La giostra economica e propagandistica iraniana
Nella lista dei “Rouge states” ovvero “stati canaglia”, una lista che sanciva un conglomerato di stati “nemici” delle potenze occidentali, dopo l’introduzione della Siria di Hafez Al-Aassad (1979) e della Cuba castrista (1982), nel 1984 nella suddetta lista fu inserita uno stato in piena euforia sociale ed economica, l’Iran. Fin dalla creazione dell’ “asse del male” (altro nome per identificare gli stati canaglia) di Regan nel 1985 alla lotta al terrorismo di Bush dopo gli attacchi del 11 settembre, l’ Iran prima di Khomeini poi di Khamenei è diventato uno degli attori principali del Medio Oriente, posizionandosi e imponendosi anno dopo anno come hub economico e finanziario -dopo le operazioni del governo americane atte a sgominare i proventi illeciti di Al-Quaeda in Pakistan e Arabia Saudita- del terrorismo islamico, dunque diventando il principale nemico nella regione Medio Orientale, posizionandosi in modo irruente nella geopolitica mondiale come principale finanziatrice di molti gruppi terroristici, come Hamas nella striscia di Gaza o i miliziani Houti nello Yemen.
Proprio negli attacchi del 7 ottobre, nell’ operazione “Al-Aqsa flood”, l’Iran è stato una delle figure più importanti per quanto riguarda il finanziamento del gruppo terroristico palestinese, un “banchiere” che somministrava denaro nelle mani degli estremisti islamici, per far sì che l’ordine precostituito nelle democrazie imperialiste occidentali cada. Un ruolo che l’Iran ha ricoperto con scaltrezza e anonimato, sfruttando ogni attrezzo che l’economia creava per portare avanti la propria rete di “investimenti al terrorismo”.
Il ruolo dell’Iran: dal potenziamento militare all’ attacco diretto ad Israele
Il 1979 è l’anno della “rivoluzione islamica” conosciuta anche come rivoluzione iraniana, destituendo lo Scià Pahlavi in favore degli Ayatollah, prima Khomeini e poi Khamenei. Il 1979 non è solo l’anno della rivoluzione, quindi un cambio radicale nella guida dell’Iran e degli stati limitrofi, ma anche una delle sconfitte più grandi della storia diplomatica statunitense. Nel novembre dello stesso anno, visto la mancata estradizione da parte degli USA di Pahlavi: de ius per assicurare all’ ex Scià cure mediche, visto la condizione di salute precaria, de facto per mantenere potere d’ influenza in Medio Oriente, viste le frizioni con lo stato ebraico. Gli Stati Uniti negarono l’estradizione di Pahlavi in Iran, facendo infuriare gli Ayatollah e il popolo iraniano, scaturendo la breccia dell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran di centinaia di persone che presero in ostaggio 52 tra diplomatici e funzionari. Provo Carter a salvare gli ostaggi con l’operazione di recupero “Eagle Claw”, anch’ essa fallimentare, portando alla morte 8 soldati statunitensi, ma la questione la risolse Regan, nel 1981, con una fornitura d’ armi in cambio degli ostaggi.
L’ Iran ha avuto modo negli anni di svilupparsi: grazie all’ ex presidente, Rafsanjani che dal 1989 al 97’ ha indirizzato l’Iran verso una politica economica che mirava alla ristrutturazione delle infrastrutture cardine e all’apertura dei mercati, insomma una liberalizzazione su tutti i fronti. Oltre alla grande quantità di petrolio sul territorio, l’Iran punta molto sulla esportazione del rame, difatti è il terzo esportatore mondiale dietro Cile, Perù e Stati Uniti. Ma la più grande sfida della repubblica islamica è quella contro il nemico giurato di sempre: Israele. Secondo il “Military Balance 2023” del SIPRI, l’Iran surclassa Israele in quasi ogni campo, ma per (anche se di poca) quantità non qualità.
L’approccio militare iraniano si esplica attraverso due dimensioni: quella convenzionale e quella irregolare. Lo ricorda anche Christian Saunders, Senior Defense Intelligence Analyst della Defense Intelligence Agency statunitense, in un report pubblicato dal Pentagono. Sul versante convenzionale, la strategia militare iraniana si basa principalmente sulla deterrenza e sulla capacità di ritorsione nei confronti di un aggressore. Allo stesso tempo, l’Iran utilizza anche operazioni di guerra non convenzionale e una rete di partner e di milizie proxy per consentire a Teheran di avanzare i propri interessi nella regione e di raggiungere la profondità strategica.
Una suddivisione che si riflette anche nella struttura delle stesse forze armate iraniane, tra le più grandi del Medio Oriente (nell’edizione 2024 del suo Military Balance, l’International Institute for Strategic Studies stima che almeno 580mila effettivi siano in servizio attivo, a cui si aggiungono circa 200mila riservisti addestrati e pronti alla mobilitazione). Ma anziché afferire ad un apparato unico questi uomini sono divisi tra l’esercito tradizionale e il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, ognuno dei quali dispone di proprie forze terrestri, aeree e navali. Le Guardie gestiscono anche la Quds Force, un’unità d’élite incaricata di armare, addestrare e sostenere il cosiddetto “axis of resistance”, ovvero la rete di milizie filoiraniane sparse in tutto il Medio Oriente, dagli Hezbollah libanesi agli Houthi yemeniti, dai gruppi di miliziani in Siria e Iraq ad Hamas e alla Jihad islamica palestinese a Gaza. Anche se non direttamente incluse sotto l’ombrello delle forze armate iraniane queste milizie: “Potrebbero essere considerati parte della capacità militare dell’Iran” afferma in un commento riportato dal New York Times l’esperto delle forze armate iraniane dell’Iiss Fabian Hinz, che sottolinea come “il livello di supporto e i tipi di sistemi che l’Iran ha fornito a questi attori non statali è davvero senza precedenti in termini di droni, missili balistici e da crociera”.
La strumentazione bellica è un’altra delle peculiarità della struttura militare iraniana. Nonostante all’indomani della Rivoluzione del 1979 alcuni sforzi fossero stati promossi in questo senso, il Paese persiano non è mai riuscito a sviluppare un apparato militare-industriale capace di mettere a disposizione di Teheran “armamenti pesanti”: carri armati, aerei, navi di grande stazza in grandi quantità. Allo stesso tempo però, l’Iran si è focalizzato su altre tipologie di armamenti più facili da produrre e funzionali al perseguimento della sua strategia. Come nel caso dei missili balistici e degli Unmanned Aerial Systems (Uas), sfruttati da Teheran per sopperire alla mancanza di una vera e propria aviazione. L’Iran ha la più grande forza missilistica del Medio Oriente, con un arsenale di missili balistici a corto raggio, missili balistici a breve raggio e missili balistici a medio raggio che possono colpire obiettivi in tutta la regione fino a duemila chilometri di distanza. L’Iran punta su queste capacità a lungo raggio come deterrente contro eventuali attacchi sul suo territorio, come dimostrato anche nella rappresaglia lanciata contro Israele nella notte tra sabato 13 aprile e domenica 14 aprile.
Azione a cui hanno preso parte anche i droni di manifattura iraniana: nel corso degli ultimi anni Teheran ha sviluppato e accumulato un ampio inventario di droni, con gittate comprese tra i duemila e i duemilacinquecento chilometri e capacità di volare a bassa quota per eludere i radar. L’Iran ha ambizione di costruire un grande business di esportazione di questi sistemi (che sono già impiegati estensivamente in Ucraina, e di recente sembrano aver fatto la loro comparsa nella guerra civile sudanese) per sostenere le proprie capacità di penetrazione geopolitica (similmente a quanto fatto dal rivale turco). Mentre sul mare l’Iran ha deciso di puntare su una strategia di Anti-Access/Area Denial garantita da un’ampia gamma di capacità, comprendenti missili da crociera antinave lanciati da navi e da terra, piccole imbarcazioni, mine navali, sottomarini (alcuni dei quali importati dalla Corea del Nord), veicoli aerei senza pilota, missili balistici antinave e difese aeree. Una strumentazione economica, ma impiegata efficacemente. E che ha permesso al Paese sciita di evitare un attacco diretto da parte dei suoi nemici giurati, ovvero Stati Uniti e Israele, i quali non volevano avviare un conflitto con il complesso apparato militare di Teheran. “C’è un motivo per cui l’Iran non è stato colpito. Non è che gli avversari dell’Iran temano l’Iran. È che si rendono conto che qualsiasi guerra contro l’Iran è una guerra molto seria”, ha dichiarato Afshon Ostovar, professore associato di national security affairs presso la Naval Postgraduate School ed esperto dell’esercito iraniano.
Attacco ad Israele: implicazioni regionali e risposta israeliana
L’ attacco iraniano con 181 missili balistici “di pregiata qualità” per vendicare l’assassinio di due grandi alleati a livello regionale ovvero il capo di Hamas Haniyeh e il leader di Hezbollah Nasrallah ha fatto saltare e irrigidire ulteriormente i contatti interregionali tra i paesi mediatori e non. Il premier Netanyahu e vari esponenti del suo governo hanno ripetuto che l’obiettivo è dare un «Nuovo ordine» al Medio oriente con un Israele egemone e che l’Iran sarà severamente punito. Non hanno escluso persino la distruzione dei siti nucleari iraniani, che come impresa è molto ardua, visto l’ ubicazione e la difesa infrastrutturale dei vari luoghi di ricerca e produzione nucleare. Ma ora Netanyahu prende tempo mentre a Gaza Hamas non pare affatto «sconfitto» dopo un anno di attacchi israeliani e Hezbollah cerca di trasformare in una guerra di logoramento lo scontro contro l’esercito israeliano nel Libano del sud e non cessa di sparare razzi verso l’Alta Galilea, Acri e Haifa.
L’ultima riunione notturna del gabinetto di sicurezza israeliano giovedì sera si è chiusa senza il voto sul piano di attacco all’Iran. Ci sarebbero stati accesi «scambi di opinione» tra Netanyahu con il ministro della Difesa Yoav Gallant sugli obiettivi dell’offensiva contro Teheran. A rallentare Netanyahu più di ogni altra cosa è stata la mancanza di chiarezza che ha avuto durante la conversazione telefonica di mercoledì con l’alleato Joe Biden al quale non ha garantito al 100% che Israele non colpirà le centrali atomiche iraniane, per non rischiare di mandare all’ aria l’ uso della diplomazia. Poca trasparenza che ha scatenato il panico tra i petromonarchi del Golfo. Alcuni di loro hanno firmato trattati di pace con Israele nel 2020 (Emirati e Bahrain) altri, i sauditi, fino a un anno fa venivano dati a un passo dalla normalizzazione con Tel Aviv. Ora fanno i conti con una probabile ritorsione di Teheran sui loro impianti di estrazione del greggio se Netanyahu mettesse davvero in atto le sue minacce. E chiedono a Biden non protezione dalla rappresaglia iraniana contro amici e alleati di Israele e Stati uniti nella regione, ma di intervenire per contenere Netanyahu e il suo governo di estrema destra.
La stampa araba scrive che, incontrando a metà settimana in Arabia saudita il principe Mohammed bin Salman, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha accusato Israele di trascinare la regione in una catastrofe e, più di tutto, ha messo in chiaro che Teheran non avrà riguardi per i paesi che favoriranno l’attacco all’Iran, anche solo autorizzando il sorvolo del loro territorio da parte dei cacciabombardieri israeliani. Non è irrilevante che a pronunciare questa minaccia sia stato Araghchi, un pragmatico scelto dal nuovo capo dello Stato Masoud Pezeshkian perché è stato tra architetti dell’accordo nucleare del 2015 e quindi più incline a negoziare con l’Occidente una nuova intesa. Ora, di fronte a un Medio Oriente in fiamme, cambia tutto e Teheran segnala che potrebbe rivedere la sua dottrina e dotarsi di bombe atomiche, specie se Netanyahu realizzerà il suo sogno di distruggere i siti nucleari iraniani. E non solo quello.
L’Iran, riferiva ieri il quotidiano saudita Al Sharq al Awsat, avrebbe fatto sapere a Tel Aviv che, se i raid in cantiere fossero contenuti, potrebbe passarci sopra e mettere fine alla spirale di attacchi e rappresaglie in corso da mesi. Da parte loro gli Usa, sotto pressione araba, starebbero spiegando all’alleato israeliano che il 30% del greggio mondiale e il 20% dei prodotti petroliferi passano attraverso il Golfo e che tra le prime cose che l’Iran farà dopo aver subito un attacco ai suoi pozzi e raffinerie di petrolio, sarà bloccare lo stretto di Hormuz. Un passo scontato per un paese che produce 2,5 milioni di barili di petrolio al giorno e ne vende una media di 1,4 milioni alla Cina incassando dollari importanti per le sue casse vuote. Senza contare i riflessi dell’attacco israeliano sul mercato mondiale, dove inevitabilmente il prezzo del petrolio salirà alle stelle. Già ora, con gli attacchi al traffico commerciale nel Mar Rosso da parte dei guerriglieri Houthi yemeniti, il costo del barile è salito di 10 dollari. L’aumento dei costi di trasporto inoltre spingerà in alto i prezzi a livello mondiale. I motivi per indurre Netanyahu a frenare i suoi piani non mancano, e non mancano anche tra i suoi alleati. Il governo Netanyahu è ostile verso i paesi che ostacolano la sua “guerra al terrorismo”, ma questa era già cosa nota. Cosa invece molto ambigua e di grande rilievo soprattutto in ambito di politica internazionale, è l’ ostilità verso le Nazioni Unite: il segretario Guterres è stato decretato come “ personaggio sgradito” ad Israele, quindi non potrà più normalmente entrarci, ma come ha espresso personalmente il capo del governo Netanyahu “via UNIFIL dalle roccaforti Hezbollah”, delineando così una linea di demarcazione ancora più dura di quanto non fosse già stata prima, noi contro loro, Israele contro l’ asse della resistenza. Con questa mossa non si fa che polarizzare ulteriormente l’ opinione pubblica e, anche se estremamente barcollanti e fragili, spazzare via ancora una volta le chance per una pace così tanto voluta dal mondo, ma non da Israele.
FRANCESCO FERRAZZO
Bibliografia
https://www.ilpost.it/2024/10/13/netanyahu-ritiro-unifil/
https://ilmanifesto.it/petromonarchie-nel-panico-per-i-riflessi-dellattacco-alliran-netanyahu-frena
https://www.state.gov/reports/country-reports-on-terrorism-2021/iran/
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/l-economia-sommersa-del-paese-vale-circa-il-40-per