Le implicazioni strategiche di Taiwan nella politica della Repubblica Popolare e di Washington. Il fattore marittimo cinese: Xi Jinping fautore di una nuova pedagogia per la Repubblica Popolare. Consolidamento dell’identità taiwanese. Una guerra per Taiwan è alle viste?
Il quadro tracciato nell’articolo precedente è stato necessario per descrivere l’evoluzione storica dei rapporti tra la Cina, prima Impero del Centro e poi Repubblica Popolare, e Taiwan. Poste quelle basi, per comprendere la rilevanza e l’eco internazionale della questione taiwanese, ora si entrerà in medias res, nelle viscere della strategia di Pechino e di Washington. Con un occhio sulla percezione taiwanese della questione.
1. Perché Taiwan e il Mar Cinese Meridionale sono centrali tanto nel progetto di Xi Jinping quanto nei piani di Washington
Come si è avuto modo di vedere, Taiwan è il dilemma strategico della Cina da oltre tre secoli e mezzo. L’isola infatti costituisce la porta di accesso per Pechino alla libera navigazione nell’Oceano Pacifico. Xi Jinping quindi, conscio del fatto che alla Cina, per potersi effettivamente sedere al tavolo di Washington, manca ancora il requisito fondamentale di avere flotte dislocate in ogni angolo del globo, si è posto come obiettivo un’assertiva espansione marittima e l’unificazione di Taiwan. Meglio, la riunificazione, dato che nel progetto del Risorgimento cinese Xi Jinping, che si è dato come limite temporale il centenario della fondazione della Repubblica Popolare, il 2049, si pone in perfetta continuità con il Celeste Impero.
Negli ultimi anni, quindi, Pechino ha sensibilmente aumentato la pressione su Taiwan. Per indurla a desistere dai suoi progetti di autodeterminazione la Cina organizza imponenti esercitazioni navali interforze per simulare un accerchiamento dell’isola – abbiamo tutti in mente le esercitazioni durate settimane in seguito alla visita di Nancy Pelosi nell’estate 2022. Non solo, Pechino è molto attiva nella propaganda nei confronti della popolazione taiwanese. Forte anche del consenso del Kuomintang – partito ormai vicino alle istanze della Repubblica Popolare, che nelle ultime elezioni di gennaio 2024 ha preso il 33% – la Cina ritiene di poter portare proficuamente avanti una martellante attività di propaganda. Infiltrandosi capillarmente nella società taiwanese, Pechino ha l’obiettivo di presentare l’attuale partito al governo (il Partito Democratico Progressista) come inadeguato a garantire la sicurezza della popolazione. Cosa che potrebbe essere assicurata soltanto attraverso l’accettazione del “modello Hong Kong”, un paese-due sistemi.
Si diceva della necessità espressa dal Presidente della Repubblica Popolare di procedere con una espansione marittima. Ebbene, Xi Jinping, per perseguire tale obiettivo, non ha proceduto soltanto con un cospicuo ingrandimento e ammodernamento della flotta – che, al momento, seppur tecnologicamente inferiore a quella di Washington, a livello numerico è nettamente superiore. Si è proposto di dar vita anche ad un vero e proprio progetto pedagogico per far comprendere ai cinesi, popolazione da sempre poco interessata al mare, quanto sia importante il fattore marittimo per l’ascesa e la grandezza di Pechino. Questo progetto pedagogico è rivolto principalmente alle nuove generazioni, sempre più attratte dal benessere personale e vicine alle logiche economicistiche più prettamente occidentali, e delle periferie, lontane dal mare e ancor meno interessate ad una espansione marittima cinese. Al momento, però, non sembrerebbe che l’obiettivo pedagogico di Xi sia vicino al raggiungimento.
Oltre alla motivazione prettamente strategica, Xi Jinping intende raggiungere l’unificazione di Taiwan anche per una questione ideologica – anche se poi, come nel caso della dinastia Qing a fine ‘600, la vera ragione resta quella securitaria. La Cina, infatti, non può che essere entità unita, unica. Il popolo cinese è uno, formato dall’etnia Han, e in questa rientrerebbero i taiwanesi. Imperativo strategico interno è scoraggiare e reprimere i tentativi di autodeterminazione delle periferie, come fatto con Hong Kong, come si sta facendo con gli Uiguri nello Xinjiang e con le minoranze mongole nel nord. Queste regioni, inoltre, hanno un’ulteriore importanza strategica in base alla quale devono essere saldamente controllate dalla Repubblica Popolare. In caso di una eventuale invasione da terra da Occidente e da Nord, devono fungere da cuscinetto. devono essere le province deputate ad assorbire le truppe nemiche.
Altra direttrice verso la quale Pechino mostra crescente interesse è il Mar Cinese Meridionale. L’espansionismo marittimo cinese, infatti, oltre che ad Est verso Taiwan guarda a Sud. In questo mare che lambisce le coste di Vietnam, Filippine e Malesia negli ultimi anni la Repubblica Popolare ha assunto atteggiamenti molto assertivi. Gli scontri con le navi della Guardia costiera e della marina di Manila, così come quelli con i pescherecci filippini, sono all’ordine del giorno. Tuttavia, la principale attività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale è la rivendicazione di isole negli arcipelaghi delle Spratly e Paracelso – che legalmente apparterrebbero a Vietnam e Filippine – e la creazione di veri e propri atolli.
La Cina, infatti, ha l’intenzione di posizionare su queste isole artificiali basi militari e postazioni di avvistamento per proiettarsi verso il malese stretto di Malacca, il cui controllo, o quanto meno l’esercizio di una certa influenza su di esso, sarebbe necessario quasi al pari del controllo di Taiwan. Ad ogni modo, anche il progetto di creazione di isole artificiali non sembra essere pienamente realizzabile. Oltre all’opposizione di Vietnam – con Hanoi che a sua volta crea atolli, nell’ultimo anno per una superfice record di 2,8 chilometri quadrati – e Filippine, la logistica per eventuali basi militari nel Mar Cinese Meridionale sarebbe complessa. Inoltre, queste basi sarebbero esposte ad attacchi, vista la loro vulnerabilità. Per questo motivo, sembrerebbe che Pechino voglia piuttosto utilizzare gli atolli artificiali come basi per la partenza di droni.
Qual è, invece, la postura di Washington di fronte ad un tale attivismo di Pechino? Come esposto nel paragrafo precedente, già subito dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese gli Stati Uniti hanno compreso l’importanza strategica di Taiwan e del contenimento marittimo della Cina. Soltanto così Pechino non sarebbe mai diventata un pari di Washington. Pertanto, l’America, in seguito agli accordi stipulati con Taipei alla fine degli anni ’50, nel 1979 ha rinnovato il proprio impegno con Formosa: il Congresso adottò il Taiwan Relations Act. Attraverso questo atto, che regola tutt’ora i rapporti tra gli Stati Uniti e Taipei, gli Stati Uniti, pur riconoscendo una sola Cina – quella continentale – ed evitando di dichiarare il loro sostegno diretto a Taiwan, hanno intrapreso la strada dell’ambiguità strategica.
La pace e la stabilità nell’area non sono solo un interesse politico, securitario ed economico per Washington, ma sono anche questioni di interesse internazionale. L’atto prosegue statuendo che il mantenimento di buone relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Repubblica Popolare è subordinato alla risoluzione pacifica della questione taiwanese e che ogni altro tentativo di risolverla diversamente, anche solo attraverso boicottaggi o embarghi, sarà interpretato come una minaccia alla sicurezza del Pacifico Occidentale e costituirà motivo di grave preoccupazione per gli Stati Uniti. Inoltre, è stabilito che Washington provvederà a rifornire Taiwan di armi e sistemi d’arma a scopo esclusivamente difensivo per permettere a Taipei di resistere a qualunque tentativo di mettere a repentaglio, con o senza l’uso della forza, la sicurezza, l’economia e la società taiwanesi. Insomma, un’ambiguità strategica neanche troppo velatamente celata.
Ricoprono un ruolo centrale nel contenimento della Cina altri tre Paesi, i fedeli Corea del Sud e Giappone e la novità, se così la si può chiamare visto che è stata la prima e unica colonia americana, Filippine. Pur avendo un compito importante, sul ruolo di Seul qui non ci si soffermerà. Tokyo è parte del Quad, il Dialogo quadrilaterale di sicurezza un gruppo di quattro Paesi – Stati Uniti, Giappone, Australia e India – che in origine si erano riuniti principalmente per affrontare e organizzare gli aiuti umanitari in seguito allo tsunami nell’Oceano Indiano del 2004. Tuttavia, passato il periodo emergenziale, l’alleanza ha continuato ad esistere, e, anzi, si è molto rafforzata, fino a diventare una vera e propria alleanza strategica informale. Scopo? Anche in questo caso il contenimento della Cina.
Tra i membri del Quad gioca un ruolo centrale proprio il Giappone. Infatti, non molto ad est di Taiwan si trova l’arcipelago della Prefettura di Okinawa, che funge da ulteriore serratura contro il libero accesso al mare di Pechino. Nel contenere la Repubblica Popolare anche l’Australia ha un compito non secondario, sebbene sia meno centrale di Tokyo. Infatti, dal momento che le vie dell’Oceano Pacifico centrale e del Mar Cinese Meridionale risultano tortuose, Pechino sembra voler tentare di aggirare la cintura americana, mirando a costruire partnership strategiche con i Paesi del Pacifico Sud-orientale. Xi Jinping, dunque, sta intensificando gli incontri con i presidenti di Stati come le Fiji (dove si è recato a novembre 2023) e altri, da sempre nella diretta sfera di influenza di Canberra, il suo cortile di casa insomma. Per ora, Pechino però non sembrerebbe riuscire a penetrare efficacemente negli arcipelaghi dell’Oceania.
È invece nei confronti di Manila che la postura di Pechino è sempre più assertiva. La Repubblica Popolare ha sviluppato la cosìddetta “linea dei dieci tratti”, attraverso la quale ridisegna i confini marittimi nel Mar Cinese Meridionale e compie le maggiori rivendicazioni territoriali. Nonostante nel 2016 una Corte internazionale avesse dichiarato inefficace la linea dei nove tratti (precedente a quella dei dieci) in quanto in violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), Pechino ha addirittura aumentato il suo attivismo. Infatti, dal momento che la linea dei dieci tratti si incontra e va oltre la linea di demarcazione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) di Manila, proprio in quest’area, la Repubblica Popolare intende affermare la propria supremazia. Per questo, la marina cinese compie costantemente aggressive manovre nei confronti della guardia costiera e della marina filippina.
Manila, da decenni alleata degli Stati Uniti, in risposta a tali atteggiamenti di Pechino, lo scorso aprile ha organizzato le periodiche manovre di addestramento con Washington al di fuori delle proprie acque territoriali, dentro la ZEE, oggetto di rivendicazione cinese. A queste esercitazioni, denominate “Balikatan”, ha inoltre preso parte per la prima volta anche la Francia, per rispondere al bisogno americano di coinvolgere più potenze nel contenimento cinese. Per sottolineare ancor di più l’importanza di Manila nell’argine anticinese, poi, in corrispondenza delle esercitazioni navali di cui sopra, Anthony Blinken ha definito l’alleanza con Manila “ironclad”, come una corazzata.
Insomma, se la Repubblica Popolare si fa sempre più assertiva, il contenimento organizzato da Washington è sempre più stringente, arrivando a coinvolgere anche il Vietnam, Paese che, per chiare motivazioni storiche, è piuttosto lontano dalle politiche statunitensi, e che, ad ogni modo, intende avvicinarsi a Washington pur mantenendo sempre forte identità e ben chiari interessi nazionali. Tuttavia, il Vietnam è uno stato che sarà sempre più importante nel contenimento di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, come ha dimostrato lo storico viaggio ad Hanoi del presidente Biden a settembre 2023, quando è stata siglata una prima, e forse epocale, partnership strategica tra Stati Uniti e Vietnam.
2. L’identità taiwanese
In questa contingenza a dir poco burrascosa, Taiwan ha scelto che strada percorrere. Dai primissimi anni ’90 Taipei ha intrapreso un percorso di notevole e crescente democraticizzazione in senso marcatamente occidentale per smarcarsi il più possibile dalla Repubblica Popolare e dalla storia che, inevitabilmente, si è intrecciata con quella di Pechino. Nella lettura della storia in salsa taiwanese promossa dal Partito Progressista Democratico (Ppd) al governo da anni, quindi, si è scelto di alimentare il desiderio di affrancarsi sempre più dall’autoritario fondatore della Repubblica di Cina Chiang Kai-shek. L’esaltazione della discendenza aborigena è divenuta elemento cardine della creazione di una forte identità nazionale altra rispetto a quella cinese.
Si è scelto anche di valorizzare tanto il breve periodo di dominazione olandese prima della conquista dell’isola da parte della dinastia Qing nel 1684, quanto la stessa colonizzazione giapponese. Infatti, sebbene Tokyo si sia resa responsabile di repressioni e di un governo certamente non liberale, si riconosce che nei cinquant’anni di colonizzazione abbia portato Taiwan nella contemporaneità. L’Impero del Sol Levante avrebbe modernizzato le infrastrutture, l’economia e la società. Insomma, pilastro di Taiwan è la multietnicità. Ad ogni modo, il 95% della popolazione è cinese di etnia Han, ma anche riguardo a ciò Taipei evidenzia che in realtà l’etnia di provenienza della popolazione di origine cinese non si può considerare omogenea. L’etnia Han è, infatti, una creazione di Sun Yat-sen. Quindi più correttamente si dovrebbe parlare di etnie Hokklo e Hakka.
Le rivendicazioni di Pechino basate sulla stessa appartenenza etnica, di conseguenza, non troverebbero alcun fondamento. Il governo di Taipei, poi, sottolinea anche il fatto che la Repubblica Popolare non ha mai governato l’isola, la quale, quindi, non si può in alcun modo considerare alla stregua di regioni che Pechino considera ribelli come lo Xinjiang. Sebbene queste politiche sostenute dal Ppd (al governo dal 2016) apertamente contrastanti con la narrazione cinese trovino sempre maggior consenso – soprattutto tra i giovani taiwanesi – non si può trascurare la posizione del Kuomintang.
Il Kmt – come si ricorderà fondatore della Taiwan autonoma e per decenni sul piede di guerra con la Repubblica Popolare – ha deciso, se non di abbracciare a pieno le istanze del Partito Comunista Cinese, quanto meno di porsi molto favorevolmente ad un dialogo con il PCC. Partendo dalla comune appartenenza etnica – in merito alla quale Eric Chu, attuale leader del Kmt, afferma che «cinesi e taiwanesi sono tutti figli dell’imperatore giallo», quindi parte dello stesso ceppo etnico – il Kuomintang oggi sembrerebbe sostenere l’unificazione con la Cina. Unificazione che, secondo le proposte di Pechino e in base a quanto sostenuto dal Kmt, non si configurerebbe in una sottomissione completa alla Repubblica Popolare. Promuovendo il modello Hong Kong, “un Paese, due sistemi”, si afferma che a Taipei sarebbe garantito un certo grado di autonomia. Tuttavia, in conseguenza di quanto avviene ad Hong Kong dal 2016, con ingerenze e repressioni sempre crescenti da parte di Pechino (dalla libertà di stampa, alle elezioni, fino al culmine raggiunto con l’adozione della legge sulla sicurezza nazionale), la soluzione “un Paese, due sistemi” per i taiwanesi non sarebbe più accettabile.
Tuttavia, a Taiwan l’attrazione per le istanze cinesi non è scomparsa, anzi. Come conferma il risultato del Kuomintang alle elezioni di gennaio scorso – quando ha raggiunto il 33% dei voti degli aventi diritto – una consistente parte della popolazione non rinnega la Repubblica Popolare. Si tratta per lo più delle generazioni più anziane, però, questo considerevole bacino, unito anche a quello del Partito Popolare (posizionatosi terzo alle elezioni, con il 26% dei voti), non schierato né per l’indipendenza né per l’unificazione, favorevole a mantenere lo status quo, potrebbe rappresentare un importante grimaldello per la propaganda cinese.
Ad ogni modo, si può tentare una previsione piuttosto probabile: più scorre il tempo, più si rafforzeranno le istanze autonomiste sostenute dal Partito Progressista Democratico e la creazione di una forte identità nazionale. La presa di Pechino sulla popolazione taiwanese è sempre meno salda.
3. Una guerra per Taiwan?
Uno sguardo finale non può che essere rivolto alle prospettive future di Taipei. Ci siamo ampiamente soffermati sulla centralità strategica e simbolica di Taiwan tanto per la Cina quanto per gli Stati Uniti, per i quali l’isola gioca anche un importante ruolo dal punto di vista economico – nello specifico, per la produzione di semiconduttori, vitali per la ripresa dell’industria americana, segnatamente dell’industria militare. Tuttavia, si deve prendere in considerazione un altro elemento fondamentale per tentare di delineare i possibili esiti della questione taiwanese: il tempo.
Xi Jinping è conscio del fatto che il fattore tempo potrebbe non giocare dalla sua parte. O, meglio, il trascorrere del tempo non favorirebbe una pacifica unificazione dal momento che le posizioni politiche della popolazione taiwanese sembrerebbero molto chiare, e non farebbero che cementificarsi in futuro. A Pechino si è quindi iniziata a valutare l’opzione militare, ponendosi come obiettivo per l’unificazione il centenario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese (il 2049), anche se fonti di intelligence statunitensi prospettano come realistico il biennio 2027-2028. Pechino ha iniziato a valutare seriamente anche l’opzione militare in considerazione della crisi interna che, al momento, sconvolge Washington (argomento che qui, per ovvi motivi di spazio, non può essere oggetto di analisi). Xi Jinping, quindi, dopo aver riformato le Forze Armate in seguito al suo primo mandato, si è concentrato sugli investimenti nella marina e nel, settore missilistico.
Qualora si decidesse di prendere Taiwan manu militari, infatti, negli war games al Pentagono si prevedono due diverse soluzioni: la saturazione dei sistemi antimissilistici di Taipei attraverso l’utilizzo di numerose migliaia di missili balistici che andrebbero a colpire le infrastrutture chiave dell’isola, scommettendo sulla pressione cui sarebbe sottoposta la popolazione, unitamente alla pressione esercitata da un blocco navale intorno a Taiwan; l’invasione vera e propria dell’isola che seguirebbe gli attacchi missilistici e implicherebbe il primario dispiegamento di truppe aviotrasportate presso infrastrutture chiave, come porti e aeroporti, e a cui poi seguirebbe lo sbarco in forze. La prima soluzione, seppur implicherebbe un minor sacrificio di uomini e una minor distruzione degli edifici taiwanesi, considerate le lezioni dal fronte ucraino potrebbe non abbattere il morale della popolazione, ma, anzi, rinvigorirlo – anche se bisogna dire che Taiwan, se sottoposta ad un blocco navale, avrebbe vita breve essendo completamente dipendente dall’estero dal punto di vista energetico.
Lo sbarco, invece, è la soluzione più rischiosa. L’isola presenta una costa frastagliata, ricca di faraglioni, a tal punto che in soli due punti sarebbero fattibili ampie operazioni di sbarco. Inoltre, le acque dello stretto di Taiwan, ma anche ad est dell’isola, sono piuttosto burrascose. Insomma, operazioni del genere richiedono grande addestramento. Come richiede una preparazione specifica la guerriglia urbana che ne conseguirebbe. Entrambe sono operazioni per le quali l’Esercito Popolare di Liberazione non sarebbe ben addestrato. Una cosa è avere forze armate periodicamente addestrate, anche a fuoco vivo, altra è disporre di soldati abituati a queste tipologie di combattimento, cosa che Pechino sicuramente non ha.
Come procedono, invece, gli Stati Uniti? Washington, dal canto suo, non può permettere che Pechino abbia la meglio su Taiwan. Né per le motivazioni strategiche, né per il fatto che verrebbe meno tanto il sistema di alleanze e partnership che l’America ha costruito nell’Indo-Pacifico, quanto la credibile deterrenza che essa si propone di esercitare. Pertanto, Washington da decenni porta avanti la cosìddetta tattica del porcospino: fornire a Taipei talmente tanti aculei – rappresentati da missili antiaerei, missili a spalla, droni, caccia, elicotteri, insomma tutti quegli armamenti che permetterebbero alle truppe taiwanesi di combattere una efficace guerra asimmetrica contro le superiori forze cinesi – da infliggere pesantissime perdite all’Esercito Popolare di Liberazione. Oltre a ciò, le forze armate taiwanesi dovrebbero essere costantemente addestrate e ringiovanite, elementi di cui Washington, però, non sembra essere soddisfatta.
Lo scopo di tutto ciò sarebbe sia deterrente, infatti la Repubblica Popolare non sembrerebbe pronta a sostenere un tale sforzo bellico e potrebbe avere difficoltà a giustificare tali perdite, che strategico. Gli Stati Uniti, infatti, si devono tener pronti ad intervenire anche nel peggiore dei casi. La resistenza taiwanese ad un massiccio attacco dell’Esercito Popolare di Liberazione, che si stima essere di circa 15 giorni, deve rendere possibile il dispiegamento delle forze americane ad est dell’isola. L’obiettivo statunitense sarebbe, in coordinamento con gli alleati Giappone e Australia – necessari per le basi aeree ed eventualmente, soprattutto nel caso di Tokyo, per aprire un secondo e non facile fronte contro Pechino – di riconquistare la supremazia aerea sopra Taiwan, far sbarcare e paracadutare uomini sull’isola e costringere alla ritirata l’Esercito cinese. Si stima che un’operazione del genere potrebbe provocare, tra le truppe statunitensi, un minimo di 7 mila ed un massimo di 30 mila perdite, realisticamente tra i 13 e i 15 mila morti e feriti. In quattro settimane. Da parte cinese si avrebbero perdite anche maggiori.
Ebbene, essendo questo un rischio concreto, da Washington sono chiari con Taipei: nessuna dichiarazione unilaterale di indipendenza, che inevitabilmente farebbe impennare l’asticella del confronto. Sembrerebbe, quindi, che il Partito Progressista Democratico dia ascolto ai moniti della Casa Bianca, come dimostrano le parole del Ministro degli Esteri della Repubblica di Cina: «Taiwan non ha bisogno di dichiarare l’indipendenza: siamo già uno Stato indipendente e sovrano. Abbiamo un governo e un esercito, emettiamo passaporti, eleggiamo il nostro presidente con il voto popolare, abbiamo relazioni diplomatiche con 15 Stati [N.d.R., a gennaio 2024 Taiwan ha relazioni con 12 Stati]»[1]. Lo stesso Lai Ching-te, il neo insediato presidente di Taiwan, ha confermato questa concezione di Taiwan come uno Stato de facto indipendente, sottolineando nuovamente che Taipei non ha nessuna intenzione di provocare la Cina.
Una guerra per Taiwan, quindi, non sembra convenire né al Numero Uno né al Numero Due al mondo e la strada “una Cina, due sistemi” ventilata da Pechino non è percorribile per Taipei. Washington, pertanto, per mantenere a Taiwan uno status di autonomia e indipendenza de facto, potrebbe rafforzare il deterrente nella regione, potenziare l’attività di intelligence per cogliere ogni minima avvisaglia di aumento del rischio. Dall’altro lato, però, la Casa Bianca potrebbe procedere con il riconoscimento della Repubblica Popolare come sua pari, in modo da favorire l’equilibrio di potenza ed evitare che la situazione sfugga di mano. Dunque, gli Stati Uniti potrebbero riconoscere a Pechino, ad esempio, maggior libertà nel Mar Cinese Meridionale, allentando il nodo che stanno stringendo attorno alla Cina. Tuttavia, una eventuale amministrazione Trump renderebbe vani tutti i tentativi di dialogo. A quel punto, anche quella che sembrerebbe essere una guerra non voluta da entrambe le parti, potrebbe deflagrare, con tutte le drammatiche ripercussioni sull’intero sistema internazionale.
[1] ‘La Cina unica non esiste, Taiwan non si piegherà alla prepotenza di Pechino’, Conversazione con Jaushieh Joseph Wu, ministro degli Esteri della Repubblica di Cina (Taiwan), a cura di Lucio Caracciolo e Giorgio Cuscito, in Taiwan, l’anti-Cina, Limes, 09/2021.