Intervista a Stefano Graziosi
Venerdì 31 maggio, Geopolis ha avuto il piacere di presentare alla Mediateca Giuseppe Guglielmi il libro “Joe Biden. Tutti i guai del presidente” e di analizzare la situazione politica americana con l’autore, Stefano Graziosi, giornalista per la Verità e Panorama, oltre che collaboratore della Heritage Foundation.
Dal nostro ultimo incontro sembra passato un lasso di tempo molto più ampio di quello realmente intercorso, contraddistinto da avvenimenti che, in misura più o meno maggiore, hanno influenzato e influenzeranno il corso della campagna presidenziale statunitense: il dibattito televisivo del 27 giugno tra Biden e Trump, il tentato omicidio ai danni di quest’ultimo, la Convention del Partito repubblicano, l’uscita di scena del Presidente dalla corsa alla Casa bianca e l’ingresso in scena di Kamala Harris come paladina democratica verso le elezioni di novembre.
Iniziamo con ordine. Il dibattito televisivo del 27 giugno ha solamente mostrato a una platea più ampia una situazione che sarebbe stata comunque inevitabile? Oppure, se Biden fosse stato in grado di tenere banco in modo migliore sarebbe ancora lui in corsa per la presidenza?
Io sono rimasto molto perplesso da un fatto e cioè che a chiedere il dibattito del 27 giugno sia stata in prima battuta la campagna di Biden. Quello che non comprendo, quindi, è il motivo che ha spinto l’entourage di Biden a sottoporre il Presidente a questo tipo di sforzo: stiamo infatti parlando di una persona che aveva già dato segnali preoccupanti dal punto di vista delle condizioni psicofisiche nel 2020, problematiche che erano a loro volta peggiorate da aprile 2022. O si è quindi trattato di un errore di strategia elettorale oppure questa stranezza va associata al fatto che le pressioni, dietro le quinte, per silurare Biden erano iniziate almeno nel giugno del 2023 ed erano state portate avanti principalmente proprio dall’entourage di Barack Obama, a partire dal suo ex senior advisor, David Axelrod. Quest’ultimo, in particolare, ha cominciato a sparare a palle incatenate contro Biden l’anno scorso, per poi aumentare le sue critiche dopo il dibattito di giugno. Quel confronto televisivo ha d’altronde fatto venire in superficie una situazione strutturale che in buona sostanza conoscevano tutti all’interno del partito. Quello che è avvenuto è stato un braccio di ferro sotterraneo, inconfessato e inconfessabile, tra l’establishment dell’asinello (soprattutto Obama) e la famiglia del Presidente: famiglia che, alla fine, ha dovuto cedere. Io credo, tuttavia, che il turning point sia stato la il tentativo di assassinio di Donald Trump, perché dopo l’attentato, di fatto, la candidatura di Biden è essenzialmente crollata. Un altro tema molto interessante da approfondire riguarda il processo assai opaco con cui il Presidente è stato silurato e sostituito. E’ vero che nessun presidente rieleggibile si è mai ritirato a questa altezza dell’anno elettorale (Johnson annunciò il suo passo indietro in marzo, non a luglio). Tuttavia il fatto che ci sia stata una successione meccanica, quasi dinastica, rappresenta un grosso nodo dal punto di vista della bontà del processo di scelta democratico.
Come valuti la candidatura di Kamala Harris? Una sua presidenza in cosa si discosterebbe, nei punti salienti, da quella del suo predecessore?
Kamala Harris come Vicepresidente è stata totalmente impalpabile sia in politica interna che in politica estera. Al di là di quello che si può pensare sulle sue idee, inoltre, Harris è una politica che è abituata a quelli che in America sono chiamati i flip-flop, i voltafaccia. Per citare giusto un esempio, era contraria al fracking – tema abbastanza importante sotto il profilo dell’ambientalismo negli Stati Uniti – mentre ora lo sostiene. Quello che credo, quindi, è che Kamala Harris sia una candidata che parte svantaggiata, in un ruolo che nessun altro dentro il partito ha voluto, specialmente a tre mesi dal voto (penso soprattutto agli astri nascenti del Partito democratico come Gavin Newsom e Gretchen Whitmer, rispettivamente governatore della California e governatrice del Michigan). Sicuramente ha suscitato un certo entusiasmo in questa fase iniziale, riuscendo a raccogliere 310 milioni di dollari di fondi. Quindi non sto dicendo che non sia cambiato niente rispetto all’impopolarità di Biden. Tuttavia, secondo il sito 538 (https://abcnews.go.com/538), lei ha una popolarità come vicepresidente del 38-39%. Non stiamo parlando, perciò, di chissà quali cifre elevate. La strada della vicepresidente è in salita, inoltre, a causa del suo storico problema con il voto dei colletti blu del Michigan, del Wisconsin, della Pennsylvania e dell’Ohio. Harris è espressione, infatti, di una sinistra liberal-progressista che trova la sua base di consenso principalmente nei ceti urbani altolocati della California, del New England e dello stato di New York: realtà che parlano una lingua diversa da quella di un metalmeccanico del Michigan. Ha ereditato, poi, da Biden – ma non solo da lui – le spaccature profondissime che attraversano in questo momento il partito democratico americano, soprattutto quella tra filo-israeliani e filo-palestinesi. In queste ore, Harris sta valutando chi scegliere come suo candidato vicepresidente (running mate) e il nome più solido sarebbe quello del Governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro. Quest’ultimo potrebbe aiutarla a conquistare il voto dei colletti blu della Rust Belt. Eppure la sinistra filopalestinese sta esercitando pressioni sulla Harris affinché non lo scelga, in quanto si tratta di uno profilo graniticamente filo-israeliano. L’altro tema, già citato in precedenza, è quello del fracking: siamo sicuri che gli ambientalisti, che rappresentarono un pilastro della coalizione dem nel 2020, digeriranno la svolta di Harris a favore di questa controversa pratica? Io non la do elettoralmente per spacciata, sia chiaro, perché può ancora succedere di tutto e siamo in una situazione priva di precedenti. Parliamo però di una candidata che in questo momento deve, per forza di cose, rincorrere e questo clima di euforia, che è stato assai enfatizzato dai media negli ultimi giorni, secondo me, è molta panna montata.
Cambiamo prospettiva e punto di vista rispetto all’analisi sino a qui portata avanti. Quanto ha inciso e quanto potrà incidere nel proseguimento della campagna elettorale lo scampato pericolo per l’attentato di Trump?
Guarda, io ero negli Stati Uniti il giorno in cui gli hanno sparato, ero in viaggio da Detroit a Milwaukee per assistere alla Convention repubblicana. Ho assistito al primo discorso – il discorso di chiusura della Convention – che lui ha tenuto dopo l’attentato. Ho avuto modo di parlare con funzionari di partito, membri del suo stesso entourage, ma anche con attivisti e delegati. Io non ho mai visto una Convention in cui, oltre all’aspetto euforico, fosse così presente l’aspetto di commozione. Insomma, la sera in cui lui è entrato la prima volta dopo l’attentato è stata veramente qualcosa di forte. Poi, indipendentemente da come uno la possa pensare su di lui, da un punto di vista psicologico è stato qualcosa di assolutamente inedito. Vedere Trump commosso in pubblico non è una cosa da tutti i giorni. E poi c’è una convinzione. Sono andato anche a seguire la prayer breakfast, che era un evento collegato alla Convention a cui hanno partecipato JD Vance, lo speaker della Camera Mike Johnson e tanti altri del gotha del partito repubblicano. Trattandosi di un ambiente evangelico-cristiano, ovviamente, si faceva molto riferimento al tema del miracolo. È sorta, perciò, questa convinzione che dietro lo scampato pericolo ci potesse essere qualcosa di più grande. Da un punto di vista elettorale, se passa psicologicamente l’idea che lui si sia salvato grazie a un intervento divino, ciò potrebbe avere un forte impatto nella mobilitazione degli elettori più religiosi. Inoltre, credo che le immagini dell’attentato potrebbero mobilitare anche gli elettori indipendenti, soprattutto per quanto concerne la questione della leadership. Trump in quella circostanza, col volto insanguinato, sfidando la possibilità che ci potesse essere un secondo cecchino pronto a colpire, incitando la folla al triplice grido di fight – piaccia o non piaccia – ha dimostrato di avere una leadership fortissimo. Tutto ciò non credo che determinerà una vittoria certa per l’ex presidente, ci sono tanti fattori imponderabili e ancora diversi mesi di campagna elettorale da affrontare. Credo tuttavia che per la Harris non si prospetti una campagna facile.
Indubbiamente è stata un’immagine molto forte, che farà sicuramente parte della storia delle elezioni presidenziali statunitensi. Un’ultima domanda. Secondo te, per Trump il cambio di avversario nella corsa alla presidenza può essere un vantaggio o uno svantaggio?
Mentre mi trovavo alla Convention già se ne parlava, perché era nell’aria che Biden stesse per ritirarsi. Non percepivo, tuttavia, una grandissima attenzione da parte dei repubblicani lì presenti rispetto a quello che stava accadendo dall’altra parte dell’arena politica. Io credo che Harris non sia una candidata così forte. Trump avrebbe avuto più da temere da uno come Newsom, per esempio. Come detto prima, la vicepresidente è in difficoltà con i colletti blu della Rust Belt e con le spaccature interne al suo stesso partito. Finora è stata scaltra a barcamenarsi, adottando un atteggiamento cerchiobottista. Adesso, però, a partire dalla selezione del candidato Vicepresidente, dovrà prendere delle scelte abbastanza nette e questo, inevitabilmente, creerà ulteriori fratture all’interno della base elettorale dem.