La politica estera europea dal 1999 al 2008
«Sono convinto che il cammino che è stato intrapreso offra all’Unione l’opportunità di svolgere un ruolo di primo piano nel garantire che il mondo, nel suo insieme, sia un luogo più stabile, più sicuro e più prospero1». In questo modo il neo Alto rappresentante Javier Solana presentò le decisioni prese ad Helsinki – solamente la settimana precedente – in materia di politica estera comune all’Istituto di politica europea di Berlino (1999). Come è stato scritto nei due numeri precedenti (Dal Piano Schuman al Trattato di Maastricht e Alle origini dell’Alto rappresentante), la figura dell’Alto rappresentante emersa dal Trattato di Maastricht rappresentava un compromesso tra le diverse anime dell’Unione e sembrava più una figura burocratico-amministrativa piuttosto che una politica di ampio respiro. La nomina di Solana non fu, però, casuale. Il suo ruolo all’interno della Nato nella vicenda balcanica rappresentò un chiaro segnale lanciato dall’Unione europea sia all’esterno – ai propri partner internazionali, in primis gli Usa – sia al proprio interno. L’idea era quella per la quale ciò che era accaduto in Bosnia, prima, e in Kosovo, poi, non sarebbe dovuto e potuto più avvenire. Solana ebbe un ruolo fondamentale nei suoi dieci anni di mandato (1999-2008) e cercò di percorrere questa strada attraverso un processo di militarizzazione della politica estera europea, facendo riferimento maggiormente alle risorse del Consiglio, rispetto alla visione della Commissione, più vicina, invece, all’utilizzo di misure di tipo civile e non armate2. Grazie al suo passato all’interno dell’Alleanza atlantica fu più semplice per Solana insistere nella relazione fra Europa e Nato sul piano difensivo e di sicurezza. La creazione della Politica di sicurezza e difesa comune (Pesd) aveva, per forza di cose, rafforzato la necessità di stabilire un accordo fra Ue e Nato e a questo obiettivo si arrivò a partire dagli accordi di Berlino, già stipulati nel 1996, tra l’Unione europea occidentale e la stessa Nato. Nel quadro di una migliore cooperazione, trasparenza ed efficacia nella gestione delle crisi e nelle operazioni di peacebuilding e peacekeeping la progettazione di un partenariato fra le due istituzioni si rivelò fondamentale. A questo esito si arrivò nel 2003 con la stipulazione degli accordi Berlin Plus, sulla base delle conclusioni del vertice Nato di Washington del 1999, del Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000 e della dichiarazione congiunta Ue-Nato del 16 dicembre 2002. In base alla regolazione approvata con gli accordi di Berlino, perciò, vennero introdotte alcune disposizioni significative nell’ambito della gestione delle crisi. Per esempio, l’Unione europea poteva condurre in modo autonomo operazioni civili e militari avvalendosi o di un centro operativo di uno stato membro, oppure – nel caso lo ritenesse necessario – delle risorse e capacità della Nato, avendo la possibilità di richiedere a quest’ultima l’accesso alle sue strutture di pianificazione. Questi accordi avevano una duplice valenza agli occhi dell’Ue e dell’alleato americano. Erano contemporaneamente sia pragmatici, perché gli europei erano sprovvisti di equipaggiamenti e della logistica di base necessaria per condurre operazioni nell’ambito Pesd, sia simbolici, perché veniva istituzionalizzata formalmente la sostanziale interconnessione fra i due organismi3. Questi accordi crearono immediatamente un vivace sentimento di intraprendenza all’interno dell’Unione che – solamente tre anni dopo il Consiglio di Colonia che sanciva la nascita della Pesd, dopo quasi cinquant’anni di paralisi politica nell’ambito della difesa e sicurezza comune – intraprese la sua prima operazioni militare, prendendo in carico, nel gennaio 2003, l’operazione Nato Allied Harmony in Macedonia e dando vita all’operazione Concordia. A questa fece seguito, sempre nel 2003, il primo intervento militare europeo eseguito fuori dal continente – si trattava dell’operazione Artemis nella Repubblica Democratica del Congo –, condotta tramite l’utilizzo del quartier generale operativo francese. Questo importante passo avanti fatto dall’Ue nell’ambito della politica estera e di difesa non fu casuale. Come fu negli anni Cinquanta, col primo tentativo di istituzionalizzare la Comunità europea di difesa, l’impulso venne dagli Stati Uniti e dal contesto internazionale da esso dominato. Come è stato più volte ribadito, gli Usa avevano insistito, già nelle prime fasi della fine della Guerra fredda, affinché l’Europa si assumesse maggiori oneri e responsabilità per la propria difesa interna, specialmente dopo che – con la caduta dell’Urss – non era considerata più un teatro di scontro e di conquista politico-ideologica. Con lo scoppio della Guerra del Golfo e dei conflitti nei Balcani tale situazione si fece più evidente. Come avvenne con la Guerra di Corea, inoltre, nella quale gli Usa dovettero spostare un importante numero di truppe dalla Germania ovest, l’invasione americana dell’Afghanistan e il seguente intervento armato in Iraq costrinsero gli Usa a lasciare i territori occupati considerati di minore importanza strategica, in questo caso l’area dell’ex Jugoslavia. In questa ottica è da considerare, per esempio, l’intervento europeo Althea in Bosnia del 2004 che, su mandato delle Nazioni Unite, andò a sostituire la precedente operazione Nato Joint Force. Per tale ragione non fu casuale l’ordine cronologico degli eventi, dalla stipulazione degli accordi Berlin Plus alle prime operazioni militari a guida europea4. La base per l’adozione delle capacità operative era quella denominata Helsinki Headline Goal a cui si è fatto riferimento nell’ultimo numero. Se, da un lato, gli Usa videro favorevolmente l’autonomia operativa europea, dall’altro, rimasero senza dubbio delusi dalla spaccatura che l’intervento americano in Medio Oriente produsse all’interno dell’Unione (la Gran Bretagna si allineò dalla parte di Washington, mentre Francia e Germania si dichiararono fortemente contrarie).
Dal punto di vista meramente pratico-organizzativo l’Europa nella sua interezza non avrebbe potuto intraprendere un’azione di questa portata. In primo luogo, infatti, come emerse proprio dal Consiglio di Helsinki, le operazioni militari di difesa o sicurezza prevedevano un sistema di “cooperazione volontaria”; in secondo luogo, la Pesd non era uno strumento volto alla difesa militare del territorio degli Stati membri, bensì un dispositivo di gestione delle crisi, specialmente in contesti piccoli e limitati e non di larga scala; in ultimo, riprendendo l’idea di volontarietà del contributo, ciò si legava al fatto che la Pesd non aveva previsto la creazione di forze europee permanenti, né tanto meno un esercito vero e proprio dell’Unione europea. Contemporaneamente a tutto ciò, sul piano interno del funzionamento dell’Unione proseguiva lo sviluppo di modifica e adeguamento istituzionale. Nel 2003, infatti, entrò in vigore ufficialmente il Trattato di Nizza, presentato durante il Consiglio europeo del 7-11 dicembre 2000 e firmato nel febbraio successivo. Tale trattato, che aveva come compito quello di apportare modifiche al Trattato sull’Unione europea, non ebbe un grande risalto nell’ambito della materia di analisi di nostro interesse. Se si esclude, infatti, il riferimento al Comitato politico e di sicurezza, il cui compito sarebbe dovuto essere quello di controllare «la situazione internazionale nei settori che rientra[vano] nella politica estera e di sicurezza comune e [contribuire] a definire le politiche formulando pareri per il Consiglio [ed esercitare] il controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di gestione delle crisi5», le materie più controverse furono rinviate alle successive conferenze future.
Una delle più rilevanti conquiste del decennio di Solana fu, senza dubbio, la costruzione di un vero e proprio apparato amministrativo nell’ambito della politica estera e di sicurezza. Basti pensare che al momento della sua nomina, intorno alla figura dell’Alto rappresentante lavoravano sessanta funzionari, mentre al termine del suo mandato il numero era compreso fra seicento e settecento dipendenti. Fu di notevole importanza l’espansione di tale apparato anche perché esso costituì il punto di partenza per l’istituzione del futuro Servizio europeo di azione esterna6 (Seae), nato con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e di cui si tratterà più approfonditamente nel corso dei prossimi numeri di questa rubrica. Come è stato già scritto, la figura dell’Alto rappresentante emersa dal Trattato di Amsterdam non si poteva definire propriamente politica, visto che non si trattava di una posizione elettiva, tanto meno confermata dal Parlamento europeo. Secondo la definizione di Duke e Vanhoonacker7, invece, essendo l’Alto rappresentante nominato direttamente dal Consiglio europeo, quest’ultimo era da considerarsi una figura politica e non burocratico-amministrativa8. Ad ogni modo, in tale senso Solana impegnò molto i propri sforzi, per dare al ruolo che ricopriva la rilevanza che avrebbe meritato, sia all’interno delle istituzioni europee sia all’interno del sistema politico internazionale, visto l’esiguo numero di compiti assegnati al ruolo, di gran lunga inferiori ad un normale ministro degli esteri di un qualsiasi stato sovrano. Se l’Alto rappresentante non era considerato una figura politica, il suo dipartimento amministrativo – la Segreteria del Consiglio – non poteva definirsi un apparato burocratico tipicamente weberiano. L’organizzazione delle varie strutture dei vari uffici risultava abbastanza caotica e senza una vera gerarchia d’ordine. Accanto alla Direzione generale per le relazioni internazionali erano presenti differenti corpi burocratici, all’interno della Segreteria e sotto la autorità dell’Alto rappresentante. Lo Stato maggiore dell’Ue (Uems) e la sua variante civile, il Civilian Planning and Conduct Capability (Cpcp), per esempio, erano considerati formalmente due vere e proprie Direzioni generali, indipendenti dall’organigramma della Segreteria del Consiglio9.
Come è stato più volte ribadito, la figura dell’Alto rappresentante non era propriamente politica, tanto meno quella di un classico ministro degli esteri. Solana, perciò, utilizzò una parte rilevante del proprio mandato nel costruire una credibilità internazionale attorno alla figura che egli rappresentava. Per fare ciò, estromise dalla propria agenda ogni sorta di impegno burocratico, lasciando tali responsabilità a una cerchia di suoi uomini fidati e all’organizzazione amministrativa che si stava formando. Un primo passo fu quello di riuscire a non farsi conferire la presidenza permanente del Comitato di politica e sicurezza10, bensì a convincere gli Stati membri a optare per una rotazione nella presidenza. L’assenza da tale impegno – che l’avrebbe visto riunirsi due volte alla settimana con gli ambasciatori dei paesi membri – gli permise di procedere nella tessitura di relazioni con i grandi capi di Stato e di poter lavorare attivamente nei luoghi più caldi della politica internazionale dell’epoca come, ad esempio, in Medio Oriente, in Iran, nei Balcani, in Ucraina, Libano e Georgia. Un primo chiaro esempio della rilevanza che il ruolo dell’Alto rappresentante stava riscuotendo – e, quindi, del buon lavoro che Solana svolse in questo campo – fu evidente al summit di Sharm El Sheikh11 (17 ottobre 2000). Il fatto che Solana rappresentò l’Unione europea ad un evento di tale portata fu di grande impatto. Per di più, se si considera che la riunione vide la presenza di Bill Clinton, il Segretario generale dell’Onu Kofi Annan, il Presidente egiziano Hosni Mubarak e il Re di Giordania e che la presenza di Solana fu espressamente richiesta dallo stesso presidente statunitense. Come dimostrò la successiva Assemblea generale delle Nazioni Unite (novembre 2001), nella quale fu invitato l’Alto rappresentante al posto del Presidente belga in carica dell’Unione, le organizzazioni internazionali e gli Stati terzi più in generale prediligevano ormai la presenza di Solana, non tanto per la figura istituzionale che rappresentava, quanto per la personalità politica che incarnava e per il network di conoscenze possedute.
Per concludere l’analisi fin qui portata avanti è doveroso soffermarsi sull’elaborazione della European Security Strategy (Ess). Il contesto storico in cui si sviluppò la Ess era quello precedentemente descritto della guerra americana in Iraq. L’idea – partita da Francia, Germania e Regno Unito – era quella di ritrovare l’unità d’azione che il conflitto in Medio Oriente aveva fatto scemare. Per tale ragione, al summit dei ministri degli esteri di Katellorizo (2-3 maggio 2003) fu dato il mandato all’Alto rappresentante Solana di elaborare per il successivo Consiglio europeo una proposta europea che andasse in tale direzione. La strategia fu presentata solamente un mese dopo, al Consiglio di Salonicco (giugno 2003) e fu ampliata nel semestre successivo, fino all’adozione definitiva al Consiglio europeo di Bruxelles del 12 dicembre. Nei mesi che intercorsero fra i due summit europei lavorò, insieme agli Stati membri e alla Commissione, a una ridefinizione della strategia anche attraverso la discussione delle tematiche da affrontare nel testo in diverse conferenze di ricerca a Roma, Parigi e Stoccolma, sotto il coordinamento dell’Istituto europeo per gli studi di sicurezza12. È da sottolineare l’importante azione collaborativa fra tutte le parti in gioco – Stati e istituzioni – nelle fasi di elaborazione, scrittura e pubblicizzazione della strategia europea. Si trattava indubbiamente di una fase storico-politica differente rispetto a quella attuale. A livello europeo l’ambizione – una volta terminato il momento unipolare statunitense, tra la fine della Guerra fredda e i primi anni duemila – era quella di affermarsi sul palcoscenico politico internazionale con un ruolo non più da comprimario, bensì da protagonista.
Il testo presentato da Solana era strutturato in modo da presentare – oltre alla parte introduttiva e conclusiva – tre sezioni di analisi e intervento d’azione politica: minacce, obiettivi strategici e implicazioni politiche per l’Europa. Vennero indicate cinque macro-aeree di pericolo per l’Europa e il mondo più in generale: il terrorismo, la proliferazione della armi di distruzione di massa, i conflitti regionali, gli Stati falliti e il crimine organizzato. Il terrorismo, dopo i tragici avvenimenti dell’11 settembre, ritornò all’interno delle agende politiche dei paesi occidentali13, in maniera ancora più rilevante con i successivi attentati di Madrid (2004) e Londra (2005). Il tema della proliferazione era legato anch’esso a quello del terrorismo, nell’idea in cui il peggiore scenario possibile prevedesse l’acquisizione di questo tipo di armi da parte di bande armate. Per quanto riguarda il terzo punto – i conflitti regionali – si faceva riferimento alle aree calde dell’epoca, ovvero alla zona del Kashmir, la penisola coreana, il Medio Oriente e alle possibili implicazioni che potessero colpire l’Unione europea nell’ipotesi in cui si verificasse un’escalation di violenza. Gli Stati falliti presi in considerazione erano, invece, la Somalia, la Liberia e l’Afghanistan, indicati come luoghi di «corruzione, abuso di potere, istituzioni deboli e mancanza di responsabilità14». L’ultimo punto affrontato nella sezione riguardante le minacce per il benessere dell’Europa era il crimine organizzato – concetto legato a quello di Stato fallito, in quanto dove lo Stato è assente e non controlla (con la legge e con la forza) il territorio prosperano le organizzazioni criminali – vincolato al traffico di stupefacenti, la tratta di migranti ed esseri umani e il contrabbando illegale di armi all’interno dell’Unione. Il testo proseguiva con la definizione degli obiettivi strategici, all’interno dei quali vennero indicati tre sottogruppi: «affrontare le minacce, […] costruire la sicurezza nel vicinato [e] un ordine internazionale basato su un effettivo multilateralismo». La prima sezione mostrava i passi fatti dall’Unione fino a quel momento, rimarcando l’accento sull’idea per cui – in un mondo globalizzato – non esistano più minacce considerate prettamente locali, bensì situazioni interdipendenti e sul fatto che la soluzione a queste minacce non poteva più essere ricercata solamente all’interno di un contesto militare, ma richiedeva un insieme di strumenti (politici, civili economici). Per questo – come si evince dal testo – l’Unione doveva essere in grado di «agire prima che le crisi scoppiassero». La seconda e terza sezione erano collegate dal fatto che per implementare la sicurezza europea erano necessari il controllo dei propri confini tramite dialoghi costruttivi e partenariati economici e un più ampio rapporto con le differenti organizzazioni internazionali – Nato, Onu, Osce, Asean, Mercosur e l’Unione africana – e con gli Stati Uniti. Infine, la sezione riguardante le implicazioni politiche per l’Europa prevedeva che l’Ue si mostrasse più attiva nella misura in cui «[dovesse] supportare le Nazioni Unite nella risposta alle minacce verso la pace e la sicurezza internazionale […], nel rafforzare la cooperazione con l’Onu nell’assistere i paesi che emergono dai conflitti e nel rafforzare il suo sostegno nelle situazioni di gestione delle crisi a breve termine15». A questa indicazione si aggiungeva la necessità di un’Europa «più capace» – nella combinazione delle risorse istituzionali e dei membri – e «più coerente» secondo l’idea per la quale «gli sforzi diplomatici, lo sviluppo, il commercio e la politica ambientale dovrebbero seguire la stessa agenda» e come, ad esempio, «un migliore coordinamento tra l’azione esterna e la sezione Giustizia e affari interni fosse fondamentale nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata»16.
Il Consiglio europeo del dicembre 2003 che approvò il testo presentato da Solana richiese un’azione supplementare d’analisi e studio su quattro tematiche in particolare: un effettivo multilateralismo che avesse al centro il rapporto con l’Onu, il terrorismo, il Medio Oriente e la Bosnia Erzegovina. Per quanto riguarda il primo punto era stata adottata una comunicazione della Commissione in riferimento al rapporto di collaborazione e cooperazione con l’Onu già nel settembre del 2003 ed era stata emessa una dichiarazione congiunta sul tema della gestione delle crisi. Al Consiglio europeo del giugno successivo, inoltre, venne approvato il contributo militare dell’Unione nel contesto delle crisi internazionali e furono approvati i futuri impegni reciproci sul sostegno a un effettivo multilateralismo tramite i principali partner regionali. Il secondo punto – il terrorismo – venne implementato anche a causa degli attentati jihadisti che si verificarono sul suolo europeo. Venne sviluppato un programma antiterroristico che prevedeva un supporto ai paesi terzi colpiti da violenze terroristiche e la creazione di un organo di coordinamento presieduto da Gijs de Vries17 e posto sotto l’autorità dell’Alto rappresentante. Nonostante ciò, tuttavia, gli Stati membri posero diverse remore nel lasciare il coordinamento delle autorità civili nazionali in materia di antiterrorismo agli organi istituzionali europei18. Nell’ambito del Medio Oriente la politica europea seguì, senza rilevanti novità, quella fino a quel momento sviluppata negli incontri tenutosi con Russia, Usa e Onu. Nell’ultimo ambito di analisi, invece, il Consiglio europeo del giugno 2004 approvò un testo che sottolineava come l’obiettivo fosse dichiaratamente e irreversibilmente quello di porre la Bosnia sulla strada di una possibile affiliazione e ingresso nell’Unione19.
In sostanza, l’European Security Strategy fu un rilevante passo avanti promosso dall’Unione europea nell’arena internazionale. Accettando la nuova agenda sulla difesa e sicurezza promossa dagli Stati Uniti, l’Ue cercava di porsi sul medesimo piano della superpotenza nordamericana e in un momento storico in cui – dopo il collasso dell’Unione sovietica e la non ancora rilevante e ingombrante presenza cinese – vi era una penuria di grandi attori internazionali. Proprio in virtù di ciò, tuttavia, l’Ue – pur ritenendo imprescindibile l’alleanza con gli Usa – non accettò aprioristicamente ogni volontà statunitense, condannando prontamente il ricorso alla guerra preventiva e ad ogni sorta di iniziativa unilaterale che non prevedesse il benestare dell’Onu o una condivisione di prospettiva in ambito Nato. In questo modo voleva dire addio al ruolo di junior partner che aveva assunto dalla fine della Seconda guerra mondiale all’interno della coalizione occidentale.
1 Solana J. (1999). The Development of a Common European Security and Defence Policy – The integration Project of the Next Decade, Berlino, Conferenza all’Institut für Europaïsche Politik. , p. 2
2 Kurowska X. & Pawlak P. (2009). Introduction: The Politics of European Security Policies., in ‹‹Perspectives on European Politics and Society››, vol. 10, n. 4,, p. 483
3 Bindi F. & Angelescu I. (2012). The Foreign Policy of the European Union: Assessing’s Role in the World, Washington, Brookings Institution Press, p. 35
4 Ibidem, p. 35
5 Art. 25, Trattato di Nizza
6 Dijkstra H. (2011). Solana and his Civil Servants: An Overview of Political-Admnistrative Relations, in Mueller- Brandeck-Bocquet G. & Ruger C. (a cura di), The High Representative for the EU Foreign and Security Policy: Review and Prospects, Baden-Baden, NOMOS Verlag., p. 2
7 Duke S. & Vanhoonacker S. (2006). Administrative Governance of the CFSP: Theory and Practice, in ‹‹European Foreign Affairs Review››, vol. 11, p. 2, p. 164
8 I due autori definiscono un civil servant come «un attore non eletto e non direttamente nominato dal Consiglio europeo». In questo caso, essendo l’Alto rappresentante nominato dal Consiglio, non può essere considerato un civil servant, bensì una figura politica a tutti gli effetti in Duke e Vanhoonaker p. 164
9 Dijkstra H. (2011). Solana and his Civil Servants: An Overview of Political-Admnistrative Relations, p. 6
10 Ibidem, p. 8
11 L’incontro fu organizzato per cercare di imporre un cessate il fuoco ai Presidenti di Israele e Palestina – Ehud Barak e Yasser Arafat – i cui paesi avevano dato vita a cruenti scontri nelle settimane antecedenti.
12 Bailes A. J. K. (2005). The European Security Strategy. An evolutionary History, Solna, Ingeniörskopia, p. 11
13 Sebbene alcuni paesi europei, come Italia, Spagna e Germania, abbiano vissuto nella seconda metà del Novecento diversi episodi terroristici di stampo politico, l’emergere di questa violenza jihadista sovranazionale ha trovato totalmente impreparata la maggior parte delle democrazie occidentali.
14 Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (2003). A Secure Europe in a Better World: European Security Strategy, p. 31
15 Ivi, p. 40
16 Ivi, p. 42
17 Gijsbert de Vries è un politico olandese, coordinatore per l’antiterrorismo dell’Unione europea dal 2004 al 2007 e, successivamente della Corte dei conti europea dal 2011 al 2014.
18 De Vries G. (2008). The nexus betweeen EU crisi management and counter-terrorism, in Blockmans S. (a cura di), The European Union and Crisis Management, The Hague, TMC Asser Press, p. 360
19 Bailes A. J. K. (2005). TheEuropeanSecurity Strategy.An evolutionary History, p. 22