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Etiopia: un accordo di pace nell’interesse strategico globale

A Pretoria un accordo di speranza

Ad inizio novembre a Pretoria, in Sudafrica, le parti coinvolte nel sanguinoso conflitto in Etiopia, il governo centrale di Addis Abeba e le forze tigrine del Tplf, hanno raggiunto un accordo di pace sotto l’egida dell’Unione Africana. Un accordo forse fragile che, però, dovrebbe nelle intenzioni sottoscritte portare all’immediata cessazione delle ostilità militari e alla possibilità di accesso alle terre devastate dalla guerra per rifornire la popolazione, allo strenuo dopo due anni di sanguinoso conflitto, degli aiuti umanitari. Un accordo di pace che giunge in occasione dell’anniversario dell’inizio della guerra cominciata con un violento attacco delle milizie tigrine del Tplf in una base del nord del Tigray ai danni dell’esercito federale.

Storia del conflitto

Gli ultimi due anni della guerra sono solo l’ultimo capitolo di una tensione per il potere fra le etnie dell’Etiopia e dei paesi confinanti, nonché delle super potenze globali che considerano il Corno d’Africa snodo fondamentale per il passaggio delle proprie merci. Concentrando l’attenzione solo sull’ultimo secolo, la guerra è nata dalla conflittualità fra il popolo tigrino delle regioni del nord e le etnie oromo ed amara dell’asse centro meridionale del paese. Decenni durante i quali l’alternanza dell’uno o dell’altro gruppo al potere ha comportato l’allontanamento dalle risorse nazionali delle etnie di opposta fazione.

Lo si è visto quando il fronte del Tigray ha abbattuto la dittatura etiope con l’aiuto storico e contestualizzante della caduta del muro di Berlino e della fine degli equilibri mondiali della guerra fredda negli anni novanta, come nella più recente salita al potere dell’attuale premier Abiy Amhed, rappresentante dei gruppi etnici oromo e ahmara. Una difficile convivenza ulteriormente aggravata dalle ingerenze dei paesi confinanti come l’Eritrea, il Sudan e la Somalia. In una zona di mondo dove i confini territoriali assumono valore solo negli occhi di chi ha diviso il continente africano col compasso colonialista, ma che presenta una realtà ben diversa, con gruppi e culture presenti in più paesi oltre il proprio d’appartenenza e dove le linee di confine sono marcate solo sulla carta.

Convivenze transfrontaliere spesso conflittuali ed alternanti. Come quello fra il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) etiope e il fronte di liberazione eritreo, protagonisti della comune lotta contro il Derg e i regimi dittatoriali, per poi ritrovarsi nemici nel corso degli ultimi 30 anni in cui entrambi sono saliti al potere e gli interessi hanno cominciato a collidere. La fine di una amicizia politica che è risultata, poi, essere determinante nella sconfitta del FPTL con il governo centrale recente, avendo avuto l’Eritrea un ruolo importante nella guerra nel confine settentrionale a ridosso del Sudan. Confine che consentì alle forze tigrine di vincere la guerra con il regime negli anni novanta e che al contrario lo ha, invece, isolato nell’ultimo anno di guerra, determinandone una posizione di debolezza, probabilmente propizia all’accordo raggiunto a Pretoria.

L’accordo di Pace fra Etiopia ed Eritrea del 2018

Il conflitto fra il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Fdg) del presidente eritreo Isaias Afewerki e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt) dell’ex primo ministro etiope Meles Zenawi aveva dato un valido pretesto ad entrambi i governi di confermarsi al potere e di mantenere un controllo autoritario dei propri paesi. L’accordo raggiunto dal primo ministro Abiy Amhed con l’establishment eritreo è stato mal digerito dall’Fltp, perché si intromette in una visione espansiva ed esistenziale del popolo tigrino, che ha sempre ambito a porzioni di territorio eritreo per garantirsi l’accesso al mare e ha influito sulla presa del potere stesso del vecchio governo, basato sullo stato di tensione permanente con l’Eritrea, che fino a quel momento gli aveva consentito di ricevere l’appoggio e ad una ristrutturazione della economia e del paese nell’interesse dei territori del nord, dove per anni sono rimasti schierati soldati di entrambi i fronti. Uno stato di tensione conveniente anche per il Fronte popolare eritreo, che gli ha consentito di sospendere la Costituzione e di imporre il servizio militare permanente.

Le prime tensioni fra L’Etiopia e l’Eritrea indipendenti risalgono a quando il governo eritreo introdusse la propria moneta nazionale Nafka in sostituzione del Birr etiope, fino a quel momento usato nell’interscambio commerciale. Questa decisione venne strumentalizzata dal Fplt da un lato per accusare la comunità internazionale di voler favorire l’Eritrea all’Etiopia nei delicati equilibri economici al ridosso del Mar Rosso sfruttando la leva valutaria per imporre condizioni di cambio alle merci etiopiche, dall’altro per ristrutturare l’amministrazione e l’economia nazionale in favore del nord, che divenne così centro strategico dell’industria e dei flussi logistici.

Ed ecco come la fine del conflitto fra questi due paesi in concomitanza con l’ascesa al potere delle etnie oromo e amara ha determinato l’indebolimento del fronte tigrino non solo nei centri di potere ma anche nella sua narrazione politica e nella ristrutturazione nazionale dell’Etiopia.

La ripresa del conflitto

Le ostilità scoppiate nel novembre 2020 hanno portato nel paese ulteriore dolore e distruzione. Il primo ministro Abiy Ahmed credeva di poter contenere l’offensiva tigrina al punto di promettere la fine della guerra in poco tempo. La realtà si è rivelata ben diversa, lo scenario ha dimostrato come entrambe le fazioni abbiano ottenuto successi e sconfitte, fino all’arrivo dei tigrini alle porte della capitale. Evento che ha preoccupato non poco gli osservatori internazionali, facendo temere la caduta dell’Etiopia, con le inevitabili conseguenze devastanti in tutto il Corno d’Africa. Nel marzo 2022 si era raggiunta una tregua, interrotta però in agosto, facendo andare in fumo i timidi tentativi di negoziazione con il Tplf.

Quando le armi hanno ricominciato a sparare, la guerra ha assunto i caratteri improntati sulla guerriglia armata, specialità del fronte tigrino, grazie alla quale riuscì a resistere agli attacchi del regime socialista. A questo punto del conflitto però il ricorso alla guerra asimmetrica è stato in qualche modo dovuto dopo le pesanti sconfitte il Tplf con la perdita di tre città del Tigray, fra cui il capoluogo Makallè.

Descrizione generica del conflitto

Come accennato, l’inizio della guerra recente fra le etnie tigrina, oromo e amara, è stata giustificata dal Tplf con il progressivo allontanamento del popolo tigrino dai centri di potere etiopi e dai suoi canali amministrativi con l’avvento del primo ministro Abiy. A questo non bisogna dimenticare di aggiungere le ingerenze dei paesi confinanti e della comunità internazionale e dal pesante ruolo che svolge il Corno d’Africa in questo angolo di mondo.

Nella strategia stessa del futuro dell’Etiopia vi è una netta divisione d’intenti e della sua visione ideologica. Da un lato il governo che desidera mantenere e rafforzare il ruolo centralista dello stato e dall’altro i combattenti tigrini, che vorrebbero invece uno stato federale con una forte indipendenza regionale, che possa consentire di fatto al nord di mantenere il ruolo di cui gode oggi nell’economia nazionale. Vocazione per altro non difficile considerata la vicinanza del Tigray al mar Rosso e ai suoi traffici di merci globali.

La convivenza stessa e gli accordi intrecciati fra gli oromo e gli amara in chiave antitigrina non sono privi di divisioni interne (una parte degli oromo appoggia la causa anticentralista) e la cui solidità non può essere scolpita sul marmo. Di fatti non è ancora chiusa la partita fra Addis Abeba e l’Esercito di liberazione Oromo (OLA/OLF-SHANE) che persegue la liberazione dell’Oromia, la cui terra è stata teatro di scontri con l’esercito centrale. Il suo appoggio è stato determinante nell’avanzata delle forze tigrine e la sua lotta con lo stato ha causato migliaia di morti e numerosi attacchi contro i civili nelle regioni di Benshagul/Gumuz e di Gambela.

Gli altri attori

I due Fronti di liberazione tigrino ed eritreo da stretti alleati nella guerra fredda sono diventati nemici una volta al potere. Fra le ragioni che hanno portato la rottura, c’è la guerra stessa del 1998, nata da una disputa di confine. L’Tplf mirava ad espandersi e ad annettere territori eritrei con una maggioranza di popolazione tigrina. Territori che gli amara non erano disposti a cedere, pur dovendo mantenere nel corso dei decenni un rapporto con la vicina Etiopia per i flussi mercantili dei due paesi che sfociano nel Mar Rosso. Gli amara hanno dovuto contenere i tigrini che hanno cercato di espandersi nell’ovest a prevalenza amara per ricongiungersi con il Sudan e per poter procacciare i rifornimenti persi al confine eritreo. Hanno accettato l’accordo di pace con non pochi malumori e vedremo col tempo se determinerà una dura messa alla prova dell’alleanza con l’etnia oromo. Anche il Sudan e l’Egitto osservano da vicino gli eventi, sperando in un indebolimento etiope nello scacchiere della regione.

Il nostro paese è presente a causa della lotta alla pirateria e con importanti investimenti nelle industrie tessili nel Tigray. Il Tplf è stato nostro alleato privilegiato finché sono stati al potere ed hanno favorito accordi industriali. Ad oggi cerchiamo di non prendere una posizione netta, ma l’Italia si è allineata all’appoggio dell’occidente al primo ministro Abey, consacrato con il riconoscimento del premio Nobel per l’accordo di pace con l’Eritrea. Appoggio testimoniato anche da un accordo militare siglato con l’attuale premier nel 2019.

La grave crisi umanitaria

Si spera che la fine della guerra porterà anche la fine delle sofferenze della popolazione civile. Una sofferenza non solo legata all’isolamento dai mezzi di sostentamento, ma dovuta agli attacchi deliberati contro i civili, a specifiche etnie e alle violenze sessuali. Alice Wairimu Nderitu, consigliera speciale del segretario delle Nazioni Unite, aveva denunciato non solo le condizioni allo stremo della popolazione, ma anche una vera e propria campagna di incitamento all’odio etnico. Una violenza atroce, dove l’avversario è descritto come un cancro da estirpare, la disumanizzazione alla base di ogni genocidio. Violenze che non hanno riguardato solo il nord ovest del Tigray per mano delle milizie di etnia amara, ma che ha coinvolto, fra i più noti, anche le regioni di Amhara e Afar.

Stando alle prime informazioni una parte degli aiuti umanitari e sanitari stanno arrivando come siglato nel trattato, tuttavia servirà molto tempo e molte risorse per superare quella che viene definita come la più dura crisi umanitaria degli ultimi anni. E’ stimato che più di 500 mila persone siano stati oggetto di violenze e, durante il conflitto, la popolazione è stata a lungo isolata dal mondo esterno senza accesso ad internet, in particolare quella tigrina. Si sono registrati anche numerosi attacchi agli ospedali. Altre stime narrano che ben 6 milioni fra uomini, donne e bambini del Tigray e 13 milioni di persone delle regioni di Ahmara e Afar necessitano di urgente aiuto.

Il nodo irrisolto eritreo

Come denunciato da “Focus Africa” tra i vari problemi ancora esistenti per l’attuazione del piano di pace firmato in Sudafrica vi è quello dell’esercito eritreo che ad oggi non ha abbandonato il suolo tigrino, ufficialmente per scopi difensivi. Nelle ultime settimane di ottobre sono state perpetrate violenze ai danni di civili di origine tigrina in Engela, mentre sarebbero ben tremila i civili uccisi dall’esercito eritreo nella zona di Shire. Continuano anche attacchi e saccheggi alle reliquie e ai manufatti, solo il 20 novembre è stato depredato materiale dell’impianto idrico di Egela e del St. Mary Hospital di Axum.

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