Il nuovo modo di concepire la politica estera europea
Uno degli obiettivi dichiarati nel Trattato di Lisbona era quello di assicurare «l’unità, l’efficienza e l’efficacia dell’azione dell’Unione[1]» nel campo della politica estera e di sicurezza comune. Come è stato scritto nei numeri precedenti, ciò si è difficilmente verificato nei due mandati di Javier Solana, che nonostante la rimarchevole personalità politica dovette affrontare la guerra in Iraq e la crisi che essa comportò, e nel quinquennio di Catherine Ashton, nel quale la politica estera passò in secondo piano rispetto alla politica economica. Hartmut Mayer[2] spiega molto dettagliatamente in cosa consista la coerenza in politica estera e i motivi per cui l’Unione europea ha faticato, sino ad oggi, a realizzarla. Secondo lo studioso di Oxford «una politica estera […] pienamente coerente […] consisterebbe in un’interazione trasparente e senza tensioni tra tutti gli agenti che contribuiscono alla formazione della politica estera dell’Ue a più livelli». Tutto ciò sarebbe realizzabile solamente attraverso il compimento di cinque sottogruppi di coerenza: verticale, orizzontale, strategica, narrativa ed esterna. Secondo Mayer, infatti, per ottenere un reale impegno unitario dovrebbero essere presenti un accordo fra stati membri e Unione sull’indirizzo della politica estera; un coordinamento fra i vari attori competenti; un’assenza di contraddizioni; una comune e coerente retorica sul lavoro dell’UE e, infine, l’idea di multilateralità, secondo la quale la politica estera e di sicurezza europea non possa più dipendere dai singoli interessi nazionali o dalla sola prospettiva continentale, bensì debba tenere conto delle relazioni con attori – politici e non – internazionali. Tale condizione non è stata – ancora – raggiunta, sempre secondo Mayer, a causa dell’eccessivamente esile processo di revisione istituzionale, attraverso il quale sono state intraprese progressivamente innovazioni sostanziose e apprezzabili, tuttavia, senza mai riuscire a combattere quello che è l’ingente tormento dell’Ue, ovvero la tensione interna fra Stati membri e istituzioni.
Seguendo il filone appena descritto è, perciò, pacifico annoverare il processo di «leaderization[3]» portato avanti da Federica Mogherini – succeditrice di Catherine Ashton – nel tentativo di accrescere il ruolo operativo dell’Alto rappresentante e di pubblicizzare il lavoro svolto nell’ambito della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) al maggior numero possibile di cittadini europei, cercando di limitare quella visione stereotipata, ma comune, di una Unione europea molto burocratizzata, elitaria e distante dalla popolazione.
La nomina di Mogherini, avvenuta nel 2014, non fu – esattamente come per quella di Catherine Ashton – priva di contestazioni. Alla politica italiana veniva contesta una scarsa preparazione ed esperienza in politica estera, essendo stata per poco più di un semestre ministro degli esteri nel governo Renzi (esperienza, ad ogni modo, superiore rispetto a quella di Ashton al momento della nomina) e, proprio in virtù di tale ruolo precedente, una pericolosa ambiguità nei confronti della Russia nel caso dell’annessione della Crimea[4]. Il mandato di Mogherini si è distanziato notevolmente da quello della sua predecessora principalmente per il ruolo assunto dalla Commissione e dagli stati membri. Se, come è stato scritto nel numero precedente, la politica estera, tra il 2008 e il 2011, riscontrò un minore interesse nelle varie agende politiche, il susseguirsi della crisi libica e siriana, la presidenza di Donald Trump[5] e l’evoluzione del terrorismo di matrice jihadista nel cuore dell’Europa hanno avuto il “merito” – se non l’obbligo – di far coinvolgere nuovamente gli Stati verso la realizzazione di una concreta politica estera europea. È da ricercare in queste motivazioni, dunque, la spiegazione della differente interpretazione del ruolo – a parte per le oggettive differenze caratteriali personalistiche – tra Ashton e Mogherini, soprattutto in materia di sicurezza e nel campo industriale della difesa[6]. Da questo punto di vista – oltre alla comune ideazione di una strategia europea per la politica estera – il quinquennio di Mogherini può essere paragonato più facilmente al mandato di Solana.
Al momento della nomina come nuovo Alto rappresentante per il quinquennio 2014-2019, Mogherini si trovò in eredità la produzione di una moderna strategia europea che andasse a sostituire quella di Solana, la quale, dopo oltre un decennio dall’adozione, risultava alquanto datata. L’iniziativa della realizzazione di tale nuovo disegno di politica internazionale era partita da un gruppo di ministri degli esteri, in risposta alla – in loro avviso – assenza di una accurata pianificazione promossa da Ashton, e, in virtù di ciò, il Consiglio europeo di Bruxelles affidò all’Alto rappresentate, perciò, nel dicembre del 2013 il compito di portare a compimento la revisione strategica della politica estera europea per gli anni a venire[7]. Questa, dunque, era l’opportunità ideale per Mogherini per attuare quella leaderization citata in precedenza. Attraverso la stesura della nuova strategia comune, perciò, oltre alla realizzazione di una coerente politica estera, l’obiettivo era quello di ampliare l’area di influenza e di leadership dell’Alto rappresentante all’interno delle istituzioni, soprattutto Consiglio e Commissione, che sono tra i titolari dell’azione esterna dell’Ue. La Commissione Barroso non aveva di certo aiutato lo sviluppo dell’autonomia operativa di Ashton, specialmente nella fase iniziale del suo mandato. Al contrario, il neopresidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, desiderava che Mogherini assumesse a pieno titolo il suo doppio ruolo (Alto rappresentante e Vicepresidente) per coordinare i differenti commissari preposti ai portafogli delle relazioni esterne[8]. Usufruendo del suo duplice ruolo e traslocando i propri uffici dal Servizio europeo di azione esterna (Seae) a quelli della Commissione, Mogherini cercò di amplificare la propria immagine all’esterno – verso i cittadini europei – e all’interno nei confronti di Commissione e Consiglio, tra i quali l’Alto rappresentante è sempre stato costretto a muoversi in maniera tortuosa a causa dell’ibridismo – tra la concezione sovranazionale della prima e quella intergovernativa del secondo – del proprio ruolo[9]. Avendo come obiettivo quello di attuare una strategia europea che avesse una connotazione globale – il nome fu, infatti, European Union Global Strategy (Uegs)[10] – dal punto di vista delle tematiche affrontate, Mogherini utilizzò abilmente il proprio ruolo all’interno della Commissione, coordinando il lavoro di tutte quelle Direzioni generali attinenti all’ azione esterna dell’Unione come, ad esempio, mobilità, trasporti, migrazione, energia, clima, ricerca, istruzione, crescita e occupazione[11]. I punti di discussione di maggiore interesse e problematici da affrontare furono, senz’altro, il tema russo, la difesa europea e la questione migratoria.
La situazione russa è da sempre (forse dai tempi di De Gaulle) per l’Unione europea una materia divisiva, soprattutto dopo la caduta del comunismo sovietico e, più recentemente, dopo l’annessione della Crimea. L’unica soluzione possibile, perciò, fu quella di adottare una misura blanda, che al contempo non soddisfacesse e non deludesse pienamente nessuno, mantenendo così una velata unità. Per quanto riguarda il secondo punto, la difesa, il dibattito tra gli stati riguardava il ruolo della Nato all’interno della Uegs. Da un lato, i membri europei della Nato non avrebbero accettato una sfida europea alla supremazia della difesa collettiva dell’organizzazione atlantica, mentre, dall’altro lato, i restanti stati membri – non appartenenti alla Nato – temevano per l’autonomia della propria sovranità statale in materia di difesa e sicurezza e, perciò, richiedevano rassicurazione su tale ambito all’Alto rappresentante. L’ultima area di interesse era quella della migrazione e risultò essere, per note ragioni, quella più controversa. La volontà principalmente dei paesi dell’est di non volersi occupare di tale questione, non ritenendolo un argomento utile all’analisi di una strategia di politica estera, si scontrava con l’idea di altri Stati membri (soprattutto quelli meridionali, maggiormente colpiti dalle ondate migratorie provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente) secondo cui questa era la sede corretta per affrontare tale diatriba. La strategia, mirando solo alla dimensione esterna dell’immigrazione, avrebbe creato l’immagine di un’Unione europea organizzata nel confinamento dei migranti al di fuori del proprio perimetro esterno[12].
La European Union Global Strategy era composta da quattro capitoli: la promozione degli interessi dei cittadini europei; i principi guida dell’azione esterna; le priorità che guidavano l’azione esterna e, infine, la prospettiva concreta su come la visione strategica potesse essere messa in pratica.
Nel primo capitolo, dunque, gli interessi fondamentali degli europei considerati maggiormente degni di nota erano la pace e la sicurezza, la prosperità, la democrazia e l’ordine globale basato su regole condivise. I principi cardine dell’azione esterna europea, invece, erano l’unità, l’impegno, la responsabilità e la partnership. Il terzo capitolo entrava più nel dettaglio e definiva le priorità dell’azione esterna attraverso differenti paragrafi divisi per aree geografiche o tematiche. Tra questi sottogruppi erano presenti, ad esempio, in primo luogo la sicurezza interna dell’Unione, a cui facevano riferimento la sicurezza e difesa (la quale alludeva al rapporto con la Nato e cercava di promuovere, senza andare a limitare le competenze di quest’ultima, una maggiore autonomia d’azione da parte dell’Ue), la lotta al terrorismo, la cyber security, la comunicazione strategica e la sicurezza energetica. In seconda battuta, alcune pagine erano dedicate al confine meridionale e orientale dell’Unione, nella quali venivano affrontati i temi della politica dell’allargamento, del vicinato e una più efficiente politica migratoria. Il terzo paragrafo analizzava l’approccio integrale alle crisi e ai conflitti che avrebbe dovuto adottare l’Ue e riguardava più nel dettaglio l’idea di pace preventiva, la stabilizzazione e sicurezza e il concetto di economia politica della pace. L’elemento successivo era l’ordine di cooperazione regionale che da un livello macro (la sicurezza dell’ordine europeo) passava a più livelli micro (un rapporto di pace e prosperità nel Mediterraneo, in Africa e nel Medio Oriente; un legame più stretto con l’altra sponda dell’Atlantico, una connessione con l’Asia e una cooperazione nell’Artico). Infine, l’ultimo punto prendeva in analisi le riforme, gli investimenti, l’allargamento l’implementazione, l’approfondimento, lo sviluppo e i partenariati volti alla regolazione della governance mondiale nel XXI secolo. L’ultimo capitolo – From Vision to Action – andava ad affrontare il tema della credibilità futura dell’Unione, indicando come il soft power – elemento cardine della politica europea – non fosse più sufficiente nel contesto internazionale dell’epoca.
Nonostante il serio e oneroso lavoro svolto per la sua redazione, la strategia si dovette scontrare con la Brexit, il tema più caldo all’interno del panorama europeo nell’estate del 2016. La Uegs venne presentata al Consiglio europeo di Bruxelles (28-29 giugno 2016) soltanto pochi giorni dopo il voto britannico (23 giugno) e il testo venne reso noto agli stati membri solamente il 25 giugno, non dando modo, quindi, di avviare un processo di esame e approvazione che in taluni casi necessitava di un dibattito parlamentare. Per tale motivo e per la ragionevole rilevanza mediatica che assunse la Brexit in quelle settimane, il Consiglio semplicemente «accolse con favore la presentazione[13]» della Global Strategy. L’Alto rappresentante e il suo staff avevano deciso, durante la stesura della strategia, che avrebbero rimandato la pubblicazione in caso di vittoria del leave al referendum britannico, in modo da evitare che la Uegs non ricevesse la copertura che tale lavoro avrebbe meritato. Nel giugno del 2016, tuttavia, questa promessa venne disattesa e, per non vanificare l’impegno preso e non ritardare la divulgazione, Mogherini decise comunque di presentare la strategia europea al Consiglio. Se da un lato era lampante pensare che la Brexit avrebbe oscurato notevolmente la diffusione della Uegs, dall’altro è altrettanto vero che non sarebbe stato possibile attendere la fine degli sviluppi del voto per poter presentare la strategia, visto che il dibattito sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue si è protratto ininterrottamente nel corso dei cinque anni successivi.
Malgrado le difficoltà elencate fino ad ora, la Uegs venne accolta positivamente e fin dall’estate del 2016 – poche settimane dopo la pubblicazione – il Seae iniziò ad ingegnarsi per la realizzazione di una tabella di marcia per l’attuazione e implementazione della strategia, andando ad elencare quali dovevano essere gli obiettivi di breve termine da raggiungere (da lì a un anno) e quelli con un orizzonte temporale più ampio. Tale roadmap venne presentata al Consiglio di Bratislava nel settembre 2016 e costituì la base di discussione per le conclusioni del Foreing affairs council (Fac) nel mese successivo. Durante il primo anno di attuazione della strategia, il Fac decise di privilegiare l’azione esterna dell’Unione su tematiche quali la migrazione, le minacce terroristiche e le varie forme di guerre ibride[14].
L’Uegs differiva dalla European Security Strategy, oltre per il contesto internazionale (visto che nel 2016 affermare che l’Europa non era mai stata «così prospera, così sicura e libera» sarebbe stato risolutamente inattendibile), per il fatto di essere una strategia costruita sulla base delle innovazioni emerse dal Trattato di Lisbona, la quale andava ad affrontare il tema della sicurezza e della difesa comune non più solamente attraverso l’ottica novecentesca dell’uso della forza e del potere politico-militare, bensì la sua azione esterna andava ad abbracciare alcuni aspetti della politica internazionale – il commercio, la cooperazione allo sviluppo, l’energia – che fino a quel momento avevano assunto un ruolo secondario in quel determinato ambito d’azione.
Dal 2016 in poi, con la pubblicazione della Strategia globale europea, la questione della difesa e della sicurezza dell’Ue ha riscontrato un notevole seguito. Oltre alla Uegs, infatti, negli ultimi anni sono state lanciate una serie di iniziative quali il Piano di attuazione per la sicurezza e la difesa, la Cooperazione strutturata permanente in materia di difesa (Pesco[15]) e la Revisione annuale coordinata sulla difesa (Card). A tutto ciò si aggiunse, nel 2019, il Fondo europeo per la difesa (Fes), approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio e che aveva come intento quello di finanziare – tramite il bilancio dell’Unione – la ricerca nel settore della difesa e dello sviluppo militare[16]. Tali iniziative, come ebbe modo di riferire l’allora Presidente della Commissione Juncker, rappresentavano un ulteriore passo vero una maggiore autonomia strategica europea e verso un ampliamento delle ambizioni degli stati membri delusi dalle esperienze libica, siriana e ucraina degli anni precedenti.
La figura dell’Alto rappresentante, nata dal Trattato di Amsterdam, ma aggiornata da quello di Lisbona, contraddistinse il discorso istituzionale europeo per la propria condizione di ibridismo. Come è stato possibile leggere, l’Europa ha avuto modo di evolversi notevolmente dal primo tentativo di istituzione della Comunità europea di difesa (Ced) negli anni Cinquanta. Spesso attraverso piccoli passi è riuscita a sviluppare una politica estera fatta non solo di convergenza militare e di sicurezza, bensì basata principalmente su mezzi di soft power come, ad esempio, il commercio internazionale. Lo smarcamento dagli Stati Uniti e dalla Nato è stato molto inferiore alle aspettative e, infatti, la difesa europea è ancora in larga parte dipendente dall’alleato americano, ma l’Ue ha progressivamente preso parte (più o meno efficientemente) alla risoluzione di crisi internazionali scoppiate dalla fine della Guerra fredda sino ai giorni nostri. La realizzazione di una politica estera unita, coerente e capace non è ancora definitivamente delineata, perché oltre alla difficile convivenza di ventisette possibili idee differenti in materia non è ancora stata risolta l’annosa questione di quale sia il numero di telefono da chiamare a Bruxelles per parlare di politica estera europea. Il primo passo, perciò, dovrebbe essere quello di arrivare a una chiara e univoca definizione dei ruoli tra Alto rappresentante, Commissione e Consiglio in modo tale da far approdare, nelle più rosee delle aspettative, l’Unione europea all’interno della ristretta cerchia di superpotenze mondiali.
[1] Art. 26.2, Trattato sull’Unione europea.
[2] Mayer H. (2013). The Challenge of Coherence and Consistency in EU Foreign Policy, in Telò M. & Ponjaert F. (a cura di). The EU’s Foreign Policy. What Kind of Power and Diplomatic Action?, Farnham, Ashgate,p. 107
[3] Aggestam L. & Hedling E. (2020). Leaderisation in foreign policy: performing of EU High Representative, in «European Security», vol. 29, n. 3, pp. 301-319, p. 303
[4] Tocci N. (2016). Framing the EU Global Strategy. A Stronger Europe in a Fragile World, Cham, Palgrave Studies in European Union Politics, p. 463; Aggestam L. & Hedling E. (2020), p. 308
[5] Trump ha più volte minacciato (solo verbalmente) i partner europei di abbandonare la guida della Nato se questi ultimi non avessero ampliato la propria spesa militare. Il quadriennio di Trump alla Casa Bianca avrebbe potuto rappresentare un buon presupposto – data il suo disinteresse per ogni sorta di questione europea – per l’ideazione di una concreta politica di difesa e sicurezza autonoma dell’Unione europea. Così non è stato e, con l’elezione del democratico ed atlantista Joe Biden, appare improbabile uno sviluppo simile nel breve periodo.
[6] Amadio Viceré M. G., Tercovich G. & Carta C. (2020). The post-Lisbon high representatives: an introduction, in ‹‹European Security››, vol. 29, n. 3, pp. 259-274, p. 269
[7] Consiglio europeo (2013). Conclusioni della Presidenza, Bruxelles, 19-20 dicembre, p. 4
[8] Juncker J-C. (2014). Mission letter to Federica Mogherini, High Representative of the Union for Foreign Policy and Security Policy/Vice-President of the European Commission. p. 1
[9] Aggestam L. & Hedling E. (2020). Leaderisation in foreign policy: performing of EU High Representative, in ‹‹European Security››, vol. 29, n. 3, pp. 301-319. pp. 309-310
[10] Il titolo completo era Shared vision, Common Action: A Stronger Europe. A Global European Strategy for the European Union’s And Security Policy. 62 Parlamento europeo (2016). On the EU in a Changing Global Environment – A More Connected, Contested and Complex World, Motion for a Resolution
[11] Tocci N. (2016), p. 464
[12] Ibidem, p. 469
[13] Ibidem, p. 89
[14] Morillas P. (2020). Autonomy in intergovernmentalism: the role of de novo bodies in external action during the making of the EU Global Strategy, in ‹‹Journal of European Integration››, vol. 42, n. 2, pp. 231-246, p. 239
[15] La creazione della PESCO era stata ideata durante il dibattito sul Trattato costituzionale europeo tra il 2003 e il 2004. L’idea – portata avanti da Francia e Germania, ma vista molto favorevolmente anche da Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio italiano – era quella di introdurre una cooperazione strutturata permanente in materia di difesa, avviando un processo simile a quello dell’Eurozona, dove un esiguo numero di stati potesse sviluppare e far progredire la cooperazione in determinati set-tori strategici in Howorth J. (2004). The European draft constitutional treaty and the future of the European defence initiative: a question of flexibility, in «European foreign affairs review», vol. 9, n. 4, pp. 483-508. p. 486.
[16] Commissione europea (2017). A European Defence Fund: € 5.5 bilion per year to boost Europe’s defence capabilities.