La politica estera europea negli anni Novanta: il post Maastricht, le guerre balcaniche e il Trattato di Amsterdam
Se l’Unione europea diede l’impressione di aver replicato prontamente e in maniera compatta all’invasione irachena del Kuwait – come è stato scritto nel primo numero di questa rubrica, Dal Piano Schuman al Trattato di Maastricht. Un’introduzione storica sulla politica estera europea – non si poté dire lo stesso della reazione che ebbe di fronte al conflitto jugoslavo. Alla fine del 1992, infatti, la Germania procedette nel riconoscimento unilaterale di Slovenia e Croazia, “costringendo” di fatto i restanti paesi membri a seguire la medesima strada. La guerra nei Balcani rappresentò, a partire da questo fatto, un chiarissimo esempio della limitata capacità operativa dell’Unione nell’ambito della politica di difesa e sicurezza comune. La neonata Unione europea tentò – fallendo –, per tutto il corso del primo anno del conflitto (1991), di raggiungere un accordo fra le parti affinché si arrivasse ad un cessate il fuoco. Solamente l’intervento americano permise la conclusione della guerra (almeno quella che fu la prima parte del conflitto), la quale si chiuse con gli Accordi di Dayton nel 19951.
La convocazione di una nuova Conferenza intergovernativa (Cig) per la riesamina del Trattato di Maastricht fu dovuto anche – oltre, ovviamente, alle riforme istituzionali in previsione dell’allargamento ai paesi dell’Europa dell’est – all’inefficienza che l’Unione dimostrò in ambito di politica estera e di sicurezza comune fra il 1991 e il 1995. L’impulso per la realizzazione di quello che fu poi il nuovo trattato avvenne tramite una Cig guidata dall’allora Ministro degli affari europei spagnolo, Carlos Westendordp. L’ambito di riflessione riguardava alcuni importanti settori di valutazione e di revisione, soprattutto in relazione alle materie contenute nel secondo e terzo pilastro – Politica estera e sicurezza comune e Giustizia e affari interni –, le cui inefficienze istituzionali risultarono visibili alla luce del sole, in special modo dopo la débâcle europea nell’ex Jugoslavia. Il gruppo di riflessione che guidò la Cig, perciò, basò la propria manovra su tre obiettivi d’azione: incrementare l’importanza dell’Unione agli occhi dei suoi cittadini, aumentare l’efficienza del decisione making dell’apparato istituzionale e, in ultimo, porre l’Ue nella condizione di avere una voce propria e autorevole in tutte le questioni di politica estera e internazionale2. La Conferenza intergovernativa, che si aprì a Torino il 29 marzo 1996, portò, perciò, alla stipulazione del Trattato di Amsterdam, adottato dal Consiglio europeo nella capitale olandese del 1997 (16-17 giugno) ed entrato ufficialmente in vigore nel 1999.
Il Trattato di Amsterdam, come è stato scritto, cercò di portare avanti quel processo di istituzionalizzazione del difficile e ambiguo tema della politica estera, modificando sostanziali contenuti della Pesc (Politica estera e di sicurezza comune). La novità più eclatante fu l’introduzione, a partire dalla figura del Segretario generale del Consiglio, del ruolo dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. All’articolo J.8 del Trattato, che sanciva lo sviluppo di tale nuova figura politica, si aggiunse l’articolo J.16, il quale ne definiva il ruolo di assistente del Consiglio «nelle questioni rientranti nel campo della politica estera e di sicurezza comune, in particolare contribuendo alla formazione, preparazione e attuazione delle decisioni politiche». Il Consiglio, a cui spettava assicurare «l’unità, la coerenza e l’efficacia dell’azione dell’Unione3», restava il grande artefice della Pesc nel definire i «principi e gli orientamenti generali della politica estera […], comprese le questioni che [avevano] implicazioni in materia di difesa4». Affianco al Consiglio, all’Alto rappresentante e alla Presidenza dell’Unione in una sorta di «troika»5, anche la Commissione venne associata a tutte le questioni e materie concernenti la politica estera e la sicurezza comune6.
Un’ulteriore innovazione emersa dal Trattato di Amsterdam fu quella relativa al processo di votazione del Consiglio. Nonostante l’articolo J.13 ribadisse come «le decisioni […] [fossero] adottate dal Consiglio all’unanimità», il paragrafo successivo identificava due motivazioni in grado di giustificare una deliberazione a maggioranza qualificata, ovvero, quando il Consiglio «[adottava] azioni comuni, posizioni comuni o quando [adottava] decisioni sulla base di una strategia comune» oppure «quando [adottava] decisioni relative all’attuazione di un’azione comune o di una posizione comune». Tale importante novità – che avrebbe potuto portare più agevolmente all’adozione di azioni o provvedimenti che, invece, in ambito di politica estera risultano spesso complesse, se non impossibili, attuare – venne mitigata nel comma immediatamente successivo dalla possibilità per uno Stato membro di porre un “veto” a un’azione comune per «dichiarati e importanti motivi di politica nazionale7», richiedendo, in tal modo, di non votare a maggioranza qualificata, bensì procedendo tramite un voto all’unanimità. In materia di difesa il Trattato non integrava l’Unione europea occidentale (Ueo) all’interno dell’ordinamento giuridico e istituzionale dell’Unione, bensì si limitò nel descrivere come «l’Ueo [fosse] parte integrante dello sviluppo dell’Unione, alla quale [conferire] l’accesso ad una capacità operativa di difesa8». Il Trattato si esprimeva sempre in via ipotetica, usando il condizionale, quando trattava il tema di una politica di difesa comune. Venne ribadito, infatti, come l’Unione dovesse promuovere «stretti rapporti con l’Ueo, in vista di un’eventuale integrazione di quest’ultima [all’interno] dell’Ue9». Sempre nell’ambito della politica di difesa, oltre all’ulteriore riaffermazione del rapporto con l’Alleanza atlantica, venne introdotto un interessante spunto riguardante il tema di armi ed equipaggiamenti, per cui – sempre secondo l’art. J.7.1 – la «definizione progressiva di una politica di difesa comune sarà sostenuta, se gli Stati membri lo [riterranno] opportuno, dalla loro reciproca cooperazione nel settore degli armamenti» e la possibilità da parte dell’Ue di ottenere l’accesso alle capacità operative dell’Ueo nell’ambito delle «missioni umanitarie e di soccorso, [delle] attività di mantenimento della pace e [delle] missioni di combattimento nella gestione delle crisi, […] comprese le missioni tese al ristabilimento della pace10». In ultima analisi, venne definito il finanziamento rivolto alla Pesc – tema che non era stato approfondito nel precedente Trattato – il cui budget non copriva, tuttavia, le operazioni militari e di difesa e il controllo che, su tale finanziamento, avrebbe dovuto ricoprire l’azione del Parlamento europeo11.
Nonostante la potenziale rilevanza della creazione della figura dell’Alto rappresentante, i progressi presentati nel Trattato di Amsterdam furono salutati come modesti. L’ambiguità sul ruolo dell’Ueo nella politica di difesa e l’indeterminatezza sulla sua possibile integrazione a livello comunitario furono un chiaro esempio di ciò. La stessa conformazione dell’Alto rappresentante, frutto di un ampio e aspro dibattito fra gli Stati membri, si risolse con l’attribuzione di tale responsabilità ad una personalità non politica. La proposta francese di attribuire la carica di Alto rappresentante ad un’autorevole figura politica, in modo da attribuire al ruolo un imponente senso di leadership, fu invece, osteggiata dagli altri Stati membri. Sempre secondo l’idea di Parigi, l’Alto rappresentante avrebbe dovuto avere la capacità di formulare proposte politiche, operare tramite l’assistenza di un centro di analisi e pianificazione, avere un ruolo nella rappresentanza esterna dell’Unione, soprattutto nel momento di negoziazione con i paesi terzi. La proposta francese riscontrò – purtroppo, viene da dire oggi – la sfavorevole posizione sia della Commissione sia di alcuni Stati membri, specialmente i più piccoli. La prima, infatti, vedeva questa nuova figura come una possibile “minaccia” al suo ruolo nella politica estera dell’Unione, mentre i secondi temevano che tale istituzione sarebbe andata ad incrementare ulteriormente il ruolo del Consiglio, a discapito della Commissione, il quale era già percepito come l’istituzione dominata dai grandi Stati europei. L’Alto rappresentante, così immaginato dalla Francia, avrebbe permesso – agli occhi dei piccoli paesi – di pilotare le decisioni di politica estera in seno al Consiglio nelle direzioni predilette dai grandi Stati12. Il compromesso che emerse e che venne ufficializzato nel Trattato di Amsterdam smorzò le ambizioni iniziali di Parigi, creando quello che fu considerato come un semplice ruolo amministrativo burocratico di alto livello13.
Un forte incentivo nella direzione di una Europa coesa in chiave di sicurezza e di politica estera fu dato dal riaccendersi del conflitto balcanico, precisamente a causa della guerra in Kosovo. Quella che fu chiamata la «prima guerra europea della Nato14», infatti, non poté che gettare ancora una volta addosso all’Unione europea la frustrazione di non riuscire a controllare la stabilità dei propri confini. È sotto questa luce, perciò, che va analizzata la Dichiarazione congiunta di Saint-Malo, che seguì un incontro bilaterale franco-britannico (4 dicembre 1998). L’idea che ne emerse e che venne ripresa nel Consiglio europeo di Colonia nel giugno seguente fu quella di creare una Politica europea di sicurezza e difesa (Pesd) e la – più volte ipotizzata – annessione dell’Ueo all’interno dell’organismo comunitario. La Dichiarazione congiunta affermò la necessità per l’Europa di dover giocare un ruolo politico di primo piano sul palcoscenico internazionale, attraverso un’azione autonoma, sorretta da un apparato militare degno di nota e capace di rispondere in maniera indipendente alle crisi come quella nei Balcani15. A questo si aggiunse la necessità di dare una nuova rilevanza alla figura dell’Alto rappresentante all’interno della scala gerarchico-istituzionale dell’Unione. Gli Stati Uniti – che avevano posto all’Ue il problema di un maggior coinvolgimento dal punto di vista politico-militare sul proprio territorio, specialmente dopo la fine della Guerra fredda – non poterono che accettare questa autonomia europea, a patto che si evitasse, tramite l’adozione della Pesd, lo sdoppiamento tra quest’ultima e la Nato, la duplicazione dei rispettivi ruoli e la discriminazione nei confronti dei paesi non membri dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.
Il Consiglio di Helsinki – tenutosi solamente sei mesi dopo quello di Colonia – provvide all’avvio di un processo di concretizzazione delle autonome e indipendenti capacità organizzative europee in tema militare e di difesa. Sulla base degli orientamenti definiti a Colonia, infatti, nelle conclusioni della Presidenza vennero indicati obiettivi concreti da realizzare e le corrispondenti scadenze temporali, definiti come gli Helsinki Headline Goals, tra cui la capacità operativa «di schierare nell’arco di sessanta giorni e mantenere per almeno un anno forze militari fino a 50.000-60.000 uomini16» capaci di svolgere compiti umanitari e di soccorso, di mantenimento della pace e le incombenze delle forze combattenti nella gestione delle crisi.
Ad Helsinki, oltre allo sviluppo delle capacità di dispiegamento delle forze militari, il Consiglio produsse – sempre sulla base degli orientamenti emersi dall’incontro di Colonia – un innovativo assetto istituzionale in ambito Pesd. Vennero, infatti, introdotti un Commitato politico e di sicurezza permanente (Psc), composto da rappresentanti nazionali (ambasciatori) che avrebbero dovuto coordinare le singole politiche estere dei paesi membri, un Comitato europeo militare17 (Eumc), composto da rappresentanti militari e delle difesa, e uno Stato maggiore dell’Ue18 (Uems) che avrebbe rappresentato l’expertise richiesta in materia.
La struttura burocratico-istituzionale intorno alla politica estera europea esiste e funziona dagli anni Novanta. È giusto porre critiche sul perché la macchina politica europea non possa funzionare di pari passo alla sua controparte amministrativa ed è proprio questa una delle domande di ricerca che si pone come obiettivo questa rubrica. Affermare, invece, che una politica estera europea non esista può essere solo il frutto di ignoranza o mala fede politica. Nei prossimi numeri, attraverso le storie dei primi quattro Alto rappresentanti, verranno approfonditi i vizi e le virtù che hanno accompagnato la politica estera europea dal 1999 ai giorni nostri.
1Bindi F. e Angelescu I., The Foreing Policy of the European Union: Assessing’s Role in the World, Washington, Brookings Institute Press, 2012, pp. 29-30
2Ibidem, p. 32
3Art. J.3.3, Trattato sull’Unione europea
4Art. J.3.1, Trattato sull’Unione europea
5Bindi F. e Angelescu I., The Foreing Policy of the European Union: Assessing’s Role in the World, p. 33
6Art. J.8.4, Trattato sull’Unione europea
7Art. J.13.2, Trattato sull’Unione europea
8Art. J.7.1, Trattato sull’Unione europea
9Art. J.7.1, Trattato sull’Unione europea
10Art. J.7.2, Trattato sull’Unione europea
11Bindi e Angelescu, The Foreing Policy of the European Union: Assessing’s Role in the World, p. 33
12Zanon F., The High Representative for the CFSP and EU security culture: mediator or policy entrepreneur?, School of International Studies University of Trento, PhD Dissertation, 2012, p. 9
13Grevi M., Manca D. & Quille G., The EU Foreign Minister: Beyond Doublehatting in ‹‹International Spectator››, vol. 40, n. 1, 2005, p. 61; Buchet de Neuilly Y., L’irresistible ascension du Haut Représentant pour la Pesc: une solution institutionelle dans une pluralité d’espaces d’action européens, in ‹‹Politique Européenne››, n. 8, 2002, p. 26
14Olivi B. e Santaniello R., Storia dell’integrazione europea. Dalla Guerra fredda ai giorni nostri, Bologna, il Mulino, 2015, p. 267
15Rutten M., From Saint-Malo to Nice. European Defence: core documents, Parigi, European Union Institute for Security Studies, 2001, p. 8
16Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Helsinki, 10-11 dicembre 1999
17Il suo ruolo era quello di fornire consulenza e competenze militari al Psc in Paladini L., Il servizio europeo per l’azione esterna. Aspetti giuridici e prospettive di sviluppo, Bari, Caucci Editore, 2017, p. 39
18L’Uems ha compiti di consulenza e sostegno in ambito militare, in particolar modo nell’esecuzione delle missioni di pace in Paladini L., Il servizio europeo per l’azione esterna. Aspetti giuridici e prospettive di sviluppo, p. 39