Come la psicologia interpreta gli atti geopolitici dei governi, dei popoli e degli individui. Una luce sul “fattore umano” e l’intenzionalità dell’atto politico.
Che si tratti di atto governativo, di gruppo o individuale, la piscogeopolitica clinica cerca di spiegare in termini scientifici ed umanistici la volontà degli autori di azioni politiche. In particolare gli effetti psicologici, che si imprimono nella vita degli individui. La psicogeopolitica clinica studia anche gli effetti dei fenomeni storici e i cambiamenti sociali e geopolitici che condizionano l’agire sociale nell’oggi e nella storia di un popolo. I gruppi agiscono sulla spinta di emozioni politiche indotte e sull’eterno riflesso dei simbolismi che li accomunano e che conferiscono un senso di continuità nel rapporto con sé stessi, come individui, con i membri dello stesso gruppo, e con lo “straniero”, il diverso da sé. Lucio Caracciolo ricorda che: “Quando si parla di simbolica dei popoli, molto spesso oggi i rapporti anche geopolitici ed economici sono dettati da una simbolica. Ormai ci si rapporta ad un paese non in base a ciò che “oggettivamente” è, ma a ciò che si presume sia il carattere nazionale. Che è una forma prosaica, bassa, della simbolica dei popoli”.
Cos’è la psicogeopolitica?
La psicogeopolitica clinica è “un approccio delle scienze umane che ha l’obbiettivo di osservare, descrivere, analizzare, teorizzare e trattare l’effetto “normale”, “psicopatologico” o “sociopatologico” dell’articolazione fra storia collettiva e storia individuale su ciascuno di noi e su un’intera società”. F. Sironi.
La geopolitica studia eventi come la nascita dei confini, i conflitti fra paesi, le guerre, gli scenari e i conflitti interni degli stati, le innumerevoli interazioni fra stato e altri stati ed enti di ogni natura, accordi diplomatici ecc., inoltre tratta i fenomeni e le correnti di pensiero prevalenti, i dibattiti politici e sociali, le personalità statali e non statali, che influiscono nella vita politica e sociale di un paese. La psicogeopolitica clinica osserva gli effetti che questi e altri fenomeni geopolitici e politici hanno sulle masse e sui singoli individui. Essa si basa su più determinanti. Determinanti geopolitiche, scaturenti dalle dinamiche della storia collettiva, territoriale, nazionale o mondiale. Determinanti intrapsichiche, che riguardano la storia individuale, intima e familiare di chi subisce gli effetti collettivi. Le determinanti contestuali, ossia tutti quegli elementi derivanti delle teorie di pensiero dominanti e minoritarie che influiscono sensibilmente sui costumi sociali, gli atti politici ed economici di un gruppo o di una nazione.
I fenomeni politici e geopolitici generano emozioni politiche. L’azione politica determina scelte, ma soprattutto emozioni, che inducono i gruppi ad un determinato condizionamento. Pensiamo ad esempio all’intenzionalità terroristica di un governo, di un gruppo interno o straniero che riesce ad incidere sulla vita collettiva, instaurando e manipolando l’emozione della paura. Pensiamo all’enorme impatto che ha cambiato il mondo occidentale dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001. Un’emozione politica ha la caratteristica di essere durevole. La fabbricazione politica della vendetta è basata su emozioni come la collera e le umiliazioni che, se non curate, sono durevoli nella vita degli individui, sono altamente contagiose e capaci di sopravvivere nell’immaginario collettivo. L’emozione “politica” è provocata da alcuni avvenimenti: politici (terrorismo, ideologie, guerre, torture), sociali (fratture nella società, polarizzazione degli scontri politici e civili), religiosi (fanatismi, egemonismi). L’intenzionalità politica riesce a creare le emozioni politiche e a strumentalizzarle per i propri fini: lo fa con precisione e può coinvolgere una numerosa gamma di emozioni: compassione, imbarazzo, vergogna, senso di colpa, orgoglio, gelosia, invidia, gratitudine, ammirazione, indignazione, disprezzo. Queste possono essere attivate e, molto più difficilmente, disattivate.
Per essere innescate, le emozioni politiche hanno bisogno di uno stimolo e possono riattivarsi autonomamente in qualunque momento. Gli effetti dell’intenzionalità malevola della fabbricazione dell’emozione politica dipenderanno dai singoli individui e da tutti quei fattori socio-intrapsichici che accompagnano e sostengono la psiche e la quotidianità dell’individuo. Questo dipende non solo dalla struttura psichica, ma anche dai simbolismi, dai valori e in particolare dai legami ad un determinato pensiero o gruppo. Il più delle volte i singoli faticano a riconoscere l’esistenza delle emozioni politiche e questo li rende ulteriormente vulnerabili, tuttavia anche i più informati e preparati nulla possono di fronte alla devastazione e al caos che è capace di produrre un atto politico o un fenomeno geopolitico. Le reazioni saranno direttamente proporzionali alla violenza o all’indottrinamento subito: possono situarsi nella gamma delle reazioni normali, oppure spingere gli individui a sviluppare forme patologiche gravi, fino al compimento di un atto criminale. Le emozioni politiche modellano pesantemente i pensieri, e quindi le azioni dei popoli, inoltre hanno delle forti ripercussioni familiari (violenza coniugale, maltrattamenti), professionali (perdita del lavoro o problemi interazionali sui luoghi di lavoro), sociali (atti delittuosi, settarismo e segregazione sociale).
Pisogeopolitica dei dittatori, l’esempio di Milosevic.
Quanto è stato determinate il trauma causato dalla perdita di entrambi i genitori di Slobodan Milosevic nei destini della Serbia? Si chiede Francesco Tullio in “Psicopatologia di Milosevic (e della Nato)” (Limes 2000). In qual modo il rinnego della propria responsabilità per la morte dei genitori ha attivato in lui un meccanismo di difesa, spingendolo a proiettare il rifiuto della morte sui sogni di gloria del suo popolo, della sua storia? E in che misura, e come, è riuscito ad intercettare i sentimenti del suo gruppo, trascinando un intero popolo nelle sue dinamiche distruttive?
Slobodan Milosevic è stato capace di inglobare tutte le emozioni del suo popolo e di una parte dei governanti occidentali nel suo piano di super potenza serba e di lungo e profondo isolazionismo internazionale. Quando analizziamo un fenomeno è giusto contestualizzare tutti i fattori, o meglio i determinanti, che possono generarlo: storici, geopolitici, economici e culturali. Inoltre è fondamentale capire dove ha avuto origine il carattere e la determinazione del leader serbo, quali emozioni, quali domande e soprattutto quali reazioni ad esse gli hanno consentito di diventare uno degli uomini politici più discussi del secolo scorso. Ricorda Massimo Nava, ripreso da Francesco Tullio, che la Serbia è stata una “malattia psicogeopolitica, così si spiega la sindrome d’accerchiamento combinata al patriottismo e alla voglia suicida di collezionare sconfitte per riaffermare la propria identità”. Cosa accomuna l’identità storica serba e quella del dittatore? Certamente fra i due attori c’era una comunanza di emozioni che ben si amalgamavano e altrettanto bene si indirizzavano verso un nemico comune, diverso da sé: il popolo albanese del Kosovo.
Il suicidio dei genitori di Milosevic e di un suo zio hanno costituito le basi di un conflitto psichico così intollerabile da condurlo a generare una elaborazione paranoidea del lutto. Nella sua infanzia Milosevic non ha potuto manifestare adeguatamente parti del suo carattere e questo lo ha condotto, per reazione, a rifugiarsi nelle fantasie di opposizione. Citando Melanie Kleine: quando a un bambino non viene concessa la possibilità di esprimere le proprie fantasie di opposizione alle figure genitoriali, per dover ubbidire interamente alla figura del padre, ecco che egli si ritrova costretto a doverle censurare e a trasformare quelle fantasie inespresse in fantasie di distruzione. Le emozioni non vengono semplicemente rimosse, ma del tutto ignorate, mantenendo coscientemente un certo legame idealizzato con l’“infallibile padre”, e allo stesso tempo nutrendo la carica oppositiva inespressa. L’impossibilità dell’espressione di sé genera fantasie distruttive, tristezza e solitudine. Un suicidio conduce chiunque di noi a formulare l’inevitabile domanda: “si è tolto la vita anche per mia colpa?”. E più è vicino il legame con il suicida tanto più questa domanda è accompagnata da profondi sentimenti di angoscia e senso di colpa. Ecco come le antiche fantasie inespresse possono diventare un primo mezzo per spiegare il suicidio dei propri cari: “sono stati i miei profondi sentimenti di odio ad uccidere i miei genitori?”. Se un quesito del genere può devastare un adulto, in un bambino l’effetto è molto più angosciante, perché è dal grado di accettazione dei propri genitori che dipende la sua stessa vita. Negare la propria colpa e negare il ruolo svolto dalle proprie fantasie distruttive lenisce il dolore ma non lo risolve. Il genitore che si è tolto la vita, fino ad un momento prima era indistruttibile agli occhi del bambino, pertanto né io, né il mio genitore siamo causa del gesto estremo. Dunque la mente proietta la colpa su di un altro, diverso da sé e dalla propria stirpe storica: gli albanesi, che sono diventati (con la facilitazione della narrazione storica) il capro espiatorio perfetto, assieme ad altri, del malessere collettivo.
La rabbia verso i propri caregiver, le angosce di colpa e di morte, anziché essere ammesse ed accettate, diventano intollerabili a tal punto che, citando F. Tullio,: “ Il soggetto prova ad annegarle in uno scontro, prima immaginario poi talvolta reale, contro il capro espiatorio che intende sottomettere e controllare, così come sottomesso e controllato è stato lui da bambino”. E ancora: “A livello profondo il soggetto sta ancora lottando con il contrasto iniziale e si trova in una trappola interiore. L’insoddisfazione interiore, un magma emotivo di rabbia, dolore ed angoscia di morte, porta la persona con questo tipo di problema a cercare di più. Non basta una capro espiatorio su cui sfogarsi, ci vuole un nemico vero, un turpe e vile aggressore contro il quale poter esprimere la propria sfida alla morte, la propria disponibilità e ricerca della fine”. La realizzazione delle proprie fantasie, trasformate in atti criminali, trova energia nel suo conflitto interiore e allo stesso tempo sfoga le energie di rabbia, omicidio e di vendetta.
Milosevic è stato capace di intercettare i malesseri serbi ed ha trovato nella storia serba albanese lo strumento perfetto per canalizzare le rabbie e le frustrazioni del proprio popolo. Per i serbi il Kosovo è la terra santa dalla quale sono stati cacciati e poi rimpiazzati da albanesi musulmani, introdotti in quelle terre dapprima dal dominio turco, poi dai fascisti e da Tito. Per i serbi la questione kosovara è un imponente faccenda di stato, una profonda ferita collettiva che ancora oggi è causa di attualissime tensioni. Le tensioni secolari fra serbi ortodossi ed albanesi musulmani complicano anche l’attuale conflitto fra Usa e Russia in terra europea, dunque mondiale. Il trauma storico di un popolo, profondamente impresso nella simbolica della storia serba, è ancora oggi capace di generare, in autonomia, emozioni politiche, che determinano gli esiti delle elezioni e gli equilibri dell’ordine mondiale.
I traumi storici.
Per comprendere l’impatto che la storia collettiva ha sulle emozioni di un individuo, basti pensare ad eventi particolarmente gravi, che colpiscono significativamente la storia e i simbolismi dei popoli, come le guerre, le torture e i conflitti etnici, ma anche a fenomeni meno “gravi”, come gli improvvisi cambiamenti economici e sociali, le migrazioni di massa e i cambiamenti climatici.
Luca Steinmann nel suo libro”Il fronte russo”, scritto sulla base della sua esperienza al fronte meridionale ucraino, racconta la storia di una maestra che ha deciso di non chiudere la scuola nel Dondetsk e di permettere ai bambini di continuare a frequentarla, nonostante i bombardamenti. Perché lo ha fatto? Le chiede l’inviato di guerra. La ragione era che molti degli studenti erano stati portati via dalle famiglie per trasferirsi in Russia e per scappare dalla guerra. L’improvvisa sparizione di tanti compagni di scuola ha turbato gli animi e il senso di continuità quotidiana dei bambini rimasti, già tormentati dalla guerra. Questo ha generato in loro tristezza, spaesamento e un profondo disorientamento (per loro la guerra era cominciata già nel 2014). Le maestre hanno cercato, nonostante tutto, di assicurare loro la normalità del quotidiano e la tranquillità e li hanno convinti del fatto che i compagni sarebbero ricomparsi e tutto sarebbe tornato come prima.
La storia è un oggetto attivo, capace di incidere profondamente nella vita dei gruppi e a determinarne le direzioni. Lì dove si intrecciano storia individuale e storia collettiva, c’è terreno fertile per la malevolenza politica, che si insinua e manovra facilmente le masse attraverso le emozioni politiche. Lo sgretolamento di un popolo, con qualunque mezzo, mina le basi della vita collettiva come la si è conosciuta fino a quel momento. Gli individui che vivono un tale cambiamento, sono profondamente destabilizzati, dal momento che si trovano in uno stato di allarme e di perdita. Se un popolo è anche accompagnato da sentimenti di sconfitta e di isolamento internazionale, questo produrrà sentimenti di odio e di vendetta facilmente malleabili da qualunque organizzazione che si mostri capace di smuovere gli animi delle persone. In genere, gli avvenimenti collettivi capaci di produrre intensi e duraturi sentimenti politici sono le acculturazioni brutali, le guerre perse, un senso di ingiustizia e l’impunità per crimini per i quali non è mai stata fatta giustizia.
I bombardamenti stessi di cui l’Occidente, e non solo, ha fatto uso in vari scenari di guerra non sono stati capaci di ottenere il risultato sperato, ossia far desistere un governo o un gruppo terroristico dal continuare a condurre un atto criminale. Il più delle volte ciò ha sortito l’effetto opposto, cioè ha alimentato l’isolamento internazionale e ha spinto i popoli a stringersi ancora di più attorno al proprio leader, o a chi offre riparo e generi di conforto. Il bombardamento sulla popolazione serba nel marzo del 1999 ha scatenato da subito una reazione violenta delle bande paramilitari contro la popolazione albanese, che a sua volta si è vendicata su serbi e zingari a distanza di poco tempo. Al di là dell’effetto dei bombardamenti sull’esito della guerra, questi furono presentati come una valida soluzione per porre fine al massacro civile ad opera serba, come richiedeva il “civile” popolo europeo. Il risultato è stato una fabbricazione di ulteriori emozioni politiche, che a loro volta hanno fomentato le masse nell’usare e nel dare sfogo alle emozioni (indotte) di violenza e di vendetta. Il grado di reazione degli individui agli stimoli storici e ai fenomeni geopolitici dipende non solo dalle esperienze traumatiche vissute, ma anche dall’esperienza individuale. I traumi storici possono spingere alcuni a fomentare emozioni negative, altri verso un profondo impegno di non violenza.
Le singole vittime possono reagire in modo efficace, anche con l’aiuto di riparazioni pubbliche, attraverso riti e simboli pubblici, oppure cadere in una profonda spirale di dolore e irrequietezza.
I cambiamenti di regime, di filosofia o di ideologia politica possono causare dei traumi intenzionali.
L’improvviso cambiamento di un intero mondo sociale colpisce l’universo di sensi che accompagnava gli individui. La caduta del muro di Berlino e il disgregamento dell’Unione sovietica, con il relativo passaggio ad un sistema di tipo capitalistico è un esempio a noi particolarmente vicino. E’ indubbio il contributo fornito dai governanti occidentali a questo passaggio d’epoca, pertanto il trauma storico è stato anche intenzionale. Il senso di dispersione e i riferimenti sociali e culturali sono venuti meno e gli individui più coinvolti hanno maturato un terrore esistenziale dovuto alla perdita di senso del quotidiano. Una tale situazione genera sofferenze psicologiche e la conseguente psicopatologia di natura traumatica: depressioni, disturbi del sonno, alcolismo e così via.
Un trauma intenzionale è un trauma volutamente indotto da un essere umano o da ideologie e credenze. Questo può essere generato da un’organizzazione, da un sistema, cioè da sovrastrutture “invisibili”, oltre che dai singoli leader. L’obbiettivo della fabbricazione politica del trauma intenzionale è il più delle volte quello di iniziare, affiliare, disumanizzare o deculturare un individuo o un gruppo sociale. Per ognuno di questi intenti, quello che si vuole raggiungere, e il più delle volte si raggiunge, è un processo di distruzione o di mutamento dell’essere. Sono forme manipolative che mirano a strappare agli individui i loro simboli di riferimento e le proprie affiliazioni storiche. Il trauma può essere trasmesso orizzontalmente, con la trasmissione generazionale, o trasversalmente, colpendo la storia e il simbolismo collettivo.
Deculturazione e aggressione degli oggetti culturali.
Gli oggetti culturali di un gruppo sono usanze, linguaggi, ideologie, riferimenti culturali, simbolismi, semplici oggetti, che uniscono ed identificano le appartenenze degli individui di un particolare gruppo. Esse costituiscono l’identità di un intero popolo e questo presuppone anche una serie di significati che i popoli associano agli oggetti culturali. Colpire i significati e stravolgerli nel loro senso è un atto violento. Chi attacca gli oggetti culturali è intenzionato a voler indebolire psicologicamente ed economicamente una data cultura. L’obbiettivo principale della deculturazione è disgregare un tessuto sociale, indebolirlo e frantumarlo, per poter minare le basi di coesione del gruppo, dunque la sua forza. Chi applica intenzionalmente queste tecniche sa che il loro risultato sarà quello di alimentare paure, odi collettivi ed insicurezza. Far sentire minacciato un popolo non serve solo a distruggere un popolo nemico, ma anche a rafforzare un potere interno.
Uno stato costante di paura e di minaccia agevola il consolidamento di chi governa, consentendo ai governanti di poter applicare anche norme più stringenti presentate come necessarie per rinforzare l’esistenza del gruppo e per proteggersi da un nemico ben più minaccioso diverso dal proprio interno. L’attacco al “World trade center” e la successiva lotta al terrorismo ha aperto le porte a significative modifiche costituzionali e ad una diminuzione delle libertà personali; ha dato ai governi maggiori poteri di controllo sulla vita quotidiana dei popoli, fino ad arrivare a violenze di gruppo nella prigione di Abuh Ghraib, dove sono venuti alla luce pesanti attacchi ai simboli, agli oggetti e ai simbolismi sessuali e religiosi dei detenuti musulmani. L’attacco agli oggetti culturali ha il duplice merito di colpire la stabilità dell’individuo e il filo che lega quell’individuo al gruppo.
La frammentazione dell’identità può causare effetti sociopolitici con la fabbricazione delle emozioni politiche o causare una fabbricazione di un “falso sé”, con conseguente adesione paradossale ai valori e all’identità di chi ha causato l’attacco.
La fabbricazione di persone e gli stupri di massa
Nelle pratiche di settarismo e affiliazione ad un gruppo vengono applicate varie tecniche traumatiche, con la precisa volontà di rompere i legami dell’individuo con le affiliazioni e con i simboli del suo gruppo di origine. Gli iniziatori ricorrono spesso a percosse, uso di droghe, privazione di cibo e di sonno, trasgressioni di tabù. Colpire il simbolismo del tabù è una pratica molto efficace, perché sconvolge l’ordine di senso e i significati dell’individuo. Nelle torture vengono colpiti i genitali perché in ogni cultura il loro simbolismo è intenso ed è soggetto ad usi e tabù differenti. Colpire un organo genitale, dargli un altro significato ed utilizzo, ad esempio con gli stupri omosessuali, distrugge la morale dell’individuo sociale, annienta il suo legame simbolico con ciò in cui crede e lo predispone ad una nuova identità molto diversa da sé. I bambini soldato di realtà come i Khmer rossi, l’Angola, il Mozambico, la Sierra Leone, l’Algeria, il Kosovo, il Sudan, il Pakistan sono stati abituati sin da subito a tradire e a denunciare non solo i propri compagni d’armi, ma anche le proprie famiglie. In questo modo il reclutatori riescono nell’intento politico di annientare le affiliazioni di appartenenza. Quando queste pratiche hanno successo, la vittima avrà generato nuovi modelli di attaccamento e nuove affiliazioni. Tuttavia, quando non riescono nell’intento, le tecniche manipolative possono causare confusione e perdita di identità, sindromi transitorie e disturbi della personalità.
Gli stupri nelle operazioni militari non vanno considerati solo come mere forme di violenza, o peggio, come sfoghi sessuali al fronte. Lo stupro vuole deliberatamente minare l’integrazione e il tessuto sociale. E’ stata osservata una significativa correlazione fra episodi di violenza sessuale, subiti durante un’occupazione straniera, e numero di separazioni. In altri casi lo stupro ha l’intenzionalità di colpire la “purezza culturale” sulla quale i popoli fondano le proprie identità. Stuprare e lasciare incinta una donna, significa anche “insudiciarla”, colpire la sua purezza culturale. Colpire, in particolare, la vagina della donna significa manipolare i simbolismi ancestrali di maternità che ha dato vita a tutto, garantendo la sopravvivenza e la purezza dell’etnia e dell’affiliazione.
Impedire le riparazioni di massa e i riferimenti collettivi
Dopo un significativo trauma di massa, la psiche collettiva rimane orfana di importanti assi della sua struttura sociale, e si ritrova sola a dover gestire gli effetti di lungo termine delle emozioni politiche. La narrazione collettiva e le emozioni individuali cercano guide che possano accompagnarle in un processo di riparazione pubblica. Rispetto ad una violenza particolarmente grave, come un’occupazione militare, il fine ultimo necessario per raggiungere un completamento del processo di riparazione pubblica, è quello del perdono di massa. Affinché si possa ottenere un tale risultato, è necessario non solo che i colpevoli vengano catturati ed assicurati alla giustizia, ma che questi esprimano anche pentimento per i crimini commessi. Solo allora, questi individui potranno giocarsi una carta per essere riammessi nella vita pubblica.
L’improvvisa sparizione di tanti membri del proprio gruppo costringe chi rimane a dover elaborare il trauma e il lutto. La riparazione pubblica è raggiunta affidandosi ai simboli e ai rituali appartenenti alla memoria collettiva, una memoria e un simbolismo ancestrale che permette l’elaborazione del lutto, il rafforzamento dell’identità e il rinnovo della appartenenza dei singoli.
Se il dolore può essere riconosciuto e condiviso con dei simili che hanno vissuto lo stesso trauma, sarà anche più facile ristrutturare il tessuto sociale, che concede un senso di continuità e di appartenenza. I rituali sono conosciuti ed insegnati dagli anziani, che tuttavia muoiono durante una crisi sociale a causa della guerra, della mancanza di cure necessarie, e dell’abbandono da parte delle famiglie. Essi sono spesso vittime prescelte dalla malevolenza politica che cerca di interrompere ed isolare gli occupati, colpendo volutamente le figure anziane. Una tale intenzionalità risulta essere molto efficace in quei Paesi dove la narrazione orale rimane prevalente nella comunicazione di massa. Anche nelle società iperconnesse è l’uso sapiente del linguaggio e delle gestualità che rende efficace la riparazione del tessuto sociale. Colpire gli anziani è un obbiettivo politico di deculturazione.
Nel suo testo “Violenze collettive” Francoise Sironi racconta della campagna di terrore messa in atto dal governo cinese nei confronti dei monaci tibetani negli anni ’90. La religione è strumento di potere delle malevolenze politiche, ma è anche efficace strumento di riparazione sociale. Oltre che essere arrestati, molti monaci venivano torturati e costretti ad uccidere e a lavorare le carni di animali, a causa della loro fede vegetariana. L’obbiettivo politico non è solo quello di demotivare e di torturare, ma anche quello di svuotare completamente di senso i simboli dell’immaginario e del simbolismo collettivo, profanarli e allo stesso tempo stravolgerne il significato.
La malevolenza politica si occupa di azzerare la cultura di un intero popolo, colpendo luoghi di culto, opere d’arte, simboli di massa e, in particolare, luoghi di ritrovo, come i mercati e le piazze centrali. L’obbiettivo politico non è solo quello di seminare terrore, ma anche di danneggiare i punti di riferimento della memoria collettiva. I luoghi pubblici vengono ripensati e ripresentati per altre funzioni: si tengono riunioni politiche in luoghi di culto, si uccidono i civili nelle piazze di divertimento sociale. Vengono colpite le attività silenti che conferiscono un senso di unione e di quotidianità: flussi scolastici, alimentari, artigianali, distruzione dei raccolti. Si ottiene allo stesso tempo l’affaticamento delle economie locali e l’annullamento dei punti di riferimento delle popolazione. Vengono uccisi o arrestati i leader civili, vengono fatti sparire membri delle famiglie per generare uno stato di confusione e per sfilacciare le unioni sociali. Uno stato di continua minaccia e di distruzione dei punti di riferimento affatica il processo di pensiero e la coerenza quotidiana degli individui. Il venire meno della cultura di appartenenza obbliga la società a colmare quell’assenza con un ‘altra cultura, spesso ideologica ed esogena, oppure, paradossalmente, la cultura stessa che ha determinato la distruzione della propria. Si tratta, tuttavia, di un’appartenenza superficiale e paradossale, una forma di compensazione per il trauma subito, capace di condurre chi subisce questo processo politico a gesti politici e sociali utili a chi ha generato il trauma.
Gli atti sopra elencanti sono una minima parte dei fenomeni politici e geopolitici che sconvolgono il vivere quotidiano degli individui, sia come singoli cittadini, sia come elementi appartenenti ad un gruppo. È importante studiarli e saperli riconoscere, per comprenderli e dare supporto alla psicologia clinica, che deve gestire le gravi forme patologiche delle vittime della malevolenza politica. Gli atti geopolitici e l’uso strumentale dei simbolismi di massa e dalla loro storia è tema quotidiano che ci riguarda e determina gli esiti delle nostre società, non solo al momento dell’apertura delle urne, ma anche nella relazione con l’altro, in ogni agire politico ed economico dei gruppi delle nazioni. Prevenire ciò significa difendere la convivenza socio politica e proteggere il simbolismo collettivo, che è il timone del nostro essere sociale.