’ascesa verso la middle class. Dal punto di vista del benessere economico, l’arruolamento non è più attrattivo a tal punto che, «secondo una stima dell’American Enterprise Institute, un diciannovenne in California può guadagnare il 18% in più lavorando per McDonald’s piuttosto che vestendo l’uniforme»[16].
Per motivi chiaramente diversi, anche la volontà di una parte non irrilevante degli elettori repubblicani va sempre più verso l’introversione degli Stati Uniti. Meglio, tra quei repubblicani bianchi della middle class di cui sopra, che Trump ha saldamente compattato nello slogan Make America Great Again. Quel popolo MAGA che nel 2016 venne definito da Hillary Clinton «basket of deplorables» (la traduzione letterale non rende, pertanto lo si può intendere come “schiera di persone deplorabili”) e retrogrado, ha visto in Trump – che ha cavalcato la tempesta della depressione della classe media – il «supremo rappresentante di una narrazione di redenzione nazionale»[17]. Recupero del vero nazionalismo americano, prima che iniziasse quello che nell’ottica di questa parte della popolazione americana è un vero e proprio assedio al proprio stile di vita, dall’interno.
Si deve perseguire la crescita economica interna e difendere quelli che sarebbero i valori fondativi dell’America, inquinati dalle politiche democratiche in tema economico, migratorio e internazionale. Non a caso, in merito all’importanza della partecipazione di Washington negli affari esteri, vi è uno scarto di ben dieci punti percentuali tra repubblicani e democratici, a vantaggio di questi ultimi (51% contro 61%). In una parola, anti universalismo.
Tuttavia, per quanto riguarda la garanzia della sicurezza internazionale attraverso le forze armate americane e l’accettazione di una potenza militare di pari livello, i repubblicani hanno posizioni nettamente divergenti rispetto ai democratici. L’81% afferma che il mondo, attraverso il dispiegamento delle forze armate statunitensi, sia un posto più sicuro, mentre soltanto per il 21% degli elettori repubblicani sarebbe accettabile la presenza di una potenza militare paragonabile a quella statunitense.
Questo quadro, però, non è definito e inesorabile. Certamente la popolazione americana, indipendentemente dal collocamento politico, sta attraverso questo momento che potremmo definire di introversione, di mancanza di volontà di sostenere lo sforzo per essere la potenza prima, di vera e propria stanchezza imperiale[18]. Ma Washington è spacciata? No, non siamo di fronte ad un irreversibile declino degli Stati Uniti. D’altronde, nella loro storia hanno attraversato numerose crisi gravi – dalla guerra civile, alla grande depressione del ’29, alla crisi socioeconomica degli anni ’70 – da cui però sono sempre usciti, «reinventandosi», riprendendo l’espressione di George Friedman. Per il celebre analista, infatti, la società americana è per sua natura sempre movimento, il reinventarsi continuamente è la sua cifra. Collanti della collettività statunitense, melting pot di tutte le etnie e culture mondiali, sono le possibilità che l’America e la sua società offre e le forze armate. La permanenza di questi due pilastri a rendere possibile l’alternanza dei cicli crisi-reinvenzione[19].
Tuttavia, entrambi i cardini attraversano importanti difficoltà, e la sfida, tutta interna, sarà proteggerli dall’involuzione e riportarli al centro. Stabilizzatore del sistema, che salvaguarderebbe i sopramenzionati cardini della collettività americana, sarebbe l’apparato politico americano, e le ingenti risorse di cui dispone. Come visto in apertura, la sua strutturazione del sistema istituzionale americano in una moltitudine di apparati indipendenti dalla politica garantirebbe la sua (r)esistenza anche di fronte a crisi come quella attuale. Il condizionale però è d’obbligo, la battaglia principale per gli Stati Uniti è al loro interno, il collasso è una drammatica possibilità[20].
Abbiamo delineato il contesto relativo alle faglie prettamente interne che attraversano gli Stati Uniti e come colpiscono direttamente la percezione degli statunitensi dell’America nel mondo. Nel prossimo approfondimento, la lente si concentrerà sugli effettivi imperativi geostrategici di Washington, sui loro limiti e sui possibili effetti che potrebbero subire in seguito all’elezione di Kamala Harris o di Donald Trump.
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[20] G. Friedman, Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno, in Il bluff globale, Limes, aprile 2023, pp. 113 ss.
[18] L. Caracciolo, L’importanza di non essere globali, Editoriale, in Il bluff globale, Limes, aprile 2024, pp. 7 ss.; F. Petroni, Disincanto americano, cit., pp. 104 ss.; D. Fabbri, Sotto la pelle del mondo, cit., pp.19 ss.
[19] Usciremo più forti dalla tempesta, Conversazione con George Friedman, a cura di Caracciolo L., Petroni F., in America?, Limes, novembre 2022, pp.35 ss.
[17] T. Bonazzi, La frammentazione dell’identità americana, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, p. 229.
[16] G. Mariotto, Chi difenderà l’America depressa?, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, p. 135.
[15] H. Hartig, Views on America’s global role diverge widely by age and party, in www.pewresearch.org, 2 agosto 2024.
[14] L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Milano, Feltrinelli, 2022, p. 105.
[12] F. Petroni, Disincanto americano, in Il bluff globale, Limes, aprile 2023, pp. 103 ss.
[13] H. Hartig, Younger Americans still more likely than older adults to say there are other countries better than the U.S., in www.pewresearch.org, 16 dicembre 2021.
[11] D. Fabbri, Geopolitica umana, Gribaudo, Milano, 2023, pp. 181 ss.
[10] C. Griswold, Il fantasma della classe media rivuole il suo corpo, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, pp. 202, 203.
[9] G. Mariotto, Il Midwest ferito può spaccare gli States, cit., p. 86.
[8] G. Mariotto, Il Midwest ferito può spaccare gli States, in America?, Limes, novembre 2022, p. 86.
[7] Cfr. ex multis: G. Mariotto, Il Midwest ferito può spaccare gli States, in America?, Limes, novembre 2022, pp. 81 ss.; F. Maronta, La politica in America non funziona più, in Limes, novembre 2022, pp. 69 ss.; D. Fabbri, Sotto la pelle del mondo, Feltrinelli, Milano, 2024, pp. 19 ss.; L. Caracciolo, Lezione di Yoda, Editoriale, in America?, Limes, novembre 2022, pp. 7 ss.; Limes Rivista Italiana di Geopolitica, Trump-Harris, battaglia per il Midwest – Usa 2024, 8 agosto 2024, https://www.youtube.com/live/ZbfKaCL9dUk?si=J4TBCORTSB8n85Pd .
[6] G. Mariotto, Chi difenderà l’America depressa?, in Mal d’America, Limes, marzo 2024, p. 135.
[5] F. Petroni, Fiamme sulla collina: l’America in crisi assedia sé stessa, in America?, Limes, novembre 2022, p. 45.
[4] R.A. Pape, June 2024 Survey Report: Political Violence and the Election. Chicago Project on Security and Threats, in www.cpost.uchicago.edu , 13 luglio 2024.
[2] H. Hartig, Younger Americans still more likely than older adults to say there are other countries better than the U.S., in www.pewresearch.org, 16 dicembre 2021.
[3] Americans’ feelings about politics, polarization and the tone of political discourse, www.pewresearch.org, 19 settembre 2023.
[1] G. Friedman, The Deep State Is a Very Real Thing, www.huffpost.com, 16 marzo 2017.