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Il rimpianto libico

Il grande fallimento europeo davanti alla Primavera araba

La crisi libica rappresentò una delle più rilevanti conseguenze degli enormi sconvolgimenti politici causati dallo scoppio delle Primavere arabe tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. Il disfacimento politico e territoriale della Libia, in seguito alla caduta del Colonnello Muammar Gheddafi, simboleggiò la più grave crisi internazionale dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona e, quindi, il «battesimo del fuoco1» per determinare se, in base alle nuove disposizioni, l’Unione europea sarebbe stata in grado di «parlare con una voce più unita e potente nel mondo e [di] agire con più coesione e determinazione2». Da questo punto di vista, tuttavia, non si poté che riscontrarne un fallimento. Il processo di esautorazione delle potenze occidentali a danno di Gheddafi fu, infatti, possibile solo grazie al direttorio politico franco-britannico con il sostegno strategico-militare fornito dagli Stati Uniti e dalla Nato. Le deliberazioni espresse col Trattato di Lisbona hanno lasciato diverse lacune sul suo ruolo da ponte adottato dall’Alto rappresentante fra la cultura sovranazionale tipica della Commissione e quella intergovernativa del Consiglio. In virtù di ciò, dunque, da Lisbona emerse prepotentemente il Consiglio come nuovo attore protagonista delle dinamiche esterne dell’Unione e la stessa Pesc dovette abbracciare una visione strategica di tipo intergovernativo.

La Libia – dopo la rinuncia di Gheddafi alla realizzazione di un proprio arsenale nucleare – divenne un partner commerciale di rilievo con le maggiori potenze europee (Italia, Francia e Regno Unito). Per tale ragione, al momento dello scoppio delle prime insurrezioni popolari, solo la Germania si mostrò apertamente ed esplicitamente critica nei confronti dell’operato di Gheddafi, auspicando sanzioni economiche contro il governo del colonnello, senza, tuttavia, che ciò comportasse un intervento di carattere militare in Nord Africa. Le discordie interne all’Unione affiorarono prontamente una volta che fu chiaro alla comunità internazionale che un intervento in Libia – che fosse di tipo civile o militare – non fosse più prorogabile. Il Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy era incline a un’azione risoluta che portasse a un cambio di regi-me, così come fecero intendere Francia e Regno Unito, una volta abbandonata l’iniziale reticenza. Di parere opposto era, invece, l’Alto rappresentante Catherine Ashton, la quale avrebbe prediletto un approccio più distensivo, legato alle sanzioni economiche e alla diplomazia. Ashton manifestò il proprio consenso ad un intervento militare solo il 17 marzo 2011, quando l’azione bellica fu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tramite la risoluzione 1973, nella quale fu fatto esplicito riferimento alla necessità di «prendere tutte le misure necessarie […] per proteggere i civili1i3». Il Consiglio europeo straordinario dell’11 marzo riconobbe lo status di interlocutore politico al Transitional National Committee (Tnc) di Bengasi, di fatto delegittimando formalmente e ufficialmente il governo di Gheddafi, al quale furono chieste pubblicamente le dimissioni al fine di salvaguardare la tenuta del paese. Il giorno precedente, tuttavia, la Francia riconobbe unilateralmente il Tnc come l’unico rappresentante del popolo libico, annunciando anche lo scambio di ambasciatori. Ancora una volta un’azione monolaterale mossa da un singolo stato membro, oltre a creare forti tensioni interne, impedì lo sviluppo di una strategia comune europea4.
Le disarmonie iniziali furono tali che non fu mai presa in considerazione l’attuazione della Politica europea di sicurezza e difesa nemmeno per le operazioni di evacuazione e di messa in sicurezza dei cittadini europei presenti in Libia5, mansione di cui si impossessarono, invece, i membri dell’Ue, sotto il coordinamento dell’European Civil Protection and Humanitarian Aid Operations (Echo), la Direzione Generale della Commissione competente in materia.
Pochi giorni dopo il meeting emergenziale fra i capi di stato e di governo europei cominciarono i bombardamenti delle strutture militari libiche da parte delle forze aree francesi e britanniche in sostegno della ribellione al governo di Gheddafi. Parigi e Londra, tuttavia, non potevano garantire da soli la tenuta delle operazioni e, infatti, due settimane dopo l’avvio della campagna bellica il comando dell’azione passò alla Nato e al supporto logistico-strategico degli Stati Uniti, i quali fornirono circa l’80% dei rifornimenti, dell’intelligence e degli strumenti di sorveglianza necessari.

La Commissione rispose allo sfociare della crisi li-bica tramite la sua Direzione Generale Echo e attraverso due specifici strumenti d’urgenza: il meccanismo di protezione civile e l’assistenza umanitaria. Il primo strumento fu determinante nell’agevolare le operazioni consolari dei paesi membri, accomunando e identificando i mezzi di trasporto necessari per l’evacuazione dei civili europei. Per quanto riguarda il secondo strumento, in-vece, l’Unione europea si qualificò come l’entità di maggiore generosità sul suolo libico, fornendo più di 152 miliardi di euro al fine di garantire gli aiuti umanitari nelle aree di guerra.
A tutto ciò si aggiunse l’operazione Eufor Libia, approvata dal Consiglio il 1° aprile e costituita da dieci stati europei «a sostegno dell’assistenza umanitaria nella regione6». Al fine di portare a compimento tale proposito l’Eufor Libia poteva, inoltre, contribuire «ad assicurare la circolazione e l’evacuazione degli sfollati in condizioni di sicurezza» e a sostenere «con capacità specifiche le attività delle agenzie umanitarie7». Nonostante la considerevole struttura organizzativa introdotta dall’Unione per la realizzazione dell’operazione (anche dal punto di vista economico, visto che furono stanziati quasi otto milioni di euro), l’Eufor Libia apparve più come un gesto di carattere simbolico che una tangibile risposta alle risoluzioni 1970 e 1973 delle Nazioni Unite. L’Ue lavorò in maniera senza dubbio apprezzabile – oltre che in modo estremamente rapido – dal punto di vista degli aiuti umanitari, tuttavia, la propria iniziativa si concentrò essenzialmente su tale aspetto, rilevante ma non esclusivo nella risoluzione di una crisi internazionale.

La crisi libica ha mostrato molto chiaramente tutte le difficoltà dell’Unione nella definizione di un’azione estera allineata. Il punto focale riguardava l’allocazione delle risorse e il fatto che nemmeno le novità introdotte dal Trattato di Lisbona avessero dotato l’Ue delle capacità operative per qualificarsi almeno come una potenza militare regionale8. Bisogna, inoltre, tenere in considerazione la condizione economico-finanziaria dell’area euro emersa dalla crisi del 2008 e di come quest’ultima abbia influenzato sia l’agenda politica degli stati membri – più inclini alla salvaguardia delle proprie economie e dei rispettivi tessuti sociali – sia il taglio della spesa rivolta alla difesa da parte della maggior parte degli Stati membri. L’azione in Libia ha dimostrato anche quanto le risorse amministrative e diplomatiche a disposizione dell’Alto rappresentante fossero insufficienti per l’attuazione di una politica estera autonoma e di primo livello. Sebbene all’epoca dello scoppio delle Primavere arabe – all’inizio del 2011 – il Servizio europeo di azione esterna (Seae) non fosse ancora operativo, Ashton non fu in grado, come, invece, accadde in altre occasioni di riuscire ad ottenere consenso fra i capi di Stato e di governo al fine di attuare una coerente e univo-ca politica estera. Il secondo punto nevralgico della questione, invece, faceva riferimento al ruolo dei governi nazionali, i quali adottando singole politiche estere – ognuna in base ad una propria concezione individualistica e utilitaristi-ca – limitarono irrimediabilmente la costruzione di qualsiasi eventuale via europea per la risoluzione della crisi. A ciò fu strettamente connesso un’ulteriore difficoltà, ovvero quella legata al meccanismo istituzionale per dare origine a missioni Pesc o Pesd, secondo il quale è necessaria l’unanimità in sede di voto e, per cui, le numerose e differenti personalità politiche poterono facilmente bloccare ogni sorta di iniziativa. Il fulcro dell’azione politica e militare, nell’esempio libico, è stato tenuto saldamente dal Consiglio europeo, soprattutto, dal suo presidente e dai leader delle maggiori potenze (Francia e Gran Bretagna) che hanno vissuto, seppur per poche settimane, il ricordo novecentesco di un passato da potenze globali.

Alla luce del fallimento libico appare palese che, al fine di attuare una politica estera matura degna di un’organizzazione internazionale come quella dell’Unione europea – all’avanguardia su numerosi temi –, l’obiettivo debba essere quello di rivedere e limitare l’uso di una politica prettamente intergover-nativa, lasciando meno spazio alle gelosie statali e più margine di manovra all’azione delle istituzioni comunitarie.

1Brattberg E. (2011). Opportunities lost, opportunities seized: the Libya crisis as Europe’s perfect storm, European Policy Centre Policy Brief, giugno, p. 1

2Piris J. C. (2012). The Future of Europe: Towards a Two-speed EU?, Cambridge, Cambridge University Press, p.5

3Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (2011). Resolution 1973. S/RES/1973, adottata il 17 marzo, p. 3.

4Fabbrini S. (2014). The European Union and the Libyan crisis, in ‹‹International Politcs››, vol. 51, n. 2, pp. 177-195., p. 185

5Kempin R. & Von Odarza N. (2011). CSDP on the brink. The importance of bringing France and the United Kingdom back in, SWP Comments, German Insitute for International and Security Affairs, pp. 1-2

6Consiglio europeo (2011). Decisione 2011/210/PESC del Consiglio relativa all’operazione militare dell’Unione europea a sostegno di operazioni di assistenza umanitaria in risposta alla situazione di crisi in Libia (EUFOR Libia), del 1° aprile, art. 1.1

7Ivi, art. 1.2

8Fabbrini S. (2014). The European Union and the Libyan crisis, p. 189

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