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Il caso macedone nell’azione dell’Alto rappresentante

Un esempio virtuoso di politica estera europea

Dopo aver analizzato i protagonisti della politica estera europea, nello specifico ruolo dell’Alto rappresentante nella sua breve storia, l’intento di questa rubrica è quello di cercare di raccontare, passando dalla teoria alla pratica, l’azione dell’Unione europea nella politica estera. Partiremo ancora una volta dalla storia, per poi soffermarci sempre più spesso nel racconto dell’attualità.

Il primo case study da cui è stato ritenuto corretto iniziare riguarda la crisi macedone all’alba del terzo millennio. All’inizio del 2001, infatti, la Macedonia visse al proprio interno un violento scontro armato tra la fazione albanese, minoritaria nel paese, e quella macedone, maggioritaria e predominante. La Repubblica di Macedonia aveva proclamato la propria indipendenza dalla Jugoslavia nel 1991 e da quel momento, come in molti altri stati balcanici nati in quel periodo, si svilupparono tensioni etniche al centro dei singoli paesi. All’interno della Macedonia, infatti, la minoranza etnica più rilevante era quella albanese e i primi dissidi, anche se non ancora violenti, si verificarono sin dalla nascita della repubblica, quando gli albanesi boicottarono il referendum sull’indipendenza[1]. Le contese interetniche rimasero circostanziate a livello politico fino al 2001 grazie all’abilità dei governanti macedoni di rappresentare tutti i partiti politici all’interno delle coalizioni di governo e dalla volontà della minoranza albanese di ottenere solamente un riconoscimento formale all’interno della costituzione, senza che ciò sfociasse in un’autonomia politica[2]. In virtù di tale pacifica coesistenza la Macedonia riuscì a non finire nel ciclone delle atrocità balcaniche degli anni Novanta anche se la guerra la colpì, altrettanto duramente, in maniera indiretta. Dal punto di vista economico, infatti, la Macedonia soffrì enormemente dall’embargo internazionale imposto alla Serbia, a cui prese parte per meglio integrarsi all’interno della comunità internazionale (anche se almeno a livello europeo la sua candidatura è sempre stata associata a quella delle altre comunità balcaniche). Dal punto di vista sociale, inoltre, l’ex repubblica socialista risentì dell’enorme afflusso migratorio di kossovari-albanesi che si verificò in seguito ai bombardamenti del 1999. Difronte a tali difficoltà l’emergere di un contesto conflittuale venne solamente rimandato di qualche anno e, infatti, nel 2001 anche la Macedonia vide al proprio interno gli scontri armati che contraddistinsero le diverse popolazioni che abitavano la penisola Balcanica.

A partire dal gennaio 2001 le violenze si svilupparono nella sezione occidentale dell’ex repubblica jugoslava, al confine con l’Albania, dove i contestatori politici radicalizzarono la propria azione, portando alla nascita dell’Esercito di liberazione nazionale (Nla). Inizialmente, l’azione dell’esercito albanese si basò principalmente sull’esecuzione di attacchi alle stazioni di polizia e agguati al personale di sicurezza macedone, ma presto si estese dalla zona occidentale a quella nord-orientale del paese, avvicinandosi all’area della capitale e colpendo i villaggi al confine con la Serbia. Il governo macedone rispose agli attacchi della minoranza armata albanese bombardando i villaggi occupati dall’Nla[3].

In quel particolare periodo storico l’area balcanica era presidiata dalla pressoché totalità della comunità internazionale. In seguito alle guerre nella ex Jugoslavia, che caratterizzarono il corso degli anni Novanta, infatti, le Nazioni Unite rappresentavano l’autorità amministrativa provvisoria in Kosovo, mentre alla Nato spettava la difesa del territorio e la sicurezza militare di quest’ultimo. A dispetto della presenza di organizzazioni internazionali storicamente più confacenti alla risoluzione di crisi internazionali e alla reticenza americana verso un ulteriore coinvolgimento nell’Europa centro-orientale, l’Unione europea si pose alla testa dell’azione della comunità internazionale per ovviare alla pericolosa escalation che il conflitto in Macedonia avrebbe potuto comportare.

L’azione europea fu determinante per la definizione della pace di Ocrida dell’agosto del 2001 e, se proprio non cancellò, rese meno amaro il ricordo della lentezza, fragilità e inconsistenza della condotta comune dell’Unione e dei suoi stati membri durante i conflitti nei Balcani nel decennio precedente. L’Ue aveva ripromesso a sé stessa e ai suoi partner internazionali che comportamenti e iniziative così inoperose avrebbero solamente rappresentato una tantum[4] e, infatti, l’azione europea in Macedonia fu considerata dai commentatori internazionali come uno dei più rilevanti apporti proposti dall’Alto rappresentante nella propria veste di tutore della politica estera europea[5].

L’importante ruolo svolto da Javier Solana (all’epoca Alto rappresentante) fu caratterizzato dalla reinterpretazione del proprio ruolo rispetto alle formalità specificate all’interno della burocrazia dei trattati. Solana, sin dal giorno della sua nomina, aveva costantemente rimarcato la necessità che l’Unione europea adottasse abilità e competenze in grado di «rispondere efficacemente agli eventi mondiali[6]» in piena autonomia. L’Ue, dunque, non poteva più limitare la propria azione e presenza nel contesto internazionale al campo dello scambio economico-commerciale, bensì avrebbe dovuto estendere la propria visione anche alla sfera più prettamente politica[7]. Per quanto riguardava la vicina Europa centro-orientale, Solana, inoltre, si era espresso a lungo riguardo all’esigenza di una «stabilità a lungo termine nei Balcani», per la prosperità non solo dell’area della ex Jugoslavia, bensì per la «sicurezza dell’Europa nel suo insieme[8]».

Solana, inizialmente, si occupò personalmente di garantire la rappresentanza dell’Unione europea sul territorio di crisi, comprendendo l’importanza per l’Ue di essere identificata dagli Stati ad essa confinanti come l’interlocutrice internazionale a cui rivolgersi in caso di necessità[9]. L’Alto rappresentante intervenne già poche settimane dopo lo scoppio delle ostilità, perciò nel febbraio del 2001, attraverso l’incremento del numero di osservatori europei presenti nella Valle del Preševo (l’area meridionale della Serbia che confina a sud con la Macedonia e a ovest con il Kosovo), al fine di attuare un monitoraggio dell’area di confine, ritenuta dal governo macedone come la porta d’accesso per i combattenti ribelli di etnia albanese. Il mese successivo, invece, cominciarono i primi dialoghi a livello politico fra le due fazioni in conflitto al fine di arrivare a una distensione delle animosità. Ad aprile, Solana intraprese un importante lavoro di coordinamento e collaborazione con la Nato, lavorando a stretto contatto con il suo Segretario generale, George Robertson[10], in modo da intensificare ulteriormente la presenza della comunità internazionale nella regione. Nel mese di giugno, nel momento più grave del conflitto, l’Alto rappresentante riuscì nell’opera di dissuasione del governo macedone, il quale aveva intenzione di dichiarare lo stato di guerra per porre fine unilateralmente alle violenze, decisione che avrebbe segnato indiscutibilmente l’epilogo di ogni sorta di trattativa politica con i ribelli dell’Nla. A seguito del susseguirsi della crisi la gestione della missione venne affidata al Rappresentante speciale dell’Unione europea François Léotard[11], la cui nomina fu fondamentale per la riuscita dell’accordo di pace. Prima del suo arrivo l’Ue non aveva mai preso in considerazione la possibilità di attuare un dialogo con l’Esercito di liberazione nazionale, differentemente dalla Nato, la quale, invece, adottò presto un approccio più aperto e distensivo. Nonostante la reticenza iniziale, inoltre, vi fu un graduale coinvolgimento degli Stati Uniti, i qua-li inviarono come loro rappresentante James Pardew[12], e un dispiegamento militare da parte della Nato su richiesta del governo macedone come garanzia per l’attuazione effettiva del disarmo dei ribelli e per l’avvio dei dialoghi di pace. Il lavoro congiunto di Léotard, Pardew e Pieter Feith – Rappresentante personale del Segretario generale della Nato – fu, perciò, determinante per la mediazione tra il governo centrale e i gruppi armati ribelli, per la definizione di riforme politiche e, infine, per il processo di pacificazione dell’area concluso, come detto, il 13 agosto 2001. Più nello specifico, l’accordo di pacificazione accoglieva le richieste di riconoscimento albanese all’interno della costituzione e un sostanziale miglioramento della condizione delle minoranze etniche. A ciò si aggiunse anche l’adozione dell’albanese come lingua ufficiale laddove tale etnia rappresentasse almeno un quinto della popolazione locale e, infine, venne adottato un sistema proporzionale di rappresentanza etnica all’interno della pubblica amministrazione e nel corpo di polizia[13].

La realizzazione di una politica comune in Macedonia fu senza dubbio frutto del fallimento europeo in Jugoslavia e a ciò va ricondotto il senso di mea culpa promosso dagli stati membri, i quali capirono nel 2001 come affinché una politica estera europea condivisa possa esistere e funzionare, l’azione dei membri interni debba guardare verso lo stesso orizzonte.


[1] Liotta P. H. & Jebb C. R. (2002). Cry, the Imagined Country: Legitimacy and the Fate of Macedonia, in ‹‹European Security››, vol. 11, n. 1, pp. 49-80, p. 57.

[2] Liotta P. H. & Jebb C. R. (2002). Macedonia: End of the Beginning or Beginning of the End?, in ‹‹Parameters››, vol. 32, n. 1,  pp. 96-111, p. 101.

[3] Zanon F. (2012). The High Representative for the CFSP and EU security culture: mediator or policy entrepreneur?, School of International Studies University of Trento, PhD Dissertation, pp. 84-85,

[4] In ricordo soprattutto delle atrocità avvenute nel cuore di un’Europa che ormai sembrava non avere più ricordo di cosa fosse la guerra, Solana identificava l’Ue come «una comunità costruita su un insieme di principi e un insieme di valori» e, pertanto, «[dovrebbe] essere intransigente quando questi valori e principi fondamentali sono minacciati» in Solana J. (2000). Adress to the European Policy Centre, Bruxelles, 17 maggio.

[5] Piana C. (2002). The EU’s Decision Making Process in the Common Foreign and Security Policy: the Case of the Former Yugoslav Republic of Macedonia, in «European Foreign Affairs Rewiew», vol. 7, pp. 209-226, p-. 216.

[6] Solana J. (2000c). Speech as Secretary General/High Representative of the European Union, Foreign Policy Association, New York 25 gennaio).

[7] Solana J. (2000). Speech as Secretary General/High Representative of the European Union at the Fernández Ordóñez Seminar, Madrid 14 gennaio.

[8] Solana J. (2000). Intervention in the UN Secretary Council Debate on the Balkans, New York, 23 giugno.

[9] Solana era riuscito a convincere i vertici europei che l’Alto rappresentante costituisse l’istituzione più adatta all’impersonificazione degli interessi dell’Ue nella regio-ne, in quanto avrebbe potuto garantire una costante presenza sul territorio, differente-mente da quanto avrebbe potuto fare la Presidenza di turno semestrale.

[10] George Robertson è stato segretario di stato per la difesa del Regno Unito e Segretario generale della Nato, incarico ereditato proprio da Javier Solana nel 1999

[11] François Léotard è stato più volte deputato e Presidente dell’Udf (Union pour la Democratie Française), ministro della cultura e ministro della difesa francese.

[12]James Pardew è stato un diplomatico americano, ufficiale militare e ambasciatore degli Stati Uniti in Bulgaria.

[13]Schneckener U. (2002). Developing and Applying EU Crisis Management. Test case Macedonia in ‹‹ECMI Working Paper››, Flensburg, European Centre for Minority Issues, p. 34.

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