Cosa succederebbe se i confini che circoscrivono i nostri Stati scomparissero? Mohsin Amid risponde a questa domanda e a molte altre nel suo romanzo “Exist West”, dove nel mondo del realismo magico i confini fisici lasciano il posto a delle porte.
Con-finis e Limes
La definizione geopolitica di confine contiene in sé dei rimandi filosofici, dei significati sottesi. Il confine è convenzionalmente inteso come una porzione di territorio su cui gli stati confinanti non esercitano sovranità che li separa e li unisce. Il confine è dunque una terra di nessuno? Funge da separazione o congiunzione tra gli Stati? Rinchiude o protegge?
Per rispondere, almeno in parte, a queste domande, l’etimologia della parola accorre in aiuto. Confine deriva dal latino con-finis. Finis indica il fine, il limite. Con- è un prefisso che rimanda alla condivisione. Il con-finis è dunque un limite condiviso da “chi è di qua” e “chi è di là”. Il confine esiste fisicamente e figurativamente, e nel secondo caso funge da memorandum ai rispettivi Stati confinanti, per indicare loro dove finisce uno inizia l’altro e viceversa.
Il confine è caratterizzato da una bivalenza di significati. Da una parte, nella sua accezione di con-finis, e dunque di limite condiviso, indica una linea di contatto: non a caso, spesso utilizziamo l’aggettivo “confinante” per parlare di prossimità, di vicinanza. E questo tipo di confine in geopolitica ci permette di parlare di scambio e cooperazione.
Al contempo però, il confine può essere inteso come linea di chiusura, che delimita uno spazio e relega qualcosa al suo interno. In questo caso, l’aggettivo che useremmo è “confinato”. E l’etimologia ci insegna però che sarebbe più appropriato parlare di limes, limite, frontiera.
Limes indica il significato più geopolitico di confine, ed è forse per questo che la nota rivista di geopolitica l’ha scelto come nome. Il limes nasce in età romana e raggiunge la sua accezione geopolitica durante l’impero romano per indicare mura fortificate lungo i confini che dapprima avevano una funzione d’attacco, e dunque rispondevano all’esigenza espansionista dell’impero, e successivamente una funzione difensiva.
Per estensione, possiamo definire il limes una linea di protezione dall’ignoto. Attraverso il limes, un popolo, nel caso storico l’impero romano, può chiudersi in se stesso e differenziare ciò che è noto, dunque se stesso, da ciò che è ignoto e sta al di fuori. E sempre per estensione, il limes ha una valenza psicologica che ritroviamo in ognuno di noi: è nella natura umana identificare dei limiti in sé e conseguentemente cercare di superarli. Questo richiede coraggio, poiché al di là di quelli che consideriamo i nostri limiti, non sappiamo cosa ci sia e se effettivamente saremo in grado di superarli.
I confini in Exit West
Exit west di Mohsin Hamid è un romanzo che parla di limes, di con-finis, di porte. I confini di Exist West non esistono più come demarcazioni forti e ostili, ma diventano dei semplici passaggi e pratiche connessioni tra i vari Stati nel viaggio di un migrante costretto a lasciare il suo paese.
“Girava voce che ci fossero porte capaci di trasportarti in altri luoghi, anche molto remoti, lontano alla trappola mortale in cui si era trasformato il loro paese. Alcuni sostenevano di conoscere qualcuno che conosceva qualcuno che era passato attraverso una di quelle porte. Una porta normale, dicevano, poteva trasformarsi in una porta speciale, e poteva accadere senza preavviso, a qualunque porta. Quasi tutti le consideravano voci prive di fondamento, sciocche superstizioni. Eppure quasi tutti avevano cominciato a guardare le proprie porte in modo un po’ diverso.”
Il romanzo narra la storia di Nadia e Saeed, due giovani amanti che si trovano costretti a fuggire dalla città senza nome del Grande Medio Oriente in cui improvvisamente scoppia una guerra civile. Una realtà che accumuna tanti giovani originari di quei territori. Il loro è un viaggio speciale, proprio perché al posto dei confini fisici gli basterà attraversare delle porte per ritrovarsi a Mykonos, Londra e infine in California.
“In quei giorni si diceva che il passaggio era un po’ come una morte e un po’ come una nascita, e in effetti Nadia provò una sensazione di annientamento mentre entrava nell’oscurità e lottò furiosamente per respirare mentre cercava di uscirne […]. Vide Saeed che si girava con tutto il corpo verso la porta, come se in qualche modo desiderasse fare marcia indietro e tornare dall’altra parte, e gli si mise accanto.”
Il loro è un amore intenso e difficile, un percorso di consapevolezza e conoscenza dove la migrazione li conduce al confronto con se stessi e il loro rapporto. Fuggire insieme dalla città senza nome non potrà che unirli, perché parte della loro identità si trova lì, tra le mura che li ha visti crescere e innamorare. E l’uno nell’altro ritrovano un pezzo di casa, di quella terra che sono costretti ad abbandonare. Ma nella migrazione si incorre inevitabilmente in uno sviluppo, e la nostra identità già fluida assume diverse declinazioni a seconda delle persone che incontriamo, i luoghi e le esperienze che viviamo.
Un mondo senza confini
Cosa succederebbe se da un giorno all’altro i confini non esistessero più? Che fine farebbero le nazioni? E in quel caso, avrebbe senso parlare di Stati o territori diversi?
Ci sono disaccordi tra studiosi che sostengono che le nazioni siano “naturali”, basate su differenze etniche che delineano i confini, e altri che sostengono che siano socialmente determinate e costruite. I primi considerano la formazione delle nazioni un fenomeno naturale che va al di là di scelte politiche o sviluppi storici. I secondi considerano le nazioni costruite dalle persone, plasmate attivamente su base storica o culturale.
Exit West ci insegna che nessuna nazione può essere definita completamente naturale. Le differenze etniche tra le persone non si traducono necessariamente nella costituzione di una nazione. E di certo tali differenze non escludono la possibilità di appartenere ad un’altra nazione. Nell’universo di Exit West, dove le nazioni finiscono per mescolarsi tra loro, l’annullamento dei confini rende la migrazione semplice e tutto il mondo acquisisce il potenziale di essere casa, moltiplicando le possibilità di ognuno.
“In quei giorni le notizie parlavano di guerra e migranti e nativisti, e anche di frazionamenti, regioni che si staccavano dalle nazioni, e città che si staccavano dal loro circondario, ed era come se tutti stessero convergendo e al contempo si stessero allontanando gli uni dagli altri. Senza più confini, le nazioni sembravano diventate qualcosa di illusorio, e ci si chiedeva quale ruolo dovessero svolgere. Molti ritenevano che unità più piccole avrebbero avuto più senso, ma altri ribattevano che unità più piccole non sarebbero state in grado di difendersi. In quel periodo, a leggere le notizie, veniva da pensare che le nazioni fossero come persone con personalità multiple, alcune che sostenevano l’unione e altre la disgregazione, e che quelle persone con personalità multiple fossero anche persone la cui pelle si stava dissolvendo mentre nuotavano in un brodo pieno di altre persone la cui pelle anche si stava dissolvendo. Perfino la Gran Bretagna non era immune da questo fenomeno, di fatto alcuni dicevano che si era già scissa, come un uomo con la testa mozzata che ancora si regga in piedi, mentre altri dicevano che la Gran Bretagna era un’isola, e che le isole restano anche se la gente che le abita cambia, e che era stato così per millenni, e avrebbe continuato per millenni a essere così”.
Exit West ci fa riflettere sul significato più insito di confine, che ci dice qualcosa prima di tutto sullo Stato che circoscrive, sul suo territorio, sulla situazione politica, sugli abitanti. Ci dice se uno stato è aperto alla cooperazione, o al contrario al conflitto. O come sta succedendo proprio ora in Ucraina, l’importanza dei confini la si vede quando qualcuno li scavalca e tenta di distruggerli. E la distruzione che Putin vuole imporre con l’obiettivo di annettere il territorio ucraino non va a ledere il solo confine fisico. Ha ripercussioni e risvolti psicologici per gli ucraini che vedono la propria identità minacciata.
Ecco perché i confini non sono mai delle semplici linee e se non esistessero più si perderebbe il senso fondamentale di nazione, intesa come espressione d’identità e appartenenza ad un popolo. Ma allo stesso tempo, Exit West ci pone di fronte ai pericoli del nazionalismo, all’esasperazione di tali sentimenti che portano ad una chiusura, piuttosto che all’apertura e all’cooperazione a cui l’autore vuole appellare con il suo libro.
Mohsin Hamid non racconta solo la storia di Nadia e Saeed, ma di molti altri che come loro, per le ragioni più disparate, vogliono o devono migrare. Hamid scrive di un contabile inglese sul punto di togliersi la vita che ottiene una seconda opportunità attraversando una porta che lo conduce in Namibia. Così anche del pittore brasiliano che ogni giorno varca una porta per Amsterdam per vedere l’anziano olandese con cui finisce per innamorarsi. La migrazione sotto questa luce offre opportunità e un grande senso di libertà.
Hamid gioca con il significato di migrazione e appartenenza in un mondo interconnesso come il nostro. La globalizzazione è raffigurata proprio nell’immagine dei confini invisibili che diventano porte e una tavolozza di territori mescolati al cui interno le persone che vi abitano cambiano costantemente. Il libro è un attacco al nazionalismo: nella nostra terra d’origine troviamo un senso di identità, ma lasciarla o essere costretti a farlo non significa rinunciare ad essa. Saeed è un caso emblematico poiché profondamente attaccato al suo Paese che abbandona con riluttanza trova nella religione e nella preghiera una connessione con il suo Paese anche a distanza. Nadia al contrario, non ha un forte attaccamento con la sua terra di origine, e nel suo caso la migrazione rappresenta una rinascita tanto attesa.
“Ma poi, vedendo intorno a sé tutte quelle persone di tutti quei colori diversi in tutti quegli abiti diversi, si sentí sollevata, meglio qui che là, pensò, e ricordò che per quasi tutta la vita era stata confinata nel posto dov’era nata, che ora quel tempo era passato, ed era venuto un tempo nuovo e, per quanto fosse in ansia, si godette quella sensazione, come il vento in faccia in una giornata torrida quando andava in moto e alzava la visiera del casco e accoglieva la polvere e lo smog e i minuscoli insetti che a volte ti entravano in bocca e ti disgustavano e ti facevano venire da sputare, ma poi, dopo aver sputato, da sorridere, sorridere selvaggiamente.”
Siamo noi a cambiare
Nadia e Saeed rappresentano due diversi approcci alla migrazione, nati dalle stesse premesse, e che portano in luoghi diversi nel sottoporsi a un cambiamento. La migrazione è prima di tutto una rinascita. Migrare, lasciare il proprio Paese, non è facile. È un po’ come se un pezzo di noi cessasse di esistere, perché nell’abbandonare le nostre origini, ci delineamo come essere diversi, il cui contorno, come i confini, sono sfumati e integrano aspetti di culture diverse. E allora non siamo più un tutto con la nostra identità originaria, ma assumiamo connotati diversi. La nostra identità univoca muore e lascia posto alla libertà di essere ciò che si è vuole, liberi da ogni costrizione.
Oggi, il mondo non ha più i confini rigidi di un tempo: basta accendere il computer o il telefono per poter migrare nello spazio e nel tempo. Ed è in questo senso che la migrazione diventa un’opportunità preziosa, nelle giuste condizioni.
“La gente comprava e vendeva case allo stesso modo in cui comprava e vendeva azioni, e ogni anno qualcuno se ne andava e qualcun altro arrivava, e ora si stavano aprendo tutte quelle porte da chissà dove, e arrivava ogni sorta di strana gente, gente che sembrava sentirsi piú a casa propria di lei, perfino i senzatetto che non parlavano inglese, piú a casa propria forse perché erano piú giovani, e quando usciva l’anziana signora aveva la sensazione di essere emigrata anche lei, che tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo. Siamo tutti migranti attraverso il tempo.”